Ai fini dell’affermazione di una condotta dannosa e mobbizzante ai sensi dell’art. 2087 c.c., il lavoratore è tenuto ad indicare la specifica misura di sicurezza violata, l’evento lesivo della propria integrità psicofisica, nonché il nesso tra illecito e pregiudizio.

Nota a Cass. 4 luglio 2019, n. 18000

Sonia Gioia

In materia di obblighi di protezione, “incombe al lavoratore che lamenti di aver subito,  a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure di allegare la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro”.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione (4 luglio 2019, n. 18000), confermando la pronuncia di merito (App. L’Aquila 14 luglio 2016) che aveva respinto la domanda di un lavoratore che lamentava di aver subìto una condotta dannosa e mobbizzante.

In primis, il dipendente non aveva individuato la specifica misura di sicurezza violata né dimostrato come la patologia sofferta (sindrome ansioso depressiva) fosse ricollegabile alle mansioni svolte (addetto imballo rotoli), alle quali, peraltro, lo stesso prestatore era stato giudicato idoneo dal medico aziendale. E ciò “anche alla luce della notevole distanza di tempo tra adibizione alle mansioni contestate e la prima diagnosi di sindrome ansioso depressiva seguita dopo poco tempo dalla cessazione del rapporto di lavoro nonché dalla ricorrenza di fattore causale extralavorativo, costituito dalla pregressa patologia tumorale”.

In secundis, la Corte territoriale aveva escluso il preteso mobbing, non essendo emersa, dalle risultanze istruttorie, la prova della sussistenza dei suoi elementi costitutivi (n.d.r. reiterazione di comportamenti vessatori ed intento persecutorio), ma solo di un mero conflitto interpersonale tra lavoratore e capo reparto.

Come noto, il mobbing consiste in una condotta del datore di lavoro,  del superiore gerarchico (c.d. mobbing discendente), dei colleghi o dei sottoposti (c.d. mobbing orizzontale o ascendente), “sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore che si risolve in reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità” (Cass. n. 30673/2018, annotata in questo sito da S. GIOIA, Configurabilità del mobbing).

Nell’ordinamento vigente, tale fenomeno può essere inquadrato nella disposizione dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare, oltre all’integrità fisica, anche la personalità morale e la dignità del lavoratore.  La responsabilità che ne deriva è di natura contrattuale in quanto non dipende dal mero verificarsi dell’evento dannoso in connessione con l’espletamento dell’attività lavorativa ma è direttamente collegata alla violazione, da parte del datore di lavoro, “degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento”. Grava, pertanto, sul dipendente l’onere di provare l’evento lesivo della propria integrità psicofisica, il nesso eziologico tra le condotte persecutorie e il pregiudizio subìto, spettando poi al datore di lavoro dimostrare di avere adempiuto il proprio obbligo protettivo.

Responsabilità datoriale, mobbing e onere della prova
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