Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 ottobre 2019, n. 26759

Lavoro, Accertamento della illegittimità della cessione del
ramo d’azienda, Obbligazione retributiva

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n.
6404/2012, ha accolto l’appello proposto da T.I. s.p.a. e, in riforma della
sentenza impugnata, ha revocato i decreti ingiuntivi con cui i lavoratori
nominati in epigrafe avevano rivendicato il pagamento di varie somme a titolo
di retribuzioni dovute in virtù della sentenza 31.1.2007 del Tribunale di Roma,
con la quale era stata dichiarata la nullità della cessione del contratto di
lavoro da I.T.H.D. s.r.l. con ordine di ripristino del rapporto alle dipendenze
di T.I. nel frattempo subentrata a I.T., la quale non aveva ottemperato a tale
ordine, sebbene i lavoratori avessero prontamente sollecitato l’esecuzione del
giudicato.

2. La Corte di appello ha osservato che
l’obbligazione retributiva non poteva sorgere per il solo effetto della nullità
della cessione del contratto di lavoro e della accertata continuità giuridica
del rapporto, giacché dalla natura sinallagmatica del rapporto di lavoro
discende che la erogazione del trattamento economico in mancanza di lavoro
costituisce un’eccezione, la quale deve essere oggetto di una espressa
previsione di legge o di contratto e che l’omesso ripristino della funzionalità
del rapporto, a fronte della tempestiva messa a disposizione delle energie
lavorative, rileva unicamente sul piano risarcitorio con conseguente
eccepibilità dell’aliunde perceptum che, nel caso in esame, è di entità tale da
elidere il danno subito per effetto della perdita della retribuzione.

3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto
ricorso i lavoratori sulla base di due motivi, cui ha resistito T.I. s.p.a. con
controricorso.

4. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 1206, 1207, 1217 e 1453 c.c.
nella parte in cui la sentenza ha ritenuto che la messa in mora del creditore e
la impossibilità della prestazione per fatto imputabile esclusivamente al
creditore non determinino il diritto ad esigere la controprestazione, cioè la
retribuzione, da parte del lavoratore, ma esclusivamente il diritto al
risarcimento del danno, con applicabilità dei principi della compensalo lucri
cum damno.

Si deduce che a partire dalla sentenza che accerta
la nullità della cessione, il datore di lavoro è obbligato a corrispondere la
retribuzione dovuta, anche in caso di mancata riammissione effettiva.

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione
dell’art. 2094 c.c. nella parte in cui la
sentenza ha ritenuto che, stante la natura sinallagmatica del rapporto di
lavoro, l’erogazione del trattamento economico in caso di mancata prestazione
costituisce un’eccezione, che deve essere prevista esclusivamente dalla legge o
dal contratto.

3. Il ricorso è fondato per le ragioni che seguono.

3.1. Le questioni devolute a questa Corte
riguardano: a) la natura, se retributiva ovvero risarcitoria, dei crediti che i
lavoratori hanno ingiunto in pagamento a T.I. s.p.a. a titolo di emolumenti
loro dovuti per effetto del mancato ripristino del rapporto da parte della
società predetta, nonostante l’emissione di un tale ordine del Tribunale con la
sentenza di accertamento della illegittimità della cessione del ramo d’azienda
(cui essi erano addetti) a H.D. s.r.l., con decorrenza dalla messa in mora
operata dai lavoratori medesimi; b) la detraibilità o meno, una volta tanto
accertato, di quanto percepito dai lavoratori a titolo di retribuzione per
l’attività prestata alle dipendenze della predetta società, già cessionaria del
ramo d’azienda.

4. La prima questione trova soluzione nel senso
della natura retributiva e non più risarcitoria (come invece secondo un
indirizzo precedente: Cass. 17 luglio 2008 n.
19740; Cass. 9 settembre 2014 n. 18955; Cass. 25 giugno 2018 n. 16694) sulla scorta
dell’insegnamento posto recentemente dalle Sezioni unite civili di questa Corte
(sent. 7 febbraio 2018, n. 2990).

4.1. Come noto, detta pronuncia ha sancito il
seguente testuale principio di diritto: “in tema di interposizione di
manodopera, ove ne venga accertata l’illegittimità e dichiarata l’esistenza di
un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’omesso ripristino del rapporto
di lavoro ad opera del committente determina l’obbligo di quest’ultimo di
corrispondere le retribuzioni, … , a decorrere dalla messa in mora”.

