Il divieto di discriminazioni opera anche quando non vi è un diretto rapporto di lavoro tra il soggetto discriminante e il prestatore
Nota a Trib. Como 16 agosto 2019
Sonia Gioia
In materia di discriminazioni “non ha alcun rilievo (…) l’assenza di un rapporto di lavoro diretto” tra il soggetto che pone in essere una condotta lesiva del principio di parità di trattamento e il lavoratore, considerato che il divieto di discriminazioni, che trova fondamento nell’art. 3 Cost., “prescinde dall’esistenza di un contratto di lavoro tra le parti, per cui vale ed è quindi efficace in qualsiasi contesto delle relazioni sociali”.
Lo ha statuito il Tribunale di Como (16 agosto 2019), che ha ritenuto discriminatorio l’ordine disposto dal Ministero dell’Interno ad una cooperativa, che fornisce servizi di traduzione alla Questura di Milano, di licenziare una mediatrice linguistica, originaria del Perù, collaboratrice coordinata della società, semplicemente in ragione di un asserito aumento di richiedenti asilo di nazionalità peruviana durante il periodo di attività della donna e nonostante “l’assoluta inconsistenza dei sospetti sul suo corretto operato”.
Al riguardo, il Tribunale di Como ha ribadito che costituisce discriminazione, ai sensi del D.LGS. 9 luglio 2003, n. 215 (attuativo della Direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica), sia l’ipotesi in cui “per la razza o l’origine etnica una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia stata o sarebbe stata trattata un’altra in situazione analoga” (art. 2, co. 1, lett. b), D.LGS. cit.), sia “l’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica” (art. 2, co. 4, D.LGS. cit.).
Nel caso di specie, l’ordine del Ministero dell’Interno di sostituire la mediatrice risultava lesivo dei principi sopra richiamati, in quanto alla stessa era stato riservato, in ragione della nazionalità, “un trattamento diverso e peggiore rispetto a quello degli altri interpreti” della cooperativa. Inoltre, considerato che la società non poteva opporsi alla decisione ministeriale e che, peraltro, aveva offerto alla traduttrice altre posizioni ove svolgere le sue mansioni, la condotta illecita è stata ritenuta imputabile al solo Ministero dell’Interno, condannato al risarcimento del danno e alla cessazione dell’eventuale reiterazione del comportamento discriminatorio.
Ciò, in quanto il divieto di discriminazioni in ragione della razza e dell’origine etnica è finalizzato a colpire ogni ingiustificata differenza di trattamento indipendentemente dal contesto in cui si verifica e a prescindere dall’esistenza di un rapporto di lavoro diretto.