La giusta causa di licenziamento costituisce una nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti le previsioni contenute nei contratti collettivi. Queste hanno infatti valenza esemplificativa e non precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito sulla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
Nota a Cass. 16 luglio 2019, n. 19023
Gennaro Ilias Vigliotti
L’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi (diversamente dalle sanzioni disciplinari con effetto conservativo) ha valenza meramente esemplificativa. Essa, pertanto, “non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore” (in questo senso, v., fra tante, Cass. n. 27004/2018 e Cass. n. 14321/2017, in questo sito con nota di M. SANTUCCI, Annullamento delle dimissioni per vizi del consenso e minaccia di licenziamento per giusta causa).
Di conseguenza, la Corte di merito, chiamata a verificare l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, incontra l’unico limite che un licenziamento per giusta causa non può essere irrogato quando costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione – id est: alla condotta contestata al lavoratore – (v. oltre alle sentenze sopra citate, Cass. n. 6165/2016 e n. 19053/2005).
Tale giudice, perciò, – avuto riguardo alle circostanze concrete che hanno caratterizzato il licenziamento ed alla compatibilità con il principio di proporzionalità – può escludere che un comportamento, pur sanzionato dal contratto collettivo con il licenziamento, integri una giusta causa o un giustificato motivo soggettivo di licenziamento.
In ogni caso, però, egli deve sempre verificare, stante l’inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se la previsione del contratto collettivo sia conforme alle nozioni di giusta causa e giustificato motivo (v. Cass. n. 6498/2012). Secondo la giurisprudenza, infatti, “la scala di valori recepita dai contratti collettivi esprime le valutazioni delle parti sociali in ordine alla gravità di determinati comportamenti e costituisce solo uno dei parametri a cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto le clausole generali di giusta causa e giustificato motivo soggettivo. Queste ultime possono anche non coincidere completamente o esaurirsi nelle previsioni della contrattazione collettiva (v. Cass. n. 9396/2018, in questo sito con nota di F. DURVAL, Licenziamento disciplinare e autonomia collettiva), per cui il giudice è tenuto a verificare il comportamento, “in tutti gli aspetti soggettivi ed oggettivi che la compongono, anche al di là della fattispecie contrattuale prevista” (Cass. n. 27004/2018, cit.).
I principi sono stati recentemente espressi dalla Corte di Cassazione (16 luglio 2019, n. 19023), la quale ha cassato la sentenza della Corte di Appello Roma (n. 1968/2015) in quanto questa si è limitata ad osservare che l’inadempimento contestato al lavoratore, dal datore di lavoro, era stato di natura colposa mentre il codice disciplinare (id est: la norma contrattuale richiamata dalla società) prevedeva la sanzione del licenziamento esclusivamente per condotte dolose ed ha ritenuto, quindi, superfluo accertare “l’entità della violazione dell’obbligo di diligenza nella custodia del danaro” concretamente commessa dal lavoratore senza, peraltro, indagare se la condotta imputabile al lavoratore fosse punita con sanzione conservativa; in tale ultima ipotesi precludendosi la possibilità del licenziamento”.
Come noto, sulla base delle linee ermeneutiche dettate dalla Cassazione (20 giugno 2019, n. 16598), la giusta causa di licenziamento:
– deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario (si pensi al licenziamento in tronco del dipendente che durante l’orario di lavoro navighi sistematicamente in rete per scopi personali, frammentando la giornata lavorativa in modo tale da compromettere significativamente la corretta esecuzione dei propri compiti – v. App. Roma 11 marzo 2019 -). Il giudice è tenuto a valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare;
– quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” integra una clausola generale “che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, laddove l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici” (Cass. n. 16598/2019, cit.).
– è sottoponibile allo scrutinio della Corte di legittimità per quanto riguarda il giudizio di sussunzione in quanto giudizio di diritto; ed al giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, circa la mera proporzionalità in concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione; giudizio, quest’ultimo, che deve essere operato con approccio multifattoriale, ossia tenendo conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda come, ad esempio, l’entità del danno, il grado della colpa o l’intensità del dolo, l’esistenza o non di precedenti disciplinari a carico del dipendente (v. Cass. n. 8136/2017).