A tale indirizzo è stato riconosciuto valore di
diritto vivente sopravvenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 28 febbraio 2019, n. 29, anche avuto
riguardo alla fattispecie della cessione del ramo d’azienda. Infatti la Corte
d’Appello di Roma, sezione lavoro, con ordinanza di rimessione del 2 ottobre
2017, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale del
“combinato disposto” degli artt. 1206,
1207 e 1217 c.c.,
in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo
in relazione all’art. 6 CEDU,
censurando le citate disposizioni sulla mora del creditore, sul presupposto che
limitassero la tutela del lavoratore ceduto – secondo l’interpretazione
giurisprudenziale all’epoca accreditata – al risarcimento del danno, anche dopo
la sentenza che avesse accertato l’illegittimità o l’inefficacia del
trasferimento d’azienda. La Corte costituzionale ha preso atto (al p.to 6.3.
del Considerato in diritto) “che l’indirizzo interpretativo, indicato come
diritto vivente allorché sono state proposte le questioni di legittimità
costituzionale, risulta disatteso dalla suddetta pronuncia delle Sezioni unite,
successiva all’ordinanza di rimessione. Tale pronuncia mira a ricondurre a
razionalità e coerenza il tormentato capitolo della mora del creditore nel
rapporto di lavoro e consente di risolvere in via interpretativa i dubbi di
costituzionalità prospettati. Dalla “qualificazione retributiva
dell’obbligazione del datore di lavoro moroso” il Giudice delle leggi ha tratto
la conseguenza di “privare di fondamento, …, le questioni di legittimità
costituzionale insorte sulla base di un’interpretazione di segno
antitetico”, spettando “alla Corte rimettente rivalutare la questione
interpretativa dibattuta nel giudizio principale, che investe il diritto del
lavoratore ceduto, già retribuito dal cessionario, di rivendicare la
retribuzione anche nei confronti del cedente”.

5. Da tali esiti interpretativi, costituenti
premesse che il Collegio non intende rimettere in discussione, occorre necessariamente
muovere per la soluzione della seconda questione devoluta a questa Corte.
Ovvero se dalle retribuzioni spettanti al lavoratore dal datore di lavoro, che
abbia operato un trasferimento di (ramo di) azienda dichiarato illegittimo e
che abbia rifiutato il ripristino del rapporto senza una giustificazione, sia
detraibile quanto il lavoratore medesimo nello stesso periodo abbia percepito,
pure a titolo di retribuzione, per l’attività prestata alle dipendenze
dell’imprenditore già cessionario, ma non più tale, una volta dichiarata
giudizialmente la non opponibilità della cessione al dipendente ceduto.
Infatti, una volta escluso che la richiesta di pagamento del lavoratore abbia
titolo risarcitorio, non trova applicazione il principio della compensatio
lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità dell’aliunde perceptum dal
risarcimento.

Si tratta di questione che impegna evidentemente
l’esercizio della funzione nomofilattica di questa Corte, a norma dell’art. 375, ult. comma c.p.c., come anche richiamato
dall’art. 380 bis, ult. comma, c.p.c.

5.1. La sua soluzione richiede un’attenta disamina
degli effetti realizzati dalla suddetta qualificazione di retribuzione di
quanto spettante al lavoratore dal proprio originario datore di lavoro sul
corrispettivo ricevuto per l’attività prestata dal soggetto alle dipendenze del
quale, pure avendo offerto la propria prestazione al primo, abbia tuttavia
continuato a lavorare. E ciò anche per dare conto di un’istintiva perplessità,
in realtà frutto di un’equivoca suggestione, in ordine ad una presunta
duplicazione indebita di retribuzione a fronte di un’unica attività prestata
dal lavoratore, che cosi conseguirebbe una locupletazione non dovuta.

