Nel rapporto di lavoro a tempo pieno la riduzione dell’orario è ammessa su accordo delle parti provato anche mediante comportamento concludente.

Nota a  Cass. 29 maggio 2019, n. 14684

 Gennaro Ilias Vigliotti

Il rapporto di lavoro subordinato si presume a tempo pieno a meno che non vi sia la prova di un rapporto part-time, nascente da atto scritto ed è onere del datore di lavoro che alleghi la durata limitata dell’orario fornire, anche per “facta concludentia”, la prova della riduzione della prestazione lavorativa; riduzione che egli non può disporre unilateralmente, potendo conseguire soltanto ad accordo tra le parti.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione (29 maggio 2019, n. 14684) in relazione alla diminuzione dell’orario lavorativo disposta da una cooperativa nei confronti di alcuni soci lavoratori (al fine di evitare licenziamenti) ed al conseguente ricorso di una delle lavoratrici finalizzato ad ottenere il pagamento delle differenze retributive maturate in relazione al maggiore orario lavorativo contrattualmente previsto (38 ore settimanali) a fronte del minore orario lavorato di 36 ore.

La Corte d’appello di Cagliari (4 luglio 2014), confermata dalla sentenza in esame, aveva rigettato il ricorso della lavoratrice, rilevando che la riduzione dell’orario lavorativo era stata predisposta ed accettata da tutti i soci lavoratori e che la lavoratrice aveva anche accettato il ruolo di referente per la predisposizione della turnazione in base al nuovo orario lavorativo ridotto, senza esprimere alcuna riserva.

Nello specifico, la Cassazione rileva, in ordine alla variazione in diminuzione dell’orario lavorativo, che il datore di lavoro non può unilateralmente ridurre o sospendere l’attività lavorativa e, specularmente, rifiutare di corrispondere la retribuzione. In tal caso, infatti, egli incorrerebbe nell’inadempimento contrattuale previsto dalla disciplina delle obbligazioni corrispettive, in base al quale “il rifiuto di eseguire la prestazione può essere opposto da un contraente (nella specie il datore di lavoro) soltanto se l’altra parte (il lavoratore) ometta di effettuare la prestazione da lui dovuta; ma non già quando questa sia impedita dalla volontà datoriale unilaterale, salva la prova a carico del medesimo di una impossibilità sopravvenuta, a norma degli artt. 1256, 1463 e 1464 c.c., fondata sull’inutilizzabilità della prestazione lavorativa per fatti non addebitabili al predetto, perché non prevedibili, né evitabili, nè riferibili a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale ovvero ad un calo di commesse o a crisi economiche o congiunturali o strutturali e “salvo comunque un eventuale accordo tra le parti” (cfr. Cass. n. 1375/2018 e Cass. n.7300/2004).

Quanto alla prova di tale accordo, il differente regime formale del rapporto a tempo pieno rispetto a quello a tempo parziale, che comporta una diversa e coerente modulazione dell’onere della prova, può essere assolto con la dimostrazione che la variazione in riduzione dell’orario di lavoro è stata concordata consensualmente tra le parti in base al loro comportamento concludente.

Tali patti, peraltro, dal momento che la perdita del corrispettivo discende dalla mancata esecuzione della prestazione, non hanno ad oggetto diritti di futura acquisizione né concretano rinunzia alla retribuzione, invalida a norma dell’art. 2113 c.c. (v. Cass. n. 1375/2018 e  n. 9475/2009).

Riduzione dell’orario lavorativo e onere della prova
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