In caso di modifica definitiva del luogo di esecuzione della prestazione, pur nell’ambito della stessa unità produttiva, è vietato il trasferimento del lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente.
Nota a Cass. (ord.) 23 agosto 2019, n. 21670
Valerio Di Bello
Il divieto di trasferimento del dipendente che assiste con continuità un familiare disabile convivente riguarda ogni caso di cambiamento di luogo di lavoro, anche nell’ambito della medesima unità produttiva.
È quanto ribadito dalla Corte di Cassazione (23 agosto 2019, n. 21670, difforme da App. Ancona n. 157/2015), la quale si uniforma all’orientamento giurisprudenziale dominante, secondo cui “il divieto di trasferimento del lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 5, nel testo modificato dalla L. n. 183 del 2010, art. 24, comma 1, lett. b), opera ogni volta che muti definitivamente il luogo geografico di esecuzione della prestazione, anche nell’ambito della medesima unità produttiva che comprenda uffici dislocati in luoghi diversi, in quanto il dato testuale contenuto nella norma, che fa riferimento alla sede di lavoro, non consente di ritenere tale nozione corrispondente all’unità produttiva di cui all’art. 2103 c.c.” (v. anche Cass. n. 24015/2017, in questo sito con nota di K. PUNTILLO, Assistenza a familiare disabile e divieto di trasferimento).
In generale, sul trasferimento del lavoratore che assista un disabile, v. Cass. n. 12729/2017 (in questo sito, con nota di K. PUNTILLO, Trasferimento e assistenza disabile), la quale rileva che il principio secondo cui “la disposizione dell’art. 33, co. 5, L. n. 104 del 1992, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati in funzione della tutela della persona disabile, sicché il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica di quello, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive e urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte”.