La produzione di documenti falsi o di dichiarazioni non veritiere in occasione dell’assunzione nel pubblico impiego non comporta sempre la decadenza immediata.
Nota a Cass. 11 luglio 2019, n. 18699
Maria Novella Bettini
“Il determinarsi di falsi documentali (D.P.R. n. 3 del 1957, art. 127, lett. d) o dichiarazioni non veritiere (D.P.R. n. 445 del 2001, art. 75) in occasione dell’accesso al pubblico impiego è causa di decadenza, per conseguente nullità del contratto, allorquando tali infedeltà comportino la carenza di un requisito che avrebbe in ogni caso impedito l’instaurazione del rapporto di lavoro con la P.A. Nelle altre ipotesi, le produzioni o dichiarazioni false effettuate in occasione o ai fini dell’assunzione possono comportare, una volta instaurato il rapporto, il licenziamento, ai sensi dell’art. 55-quater, lett. d), in esito al relativo procedimento disciplinare ed a condizione che, valutate tutte le circostanze del caso concreto, la misura risulti proporzionata rispetto alla gravità dei comportamenti tenuti”.
Questo l’importante principio statuito dalla Corte di Cassazione (11 luglio 2019, n. 18699, difforme da App. Torino n. 815/2017) attraverso un rigoroso ed articolato ragionamento in tema di falsità documentali, riguardo alle quali la legge disciplina tre ipotesi fondamentali apparentemente identiche (falsità di documenti o di dichiarazioni rese in vista dell’assunzione) ma destinatarie di discipline differenziate (decadenza di diritto e licenziamento previo procedimento disciplinare).
Nelle prime due ipotesi, si prevede un effetto caducatorio per il solo fatto oggettivo della falsità e senza margini di apprezzamento discrezionale per la PA. E cioè:
a) la decadenza dall’impiego “quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile” ai sensi dell’art. 127, lett. d), D.P.R. n. 3/1957;
b) e la decadenza del dichiarante “dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”, relativamente alle dichiarazioni sostitutive che presentino una “non veridicità del contenuto”, ex 75, D.P.R. n. 445/2000.
Come si vede, quando la legge (o anche un bando di concorso) disponga rispetto ad un certo requisito, tra cui quello relativo alle pregresse condanne penali, una regola certa di incompatibilità con l’accesso al pubblico impiego, la decadenza opera di diritto, quale effetto del manifestarsi di un vizio “genetico” del contratto e perciò al di fuori di un procedimento disciplinare (v. Cass. nn. 194/2019, 3800/2017, 7054/2011 e 13150/2006). Più specificamente, i richiamati artt. 127, lett. d) e 75 configurano una “derivazione causale certa” dell’accesso all’impiego dai documenti o dalle dichiarazioni false prodotte: ex art. 127, lett. d), infatti, la decadenza si verifica quando “l’impiego fu conseguito” in base ai documenti falsi; del pari, l’art. 75 cit. si riferisce ai benefici “conseguenti” al provvedimento emanato in base a dichiarazione non veritiera.
Come rilevato in giurisprudenza, l’art. 127, lett. d) riguarda situazioni che si situano nell’ambito dei “procedimenti di selezione per l’accesso al lavoro e di avviamento al lavoro” richiamati dalla L. n. 421/1992, art. 2, co. 1, lett. c, n. 4 ed analogo inquadramento riceve l’art. 75 (se applicato in ambito di assunzioni), con specifico riferimento alle dichiarazioni sostitutive, ai sensi del D.P.R. n. 445/2000 (così, Corte Cost. n. 329/2007 e Cons. Stato n. 2399/2018).
Nella terza ipotesi, invece, il legislatore dispone che siano cause di licenziamento “le falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera” (D.LGS. n. 165/2001, art. 55-quater, lett. d), “delineando in questo caso una vera e propria sanzione disciplinare, come tale assoggettata non solo al relativo procedimento applicativo (D.LGS. n. 165/2001, art. 55-bis), ma anche alla regola della proporzione della misura rispetto al concreto atteggiarsi dell’infrazione nella singola vicenda” (v. Cass. 24 agosto 2016, n. 17304).
