In caso di annullamento delle dimissioni per temporanea incapacità di intendere e volere, con ripristino del rapporto di lavoro, sono dovuti gli stipendi arretrati.
Nota a Cass. 25 giugno 2019, n. 16998
Paolo Pizzuti
Qualora le dimissioni del lavoratore vengano annullate per temporanea incapacità d’intendere e di volere, ex art. 428, co.1, c.c., gli arretrati spettano dal momento della domanda giudiziale.
È questo l’importante principio enunciato dalla Corte di Cassazione (25 giugno 2019, n. 16998), la quale rileva come, con riguardo alle dimissioni, sia pacifico nella giurisprudenza di legittimità che la pronunzia giudiziale di annullamento per la sua efficacia costitutiva comporti il ripristino del rapporto attribuendo al dimissionario la posizione giuridica di cui era titolare in precedenza.
Dibattuta è stata invece l’individuazione delle conseguenze di tale annullamento sul piano economico. Ci si è chiesti in particolare se il lavoratore abbia diritto a percepire le retribuzioni maturate dal giorno delle dimissioni fino alla sentenza di annullamento.
Al riguardo, secondo la Corte, ricondurre la decorrenza della retribuzione alla data della sentenza sarebbe del tutto iniquo per il lavoratore che si veda riconoscere il diritto all’annullamento delle dimissioni. Poiché ciò significherebbe “far pesare sulla parte che, a ragione, domanda giustizia, i tempi della risposta giudiziaria – tra l’altro in violazione del principio costituzionale (art. 111 Cost., co. 1) del c.d. giusto processo”. Del resto, già la sentenza della Cassazione n. 8886/2010 (v. anche Cass. n. 4232/2019) aveva modificato parzialmente tale orientamento, affermando che gli effetti della sentenza di annullamento retroagiscono al momento della domanda giudiziale, “in ragione del principio generale per il quale la durata del processo non deve mai andare a detrimento della parte vincitrice”.
D’altra parte, secondo la Corte, “se la questione che rileva è quella degli effetti del processo sul diritto sostanziale non si vede perché occorrerebbe fare riferimento alla sentenza esecutiva di annullamento e ricostituzione del rapporto o non piuttosto dal suo passaggio in giudicato. La prima, infatti, costituisce un effetto provvisorio e causale (può accadere in primo ed in secondo grado ed anche in sede di rinvio) e non è ragionevolmente sostenibile che gli effetti sostanziali del processo possano essere regolati in ragione dell’occasionale momento in cui sopravviene (o meno) una certa pronuncia”.
Pertanto, “i diritti retributivi non possono essere disconosciuti successivamente alla proposizione della domanda giudiziale, dopo la quale soccorre il principio secondo cui la durata del processo non può andare a discapito della parte che ha ragione o meglio non può pregiudicare la parte che si vedrà riconoscere la propria ragione (v. Corte Cost. 23 giugno 1994, n. 253): se il fine del processo è dare a chi ha ragione tutto e proprio quello che gli spettava secondo il diritto sostanziale, non è possibile che la durata dello stesso penalizzi colui che, alla fine, risulterà aver avuto bisogno del processo per il riconoscimento di tale ragione e che potrebbe anche trovarsi esposto ad effetti indiretti ed indesiderati quali quelli di un possibile impiego dilatorio dello strumento giudiziale”.
Resta così superato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui nel caso di dimissioni per incapacità naturale del lavoratore la retribuzione non spetta dalla data delle dimissioni bensì dalla data della sentenza che dichiara l’illegittimità delle dimissioni stesse. Ciò, sul presupposto che l’annullamento di un negozio giuridico, anche se ha efficacia retroattiva, non comporta anche il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle dimissioni a quella della riammissione al lavoro, che, salvo espressa previsione di legge, non sono dovute in mancanza della prestazione lavorativa.
La Corte precisa altresì che l’incapacità naturale “impedisce ab intrinseco la cosciente e libera determinazione del soggetto”. Sicché, mentre i vizi della volontà (errore, violenza e dolo) incidono sul processo volitivo inducendo un soggetto pur cosciente a compiere un atto che spontaneamente non avrebbe posto in essere, l’incapacità priva il soggetto della facoltà di percepire e valutare il contenuto dell’atto. Pertanto, il lavoratore “nel momento di incapacità di intendere e volere, si trova in una situazione di particolare debolezza perché privo di qualunque consapevolezza dell’atto che sta per compiere” (v. Cass. n. 22900/2005 e Cass. n. 7327/2002).
Spetta inoltre al lavoratore che agisca ex art. 428, co.1, c.c., provare la sussistenza dello stato d’incapacità nonché il grave pregiudizio subìto (Cass. n. 7292/2008 e Cass. n. 13045/2005), non essendo per converso necessario che risulti la malafede del datore di lavoro, diversamente dai contratti, per i quali vige la specifica disposizione di cui al co. 2, dell’art. 428 c.c., che impone quale condizione la malafede dell’altro contraente (Cass. n. 2500/2017 e n. 15213/2015).
Per provare l’incapacità naturale non occorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, “essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente, facendo così venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto e la consapevolezza in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere (v. Cass. n. 30126/2018, in questo sito con nota di M.N. BETTINI, Dimissioni e grave turbamento psichico; Cass. n. 2500/2017, cit.).
La prova del grave pregiudizio non ha un contenuto esclusivamente patrimoniale, ma è comprensiva di tutti gli effetti negativi derivanti dall’atto compiuto sull’intera sfera di interessi del soggetto (Cass. n. 10577/1990 e Cass. n. 1375/1986).