Le vicende di tipo risolutivo attinenti ad un rapporto di lavoro di fatto (ai sensi dell’art. 2126 c.c.) presso il cessionario, in seguito alla dichiarazione di illegittimità della cessione di ramo d’azienda non incidono sul diverso rapporto di lavoro con il cedente e sull’obbligo di quest’ultimo di corrispondere la retribuzione al lavoratore per il diverso rapporto di lavoro alle sue dipendenze.
Nota a App. Roma 3 giugno 2019, n. 2163
Alfonso Tagliamonte
In caso di illegittima cessione di ramo d’azienda, il lavoratore, che offra la propria prestazione al cedente dopo la sentenza di ricostituzione del rapporto di lavoro, ha diritto di ottenere dal cedente stesso la piena retribuzione, sebbene abbia continuato a lavorare per il cessionario percependo anche da questi il trattamento retributivo. Ciò, quindi, anche se il cedente in mora non abbia accettato la prestazione offerta (dal lavoratore stesso) in quanto, nella fattispecie, si è in presenza di due rapporti di lavoro: uno accertato con la sentenza ed uno di fatto.
È quanto affermato dalla Corte di Appello di Roma (3 giugno 2019, n. 2163), la quale si pone la questione se, pur in mancanza di norme ad hoc (come quelle relative all’appalto illecito ed alla somministrazione irregolare), nel caso di cessione di ramo d’azienda dichiarato illegittimo (ovvero nullo o inefficace o inopponibile ai lavoratori ceduti) per il periodo successivo alla sentenza, anche di primo grado, che abbia dichiarato questa illegittimità (o nullità, inefficacia, o inopponibilità) “e nel persistente rifiuto del cedente di ripristinare anche di fatto i rapporti di lavoro dei dipendenti a suo tempo ceduti, il pagamento della retribuzione da parte del cessionario” possa produrre l’effetto liberatorio del cedente (ex artt. 1180, co.1, c.c. e 2036, co.3, c.c.).
La Corte di Appello non condivide quelle pronunzie della Cassazione (nn. 14019/2018 e 14136/2018) per le quali, stante la sostituzione del cessionario al cedente nel rapporto giuridico con il lavoratore, il quale resta uguale nei suoi elementi oggettivi, ne consegue che “una ed una sola essendo la prestazione lavorativa che il lavoratore svolge nel ramo (illegittimamente ceduto), il pagamento della relativa retribuzione da parte del cessionario costituisce un pagamento consapevolmente effettuato da un soggetto che non è il vero creditore della prestazione, e dunque un adempimento del terzo cui consegue la liberazione del vero obbligato” (ai sensi dell’art. 1180, co.1, c.c.). “Con la conseguenza che il lavoratore non potrà ottenere dal cedente la medesima retribuzione corrispostagli dal cessionario, ma solo le differenze rispetto a quanto avrebbe percepito alle dipendenze del primo”.
Secondo la Corte di Appello questa tesi si fonda sul presupposto in base al quale il rapporto giuridico rimane uno ed unico, identico in tutti i suoi elementi, salvo la sostituzione di una delle parti (il datore di lavoro). Ma tale presupposto sussiste solo nell’ipotesi di cessione legittima di ramo d’azienda. Del resto, in altre pronunce, la stessa Cassazione ha escluso l’unicità del rapporto nell’ipotesi di cessione illegittima di ramo d’azienda, sostenendo che il rapporto presso il cessionario è un distinto e diverso rapporto, instaurato di fatto (ai sensi dell’art. 2126 c.c.), “mentre quello presso il cedente rimane esistente, sia pur di fatto quiescente fino a quando non venga dichiarata la nullità della cessione” (v. Cass. nn. 5856/2018; 5854/2018; 28508/2017; 17736/2016).