5.2. Giova allora chiarire subito come soltanto un
legittimo trasferimento d’azienda comporti la continuità di un rapporto di
lavoro che resta unico immutato, nei suoi elementi oggettivi, esclusivamente
nella misura in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 2112 c.c. che, in deroga all’art. 1406 c.c., consente la sostituzione del
contraente senza consenso del ceduto. Ed è evidente che l’unicità del rapporto
venga meno, qualora, come appunto nel caso di specie, il trasferimento sia
dichiarato invalido, stante l’instaurazione di un diverso e nuovo rapporto di
lavoro con il soggetto (già, e non più, cessionario) alle cui dipendenze il
lavoratore “continui” di fatto a lavorare. D’altro canto, è insegnamento
consolidato nella giurisprudenza di legittimità che l’unicità del rapporto
presupponga la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c. Sicché, accertatane l’invalidità,
il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero
fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere
sul rapporto giuridico ancora in essere, rimasto in vita con il cedente
(sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria
giudiziale). In sintesi, il trasferimento del medesimo rapporto si determina
solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello
legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei
requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di
inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della
parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di
lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell’originario cedente
(cfr. da ultimo: Cass. 28 febbraio 2019, n. 5998; in senso conforme, tra le
altre: Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass. 7 settembre 2016, n. 17736;
Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281, le quali hanno pure ribadito il consolidato
orientamento circa l’interesse ad agire del lavoratore ceduto nonostante la
prestazione di lavoro resa in favore del cessionario).

5.3. Si potrebbe però obiettare come, a fronte di
una duplicità di rapporti (uno, de iure, ripristinato nei confronti
dell’originario datore di lavoro, tenuto alla corresponsione delle retribuzioni
maturate dalla costituzione in mora lavoratore; l’altro, di fatto, nei
confronti del soggetto, già cessionario, effettivo utilizzatore della
prestazione lavorativa), questa resti (apparentemente) unica. In proposito
occorre invece osservare come, accanto ad una prestazione materialmente resa in
favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con
la cessione di ramo d’azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto,
ve ne sia un’altra giuridicamente resa in favore dell’originario datore, con il
quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto
ingiustificato del predetto) ripristinato, non meno rilevante sul piano del
diritto.

Ed infatti, al dipendente la retribuzione spetta
tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, sia se il datore
di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti (Cass.
23 novembre 2006, n. 24886; Cass. 23 luglio 2008,
n. 20316). Una volta offerta la prestazione lavorativa al datore di lavoro
giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente
equiparabile la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente
alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha
l’obbligo di pagare la controprestazione retributiva. Non si dubita, ad
esempio, che in base agli artt. 1218 e 1256 c.c. la “sospensione unilaterale”
del rapporto da parte del datore di lavoro sia giustificata ed esoneri il
medesimo datore dall’obbligazione retributiva solo quando non sia imputabile a
fatto dello stesso (Cass. 22 ottobre 1999, n. 11916; Cass. 10 aprile 2002, n.
5101; Cass. 16 aprile 2004, n. 7300; Cass. 9 agosto 2004, n. 15372).

A tale proposito vale la pena rammentare pure il
tradizionale orientamento (formatosi antecedentemente alla modifica dell’art. 18 I. 300/1970 con la I. 108/1990) secondo il quale la pronuncia che
dichiarava l’illegittimità del licenziamento e ordinava la reintegrazione nel
posto di lavoro faceva insorgere l’obbligo del datore, che non ottemperasse a
tale ordine, di corrispondere la retribuzione dovuta, in ragione della
riaffermata vigenza della lex contractus e della ininterrotta continuità del
rapporto di lavoro, con la equiparazione, alla effettiva utilizzazione delle energie
lavorative del dipendente, della mera utilizzabilità di esse, in relazione alla
disponibilità del lavoratore a riprendere servizio (Cass.
S.U. 13 aprile 1988, n. 2925).

5.4. La conseguenza che si è tratta è pure coerente
con il diritto generale delle obbligazioni, che, non a caso, ha collocato, nel
capo (II del Titolo I del libro IV) “Dell’adempimento delle
obbligazioni”, la disciplina della mora del creditore (sezione III). Per
comprensibili ragioni di diversa coercibilità, essa differenzia le obbligazioni
aventi ad oggetto prestazioni fungibili da quelle relative a prestazioni
infungibili (cui evidentemente appartengono quelle inerenti la prestazione di
lavoro).

