Il potere della Cassa di Previdenza Forense di rettificare la liquidazione della pensione è soggetto a prescrizione decennale.
Nota a Cass. 19 giugno 2019, n. 16415
Francesco Belmonte
La cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza Forense, stante la natura pubblica dell’attività svolta, può procedere alla rettifica della liquidazione della pensione entro determinati limiti temporali.
Lo ha enunciato la Corte di Cassazione (Cass. 19 giugno 2019, n. 16415) stabilendo che la Cassa Forense (quale ente con personalità di diritto privato) può rettificare la misura della pensione da essa liquidata (a differenza di quanto è previsto dalla L. n. 88 del 1989, art. 52 in riferimento alle gestioni previdenziali affidate all’INPS). Siffatto “potere può essere esercitato nei limiti della prescrizione decennale, secondo quanto è dato desumere dalla L. n. 876 del 1980, art. 20, che prevede la facoltà dell’ente previdenziale di controllare, all’atto della domanda di pensione, la corrispondenza tra le dichiarazioni annuali dei redditi e le comunicazioni annualmente inviate dallo stesso iscritto, limitatamente agli ultimi dieci anni, così da far prevalere l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici rispetto all’esigenza di far valere, senza limiti temporali, l’esatta corrispondenza della posizione contributiva-previdenziale delle regole disciplinanti la sua configurazione.”
Tale pronuncia della Corte diverge dall’indirizzo fin qui condiviso, secondo cui l’ammontare della prestazione pensionistica, correttamente calcolata in proporzione ai contributi versati e secondo la normativa vigente, non può essere oggetto di unilaterali riduzioni da parte di provvedimenti dell’Ente previdenziale.
La Cassazione aveva infatti precisato che “una volta maturato il diritto alla pensione di anzianità, l’Ente previdenziale debitore non può, con atto unilaterale, regolamentare o negoziale, ridurne l’importo, tanto meno adducendo generiche ragioni finanziarie, poiché ciò lederebbe l’affidamento del pensionato, tutelato dall’art. 3 Cost., comma 2, nella consistenza economica del proprio diritto soggettivo”.
Tale affermazione si fondava sul rilievo che: a) “…il diritto soggettivo alla pensione, che per il lavoratore subordinato o autonomo matura quando si verifichino tutti i requisiti, può essere limitato, quanto alla proporzione fra contributi versati ed ammontare delle prestazioni, dalla legge, la quale può disporre in senso sfavorevole anche quando, maturato il diritto, siano in corso di pagamento i singoli ratei, ossia quando il rapporto di durata sia nella fase di attuazione.” Ciò purché “la legge sopravvenuta non oltrepassi il limite della ragionevolezza, ossia che non leda l’affidamento dell’assicurato in una consistenza della pensione, proporzionale alla quantità dei contributi versati.” (v. Corte Cost. nn. 525/2000; 432/97; 50/97; 16/94; 6/94 e 39/93, che ha sempre ritenuto illegittima la norma che violi “l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, quale elemento essenziale dello Stato di diritto”); b) pertanto, è “contrario al principio di ragionevolezza (art. 3 Cost., comma 2) l’atto infralegislativo, amministrativo o negoziale, con cui l’ente previdenziale debitore riduca unilateralmente l’ammontare della prestazione mentre il rapporto pensionistico si svolge, ossia non si limiti a disporre pro futuro con riguardo a pensioni non ancora maturate. In tal caso l’iniziativa unilaterale, e non legislativa, colpirebbe più gravemente la sicurezza dei rapporti giuridici.” (v. Cass. n. 11792/2005).