Il regime di pagamento differito del TFS non è incostituzionale.
Nota a Corte Cost. 25 giugno 2019 n. 159
Flavia Durval
Il pagamento differito e rateale del trattamento di fine servizio dei dipendenti pubblici in pensione anticipata è legittimo. Lo afferma la Corte Costituzionale (25 giugno 2019 n. 159) in merito alla questione (sollevata con ord. Trib. Roma n. 136/2018) se la corresponsione dilazionata e rateale dei trattamenti di fine servizio, disposta “in via generale, permanente e definitiva”, sia lesiva del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del diritto di percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (art. 36 Cost.), con conseguente illegittimità costituzionale della normativa sul punto (art. 3, co. 2, DL. 28 marzo 1997, n. 79, conv., con mod., nella L. 28 maggio 1997, n. 140, e art. 12, co. 7, DL. 31 maggio 2010, n. 78, conv., con mod., nella L. 30 luglio 2010, n. 122).
Nello specifico, la Corte precisa che il TFS, quale retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale (v. Corte Cost. n. 243/1993), si applica a qualunque rapporto di lavoro subordinato e, dunque, anche al pubblico impiego. Esso rappresenta il frutto dell’attività lavorativa prestata (Corte Cost. n. 106/1996) e costituisce parte integrante del patrimonio del beneficiario, che spetta ai superstiti «nel caso di decesso del lavoratore in servizio» (Corte Cost. n. 243/ 1997). Il carattere retributivo dell’indennità, la iscrive nella sfera dell’art. 36 Cost., che, come noto, ne impone la proporzionalità alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e l’idoneità a garantire, in ogni caso, un’esistenza libera e dignitosa (tramite soprattutto la tempestività dell’erogazione – sentenze nn. 82/2003 e 459/2000). Inoltre, al momento della cessazione dal servizio, le indennità sono corrisposte allo scopo precipuo di “agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere nel momento in cui viene meno la retribuzione” (Corte Cost. n. 106/1996). E, “in questo si coglie la funzione previdenziale che coesiste con la natura retributiva e rappresenta l’autentica ragion d’essere dell’erogazione delle indennità dopo la cessazione del rapporto di lavoro”.
Con particolare riguardo ai lavoratori che non hanno raggiunto i limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, la disciplina del pagamento rateale e differito delle indennità di fine rapporto, in base all’orientamento consolidato della Corte stessa (n. 104/2018 e n. 416/1999), può «disincentivare i pensionamenti anticipati e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita (v. per i dipendenti civili e militari dello Stato, la sentenza n. 39/ 2018 e, in tema di coefficiente di trasformazione della contribuzione versata, più elevato per chi presti servizio più a lungo, la sentenza n. 23/ 2017)”.
Tali scelte legislative, infatti, anche in un’ottica di salvaguardia della sostenibilità del sistema previdenziale, non sacrificano in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti tutelati dagli artt. 36 e 38 Cost.
Il termine di 24 mesi per l’erogazione dei trattamenti di fine servizio, nelle ipotesi diverse dal raggiungimento dei limiti di età o di servizio (introdotto già dall’art. 1, co. 22, lett. a), DL. 13 agosto 2011, n. 138, conv., con mod. nella L. 14 settembre 2011, n. 148), segue la linea di scoraggiare le cessazioni del rapporto di lavoro in un momento antecedente al raggiungimento dei limiti di età o di servizio.
Tale assetto normativo è fondato su un presupposto non arbitrario, al pari del pagamento rateale delle indennità di fine servizio disciplinato dall’art. 12, co. 7, DL. n. 78/ 2010 e poi “irrigidito” dall’art. 1, co. 484, lett. a), L. n. 147/2013, che discende pur sempre da una cessazione anticipata dal servizio e nelle particolarità di tale fattispecie rinviene la sua ragione giustificatrice, si basa su un meccanismo che prevede, inoltre, una graduale progressione delle dilazioni (via via più ampie con l’incremento delle indennità), ed è pertanto “calibrato in modo da favorire i beneficiari dei trattamenti più modesti e da individuare, anche per questa via, un punto di equilibrio non irragionevole”.
Esso è inoltre temperato da talune deroghe per situazioni meritevoli di particolare tutela, come la “cessazione dal servizio per inabilità derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente”, che impongono all’amministrazione competente, entro 15 giorni dalla cessazione dal servizio, di trasmettere la documentazione competente all’ente previdenziale, obbligato a corrispondere il trattamento “nei tre mesi successivi alla ricezione della documentazione” (art. 3, co. 5, DL. n. 79 del 1997, conv., con mod., nella L. n. 140/1997).
La Corte Costituzionale tuttavia segnala al Parlamento l’urgenza di ridefinire una disciplina della materia, in quanto, “la disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di lavoro ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine rapporto, conquistate «attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa» (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana”.