Sicché, per le prime la costituzione in mora
credendi (e la conseguente offerta di restituzione) vale unicamente a stabilire
il momento di decorrenza degli effetti della mora, specificamente indicati
dall’art. 1207 c.c., ma non anche a determinare
la liberazione del debitore, che la legge subordina (art.
1210 c.c.) all’esecuzione del deposito accettato dal creditore o dichiarato
valido con sentenza passata in giudicato (Cass. 29 aprile 2014, n. 8711). Per
le seconde, dovendo l’adempimento della prestazione di fare essere preceduto da
atti preparatori, la cui esecuzione richiede la collaborazione del creditore,
basta invece che il debitore, che intenda conseguire la liberazione dal
vincolo, costituisca il primo in mora mediante l’intimazione prevista dall’art. 1217 c.c.: integrando insindacabile
valutazione di merito l’accertamento della necessità della collaborazione del
creditore, affinché il debitore possa adempiere la propria obbligazione di fare
(Cass. 12 luglio 1968, n. 2474).

Dai principi di diritto suenunciati discende allora,
siccome coerente precipitato logico-giuridico, che, mediante l’intimazione del
lavoratore all’impresa cedente di ricevere la prestazione con modalità valida
ai fini della costituzione in mora credendi del medesimo datore (il quale la
rifiuti senza giustificazione), il debitore del facere infungibile abbia posto
in essere quanto è necessario, secondo il diritto comune, per far nascere il
suo diritto alla controprestazione del pagamento della retribuzione,
equiparandosi la prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente resa per
tutto il tempo in cui il creditore l’abbia resa impossibile non compiendo gli
atti di cooperazione necessari.

Sicché da quel momento l’attività lavorativa subordinata
resa in favore del non più cessionario equivale a quella che il lavoratore,
bisognoso di occupazione, renda in favore di qualsiasi altro soggetto terzo:
così come la retribuzione corrisposta da ogni altro datore di lavoro presso il
quale il lavoratore impiegasse le sue energie lavorative si andrebbe a cumulare
con quella dovuta dall’azienda cedente, parimenti anche quella corrisposta da
chi non è più da considerare cessionario, e che compensa un’attività resa
nell’interesse e nell’organizzazione di questi, non va detratta dall’importo
della retribuzione cui il cedente è obbligato.

Né tale prestazione lavorativa in fatto resa per un
terzo esclude una valida offerta di prestazione all’originario datore (Cass. 8
aprile 2019, n. 9747), considerato che, una volta che l’impresa cedente,
costituita in mora, manifestasse la volontà di accettare la prestazione, il
lavoratore potrebbe scegliere di rendere la prestazione non più soltanto
giuridicamente, ma anche effettivamente, in favore di essa e, ove ciò non facesse,
verrebbero automaticamente meno gli effetti della mora credendi.

6. Acclarato che dopo la sentenza che ha dichiarato
insussistenti i presupposti per il trasferimento del ramo d’azienda, in uno
alla messa in mora operata del lavoratore, vi è l’obbligo dell’impresa (già)
cedente di pagare la retribuzione e non di risarcire un danno, non vi è norma
di diritto positivo che consenta di ritenere che tale obbligazione pecuniaria
possa considerarsi, in tutto o in parte, estinta per il pagamento della retribuzione
da parte dell’impresa originaria destinataria della cessione.

6.1. Invero la più approfondita disamina giuridica
qui svolta induce al superamento di un primo orientamento di ritenuta
detraibilità, dal credito retributivo spettante al lavoratore validamente
offerente all’originario datore la propria prestazione ingiustificatamente
rifiutata, della retribuzione percepita dal datore (già cessionario), sul
presupposto dell’unicità di prestazione lavorativa e di obbligazione, con la
qualificazione del relativo pagamento alla stregua di un adempimento del terzo,
a norma dell’art. 1180 c.c. (Cass., sez. VI, 31
maggio 2018, n. 14019; Cass., sez. VI, 1 giugno
2018, n. 14136: p.to 6 in motivazione).

