La restituzione al datore di lavoro delle somme che il lavoratore ha indebitamente percepito a titolo di indennità di preavviso deve avvenire, nelle ipotesi di accertamento della nullità del licenziamento, senza l’automatica rivalutazione monetaria di cui all’art. 429, co. 3 c.p.c. e al netto delle ritenute fiscali subite. Ne deriva, dal punto di vista giuslavoristico, che, ai fini del risarcimento del danno da svalutazione monetaria, spetta al datore di lavoro provarlo ai sensi dell’art. 1224, co. 2, c.c. e, dal punto di vista tributario, che la ripetizione delle somme deve essere limitata al quantum effettivamente percepito dal lavoratore.
Nota a Cass. (ord.) 12 giugno 2019, n. 15755
Marialuisa De Vita
Con l’ordinanza 12 giugno 2019, n. 15755, la Corte di Cassazione torna, ancora una volta, a pronunciarsi in tema di ripetizione di somme da parte del datore di lavoro nei confronti del lavoratore.
Nel caso di specie, un lavoratore otteneva dal Tribunale una sentenza con cui, accertata preliminarmente la nullità del licenziamento intimatogli da una società, la società medesima veniva condannata a versare in favore del lavoratore le retribuzioni maturate dal licenziamento fino alla data di effettiva reintegrazione nel posto di lavoro. Tuttavia, il lavoratore veniva condannato dal Tribunale e, successivamente, anche dalla Corte di Appello, a restituire alla società le somme percepite a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, maggiorate di interessi e di rivalutazione monetaria ex art. 429, co. 3 c.p.c., al lordo delle ritenute fiscali e contributive operate dalla società su tali somme.
La Corte di Cassazione, accogliendo i motivi di ricorso proposti dal lavoratore, conferma l’obbligo di quest’ultimo di restituire le indennità di preavviso percepite, ma, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito, ne esclude l’automatica maggiorazione per la rivalutazione monetaria e limita il quantum da restituire all’importo corrispondente alle indennità considerate al netto delle ritenute subite.
In particolare, quanto al profilo relativo alla maggiorazione automatica per la rivalutazione monetaria, la Suprema Corte nega l’applicazione al caso di specie dell’art. 429, co. 3 c.p.c., secondo cui “il giudice, quando pronuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del sul credito […]”.
La questione controversa ruota attorno al significato da attribuire alla locuzione “crediti di lavoro”. Questa, chiariscono i giudici di legittimità, deve essere riferita solo ai crediti che derivano “dallo svolgimento di prestazione lavorativa alle dipendenze di altro soggetto, o in coordinamento con lui, non da attività lavorativa organizzata in forma societaria o d’impresa”. In altri termini, il riconoscimento in via automatica della rivalutazione monetaria sulle somme dovute nell’ambito del rapporto di lavoro di cui all’art. 429, co. 3 c.p.c. opera soltanto per i crediti di lavoro di cui risulta essere titolare il lavoratore subordinato o il lavoratore che non abbia organizzato la propria attività avvalendosi di un’autonoma struttura imprenditoriale (c.d. lavoratore parasubordinato) e non anche per i crediti restitutori previsti in favore del datore di lavoro, in quanto trattasi di “una disposizione legislativa posta in essere nell’interesse del lavoratore creditore […] che garantisce un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto dalla disciplina generale di cui all’art. 1224 c.c., in caso di ritardato o mancato pagamento di un’obbligazione di valuta”.
Ne consegue che, in questi casi, il datore di lavoro, ai fini del risarcimento del danno da svalutazione monetaria, non potrà avvalersi dell’automatismo di cui all’art. 429, co. 3 c.p.c., ma dovrà agire ai sensi dell’art. 1224, co. 2, c.c., dimostrando di aver subìto un danno non ristorabile con i soli interessi moratori.
Quanto al profilo relativo alla restituzione delle somme dovute al datore di lavoro al lordo o al netto delle ritenute operate, la Corte di Cassazione con la pronuncia in commento ribadisce il principio, ormai consolidato (cfr. Cass. n. 31766/2018 annotata in questo sito da M. DE VITA, Esclusa la possibilità per il datore di lavoro di chiedere al lavoratore la restituzione di somme al lordo delle ritenute fiscali), secondo cui in applicazione dell’art. 2033 c.c. “il datore di lavoro ha diritto di ripetere quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pertanto pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente”. In altri termini, il datore di lavoro, ai fini della restituzione delle somme corrispondenti alle ritenute operate, dovrà agire direttamente, ai sensi dell’art. 38 D.P.R. n. 602/1973, nei confronti della sola Amministrazione finanziaria.