La Corte pone in rilievo la portata differenziale del DLGS. n. 165/2001, rispetto alle altre due norme sopracitate, in quanto, per i falsi documentali e dichiarativi resi in relazione all’accesso al pubblico impiego, lo stesso prevede il licenziamento ma solo “quale effetto di procedimento disciplinare e quindi previa valutazione di gravità dell’accaduto”.
Mentre le norme decadenziali sui requisiti di accesso e sulla loro carenza (art. 127, lett. d, e art. 75 citt.) si ispirano “ad una logica di rigorosa legalità, destinata necessariamente ad operare allorquando i requisiti falsamente indicati siano necessariamente ed in ogni caso ostativi all’accesso all’impiego pubblico”, la disposizione sul licenziamento (art. 55-quater, lett. d), “nei casi in cui i profili cui attiene la falsità documentale o dichiarativa non sono necessariamente ostativi all’instaurazione del rapporto, opera sul piano di un apprezzamento più duttile, evidentemente sollecitato anche dal fatto che comunque un rapporto è stato instaurato” (nella verifica oggettiva di falsità seriamente valutata dalla P.A., si configurano oneri probatori anche a carico del lavoratore raggiunto dalla relativa contestazione disciplinare, al fine di comprovare la propria buona fede – v. Cass. n. 17304/2016, cit.).
Pertanto, rispetto alle ipotesi regolate dagli artt 127, lett. d), e 75 citt., come vizi genetici e causa di nullità, il D.LGS. n. 165/2001, art. 55 quater, qualora tali falsità non riguardino circostanze certamente ostative al rapporto, le tratta come vizi “funzionali”, dando loro rilievo ex post, a rapporto instaurato, e, quindi, come ragioni di risoluzione.
La disposizione non si riferisce, come le altre norme citate, al “nesso causale certo tra irregolarità documentale e conseguimento dell’impiego”, quanto piuttosto al verificarsi di tale irregolarità, più genericamente, “ai fini ed in occasione” dell’instaurazione del rapporto.
Ne consegue che, una volta instaurato il rapporto, ciò che è stato erroneamente non comunicato, in quanto inidoneo a determinare di per sè la nullità del contratto, rileverà solo per la sua gravità (“natura del dato sottaciuto o manifestato erroneamente; circostanze della: dichiarazione erronea; sopravvenire o meno di un rapporto duraturo che renda meno rilevante quanto originariamente accaduto”, etc.), tale da “comportare, in un giudizio concreto di proporzionalità, la lesione, pur apprezzata ex post, del vincolo fiduciario”.
Tutto ciò premesso, la Cassazione, nel caso sottoposto al suo giudizio (omessa dichiarazione in merito all’esistenza di pregresse condanne penali, come richiesto dal bando di concorso) precisa che è necessario un accertamento del giudice di merito circa la decisività della falsa dichiarazione rispetto all’assunzione, “in quanto, rispetto al caso delle condanne penali pregresse, la decadenza ex lege, al di fuori dal procedimento disciplinare, può trovare applicazione solo se la dichiarazione mendace riguardi condanne che non avrebbero in ogni caso consentito l’instaurazione del rapporto di pubblico impiego.
Mentre, in caso contrario, l’adozione della misura attraverso un provvedimento di mera decadenza è da considerare non legittima, dovendo semmai la P.A. procedere nelle forme disciplinari, previa valutazione della gravità concreta dell’accaduto… pena l’intollerabile rinuncia ad un confacente rapporto di adeguatezza col caso concreto, fino al punto di determinare la necessaria caducazione di un rapporto di lavoro rispetto al quale l’erroneità o l’insufficienza dichiarativa non siano con certezza influenti sotto il profilo del diritto sostanziale. Sicché è solo la falsità sui dati sicuramente decisivi per l’assunzione che comporterà la decadenza, senza possibilità di qualsivoglia valutazione di diverso tipo”.