Già si sono illustrate le ragioni di un’effettiva
duplicità dei rapporti in essere: il nuovo datore di lavoro (già cessionario
nel trasferimento dichiarato illegittimo) è l’utilizzatore effettivo (e non
meramente apparente come nelle fattispecie, di certo differenti, di
interposizione nelle prestazioni di lavoro) dell’attività del lavoratore cui in
via corrispettiva corrisponde la retribuzione dovuta e così adempie ad
un’obbligazione propria, non sicuramente estinguendo un debito altrui (come nel
caso di interposizioni fittizie: Cass. 3 settembre
2015, n. 17516; Cass. 31 luglio 2017, n. 19030).
Sicché l’esistenza di un debito proprio, generato dall’obbligo di retribuire le
prestazioni del lavoratore ceduto di cui ha concretamente fruito, esclude in
radice la possibilità di configurare un adempimento in qualità di terzo da
parte del destinatario dell’originaria cessione; in relazione all’adempimento
del terzo ex art. 1180 c.c., infatti, si è
ritenuto che deve mancare nello schema causale tipico la controprestazione in
favore di chi adempie, pagando il terzo per definizione un debito non proprio e
non prevedendo la struttura del negozio alcuna attribuzione patrimoniale a suo
favore (Cass. s.u. 18 marzo 2010, n. 6538;
Cass. 7 marzo 2016, n. 4454; Cass. 6 ottobre 2017, n. 23439), mentre nella
specie il non più cessionario compensa un’attività lavorativa direttamente resa
a vantaggio dell’impresa di cui è titolare.

6.2. Parimenti non sono applicabili le disposizioni
contenute nel d. Igs. n. 276 del 2003 laddove
all’art. 27, secondo comma
(previsto in materia di somministrazione irregolare ma richiamato anche dall’art. 29, comma 3bis, in tema di
appalto illecito) stabilisce che “tutti i pagamenti effettuati dal
somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono
a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal
debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente
pagata”.

Il meccanismo che consente l’incidenza liberatoria
degli adempimenti comunque posti in essere dal somministratore o
dall’appaltatore è stato richiamato dalla sentenza n. 2990 del 2018 delle
Sezioni unite limitatamente ai “pagamenti effettuati a vantaggio del
soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione” (Cass. 31
ottobre 2018, n. 27976).

Il testo delle disposizioni, che espressamente si
riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell’appalto, non ne
consente l’applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento
d’azienda.

Il dato testuale che connette l’effetto liberatorio
del pagamento esclusivamente in favore del soggetto che “ha effettivamente
utilizzato la prestazione” esclude altresì ogni interpretazione estensiva
(men che meno analogica) che consenta l’applicazione al caso della cessione di
ramo d’azienda, ove l’impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento
altrui, non utilizza affatto la prestazione del lavoratore ceduto. E’ che i
fenomeni interpositori rappresentati dalla somministrazione irregolare o
dall’appalto illecito risultano strutturalmente incomparabili con le cessioni
di ramo d’azienda dichiarate illegittime nei confronti del lavoratore ceduto.
Nel primo caso il soggetto che ha utilizzato le prestazioni è il datore di
lavoro reale al quale è imputabile la titolarità dell’unico rapporto, mentre
nel secondo caso l’impresa cedente non è il soggetto che utilizza la
prestazione, invece effettuata a vantaggio di una diversa organizzazione
d’impresa che diventa titolare di un altro rapporto e che paga un debito
proprio.

7. La conclusione raggiunta è coerente con
l’interpretazione costituzionalmente orientata propugnata dalla sentenza della Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303, posta a
fondamento del révirement giurisprudenziale operato da Cass. S.U. n. 2990/18
cit.. La Consulta, scrutinando la legittimità costituzionale dell’art. 32, quinto, sesto e settimo
comma I. 183/2010, ha tra l’altro affermato: “il danno forfettizzato
dall’indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto
“intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino
alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del
rapporto”; sicché, “a partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato
il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che
prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da
ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere
in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni
dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva. Diversamente
opinando, la tutela fondamentale della conversione del rapporto in lavoro a
tempo indeterminato sarebbe completamente svuotata. Se, infatti, il datore di
lavoro, anche dopo l’accertamento giudiziale del rapporto a tempo
indeterminato, potesse limitarsi al versamento di una somma compresa tra 2,5 e
12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun deterrente idoneo ad indurlo
a riprendere il prestatore a lavorare con sé. E lo stesso riconoscimento della
durata indeterminata del rapporto da parte del giudice sarebbe posto nel
nulla.” (sub 3.3 del Considerato in diritto).