Pertanto, tutte le vicende (anche di tipo risolutivo) attinenti al (distinto) rapporto di lavoro di fatto (ai sensi dell’art. 2126 c.c.) presso il cessionario “non incidono in alcun modo sul diverso rapporto di lavoro con il cedente e sull’interesse ad agire del lavoratore per far valere la nullità (o l’inefficacia o l’inopponibilità) della cessione del ramo d’azienda ed ottenere così il ripristino del (diverso) rapporto di lavoro alle dipendenze del cedente”.
Trattandosi, perciò, di due distinti rapporti giuridici, la Corte territoriale conclude che il cessionario eroga la retribuzione che si riferisce al proprio rapporto giuridico (ossia al rapporto di cui è parte ex art. 2126 c.c., stante la nullità della cessione del contratto di lavoro, priva di consenso del lavoratore ceduto) e, dunque, “paga un debito proprio”; mentre il cedente rimane obbligato a corrispondere la retribuzione che si riferisce al suo diverso rapporto di lavoro, “una volta ripristinato dal giudice che abbia dichiarato la nullità (o l’inefficacia o l’inopponibilità) della cessione del ramo d’azienda” (in questo senso, v. Cass. SU. n. 2990/2018, in questo sito con nota di A. TAGLIAMONTE, Illecita interposizione di manodopera e natura delle somme spettanti al lavoratore).
Ciò, a differenza della somministrazione irregolare e dell’appalto illecito in cui il vero datore di lavoro (unico debitore) è il soggetto che ha ricevuto le prestazioni lavorative. Infatti, nella cessione illegittima (o inefficace o inopponibile), il cedente non è il soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione (avendola, anzi, rifiutata). E il cessionario non è un datore di lavoro fittizio, poiché “la prestazione lavorativa viene resa nell’ambito della sua organizzazione, per soddisfare il suo interesse giuridico ed economico, oggetto del rapporto di fatto ex art. 2126 c.c.”.
Di conseguenza, il cessionario non può dirsi “terzo”, con relativa inapplicabilità, alla corresponsione della retribuzione, degli artt. 1180 e 2036 c.c.; infatti, per configurare un indebito soggettivo ex art. 2036 c.c. oppure un inadempimento da parte di un terzo, ex art. 1180 c.c., “è necessaria l’altruità del debito che il solvens adempie, ossia quest’ultimo deve adempiere un debito (che possa dirsi) altrui e non un debito proprio”. Ad esempio, nella somministrazione irregolare (al pari che nell’appalto illecito) il somministratore, “per il periodo in cui la somministrazione ha avuto esecuzione in termini apparentemente regolari (poi negati dall’accertamento giurisdizionale) adempie ad un debito non proprio, bensì altrui, ossia dell’impresa utilizzatrice”. Per cui, con la sentenza che accerta l’irregolarità della somministrazione (ovvero l’illiceità dell’appalto) il rapporto di lavoro è ricostituito de iure con il datore di lavoro “sostanziale”, ex utilizzatore o ex committente. Del resto, le prestazioni lavorative erano già indirizzate a lui (accertato ex post come vero ed unico datore di lavoro) e come tali possono proseguire.
Del tutto differente è il caso della cessione illegittima di ramo d’azienda. In tale ipotesi, infatti, qualora il cedente non ripristini il rapporto di lavoro, la prestazione viene eseguita a favore del cessionario. Si configurano perciò due rapporti di lavoro: uno alle dipendenze del cessionario (il quale, a fronte della nullità del contratto di cessione, paga la retribuzione dovuta, quale debito proprio, sia pure ex art. 2126 c.c.) e l’altro, ricostituito de iure dal giudice, alle dipendenze del cedente, il quale deve ripristinare il rapporto, accettando la prestazione lavorativa ex novo offerta ed indirizzata verso la propria organizzazione d’impresa diversa e distinta (pur se coesistente e persistente) da quella del cessionario. In caso contrario, egli verserà in mora credendi e, come tale, rimarrà obbligato a corrispondere le retribuzioni relative al distinto rapporto di lavoro di cui è (rimasto parte).