E questa interpretazione, che fa perno sull’esigenza
di effettività della giurisdizione come valore costituzionalmente tutelato, è
con altrettanto vigore ribadita dalla sentenza di questa Corte a sezioni unite
n. 2990/2018 più volte citata, che ha trovato autorevole conferma nella Corte
costituzionale che, con la sentenza n. 29 del 2019,
in proposito ha affermato: “Secondo le Sezioni unite, una prospettiva
costituzionalmente orientata impone di rimeditare la regola della
corrispettività nell’ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di
ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di
una tutela esclusivamente risarcitoria diminuirebbe, difatti, l’efficacia dei
rimedi che l’ordinamento appresta per il lavoratore. Sul datore di lavoro che persista
nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa, ritualmente offerta dopo
l’accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, continua
dunque a gravare l’obbligo di corrispondere la retribuzione.

Nella ricostruzione delle Sezioni unite la
disciplina del licenziamento illegittimo, che ascrive all’area del risarcimento
del danno le indennità dovute dal datore di lavoro, si configura in termini
derogatori e peculiari. Acquistano per contro valenza generale le affermazioni
contenute nella sentenza n. 303 del 2011 di
questa Corte, relative alle conseguenze dell’illegittima apposizione del
termine (art. 32, comma 5, della
legge 4 novembre 2010, n. 183 … ). Infatti, come precisato nella suddetta
pronuncia, per effetto della sentenza che rileva il vizio della pattuizione del
termine e instaura un contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è
tenuto a corrispondere al lavoratore, «in ogni caso, le retribuzioni dovute,
anche in caso di mancata riammissione effettiva» (sentenza
n. 303 del 2011, punto 3.3.1. del Considerato in diritto). Da tali principi
le Sezioni unite evincono, con portata tendenzialmente generale, l’obbligo del
datore di lavoro moroso di corrispondere le retribuzioni al lavoratore che non
sia stato riammesso in servizio, neppure dopo la pronuncia del giudice che
abbia ripristinato la vigenza dell’originario rapporto di lavoro. In questa
prospettiva, riveste un ruolo primario l’accertamento del giudice, che
ristabilisce la lex contractus, accertamento che non può essere sminuito nella
sua forza cogente dal protrarsi dell’inosservanza” (sub 5 del Considerato
in diritto).

Al termine del percorso argomentativo svolto, si
comprende allora come la soluzione della questione devoluta sia l’inevitabile
approdo di un coerente percorso logico-giuridico di effettività del dictum
giurisdizionale, nella sua soggezione esclusivamente alla legge (art. 101, secondo comma Cost.), che non ammette
svuotamenti di tutela per la mancanza di ogni deterrente idoneo ad indurre il
datore di lavoro a riprendere il prestatore a lavorare ovvero affievolimenti
della forza cogente della pronuncia giudiziale che risulterebbe in concreto
priva di efficacia per il protrarsi dell’inosservanza senza reali conseguenze.
Ciò senza avallare alcuna indebita duplicazione di retribuzione, né tanto meno
veicolare strumenti di coercizione indiretta (neppure applicandosi, per
espressa previsione, alle controversie di lavoro subordinato pubblico e privato
ed ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, regolati dall’art. 409 c.p.c., l’art.
614 bis c.p.c., come novellato dall’art. 13 d.l. 83/2015, conv. con
modif. dalla I. 132/2015, che ne ha mutato la
rubrica originaria con quella di “Misure di coercizione indiretta”,
ampliandone l’ambito applicativo, ricomprendendovi oltre agli obblighi di fare
infungibile, anche gli obblighi di fare, non fare e di dare, diversi dal
pagamento di somme di denaro) finalizzati ad una tutela satisfattoria a fronte
di un esercizio improprio delle prerogative datoriali.

8. Conclusivamente deve essere affermato il seguente
principio di diritto: “In caso di cessione di ramo d’azienda, ove su
domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono
i presupposti di cui all’art. 2112 c.c., le
retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia
utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a
disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non
producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione
retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la
controprestazione lavorativa”.

9. Dalle superiori argomentazioni discende
l’accoglimento del ricorso con cassazione della sentenza impugnata e rinvio
alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione collegiale, per il
riesame del gravame alla luce dell’enunciato principio di diritto. Il Giudice
di rinvio provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di
legittimità.

10. Stante l’accoglimento del ricorso, non
sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente,
del raddoppio del contributo unificato, introdotto dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del
2012.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e
rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte di appello di Roma
in diversa composizione.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 ottobre 2019, n. 26759
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