Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 ottobre 2019, n. 26764
Licenziamento disciplinare, Trasmissione al datore di lavoro
di un’attestazione falsificata, Sproporzione tra il fatto commesso e la
sanzione applicata
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di L’Aquila ha parzialmente
accolto il reclamo proposto nelle forme della c.d. Legge Fornero avverso la
sentenza del Tribunale di Pescara che aveva a propria volta accolto
l’impugnativa del licenziamento disciplinare irrogato nei confronti di A. R. da
Equitalia Centro s.p.a., nei cui rapporti giuridici era poi subentrata
l’Agenzia delle Entrate – Riscossione.
Premesso che ad Equitalia faceva carico il rimborso
di parte degli interessi sul mutuo contratto da proprio dipendente, il
licenziamento era stato irrogato perché il R. aveva trasmesso al datore di
lavoro un’attestazione falsificata per quanto riguardava gli interessi pagati
nel 2014 e per avere poi egli omesso, nonostante la richiesta di una nuova
trasmissione, di comunicare la predetta certificazione, in luogo della quale
era stata consegnata l’attestazione inerente l’anno 2013.
Il Tribunale, nel dichiarare illegittimo il
licenziamento, aveva applicato la tutela di cui all’art. 18, co. 4, ovverosia la
reintegrazione con indennità, mentre la Corte d’Appello ha applicato la tutela
soltanto indennitaria di cui al co. 5.
2. La Corte riteneva che il secondo fatto contestato
(trasmissione delle certificazione del 2013 in luogo di quella del 2014) non
avesse rilievo disciplinare, in quanto si poteva essere trattato di un mero
errore, cui non a caso aveva fatto seguito, dopo poco tempo, la trasmissione di
quanto richiesto. D’altra parte, secondo la Corte, le giustificazioni addotte
dal R. rispetto al primo rilievo disciplinare, ovverosia alla trasmissione di
una copia falsificata, erano inverosimili, sicché il fatto era da ritenere
sussistente. Tuttavia, pur ravvisando, così come il primo giudice, la
sproporzione tra il fatto commesso e la sanzione applicata, la Corte
distrettuale rilevava come per tale fatto la contrattazione collettiva non
prevedeva la sanzione conservativa, sicché l’illegittimità trovava sanzione
soltanto nel disposto del co. 5 dell’art. 18.
Al contempo la sentenza di secondo grado rigettava
il reclamo incidentale con cui il lavoratore aveva addotto che il licenziamento
fosse da considerare nullo perché attuato in frode alla legge. In proposito la
Corte riteneva che il R. non avesse assolto all’onere di allegazione e prova su
di lui gravante, in ordine ad un intento fraudolento o discriminatorio, tali da
avere avuto un’efficacia determinativa sulla volontà datoriale.
Avverso la sentenza il R. ha proposto ricorso per
cassazione con sette articolati motivi.
Agenzia delle Entrate-Riscossione è rimasta
intimata.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la
violazione (art. 360 n. 4 c.p.c.) dell’art. 132 c.p.c. per avere la Corte territoriale
assunto una motivazione confusa e soltanto apparente per quanto riguarda la
censura di nullità del licenziamento per carattere fraudolento dello stesso.
Il secondo motivo critica la sentenza impugnata per violazione
(art. 360 n. 4 c.p.c.) degli artt. 24 Cost. e dell’art.
112 c.p.c., con riguardo ancora alla dedotta nullità del licenziamento e
con esso il ricorrente allega di avere affermato e dedotto a prova elementi
idonei a dimostrare che il datore di lavoro aveva proceduto al recesso non per
le ragioni formalmente enunciate, ma per altre, consistenti nel fatto che gli
interessi corrisposti sarebbero stati incamerati dal lavoratore, senza pagare
il mutuo, sicché la contestazione di due altri e diversi fatti aveva il fine di
eludere le garanzie formali e procedimentali del potere di recesso, così
integrandosi le cause di nullità della frode alla legge o del motivo illecito
determinante.
Il terzo motivo denuncia ancora la violazione (art. 360 n. 4 c.p.c.) delle medesime norme, per
non avere la Corte territoriale valutato la diligenza del R. e le circostanze
addotte per dimostrare la sua incolpevolezza rispetto ai fatti addebitati.
2. I motivi, stante la comune radice processuale,
possono essere esaminati in un unico contesto.
2.1 L’apparenza della motivazione che, potendosi
parificare alla motivazione inesistente, ne consente la censura ai sensi dell’art. 132 n. 4 c.p.c. si verifica nel caso in cui
essa «benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il
fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente
inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione
del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di
integrarla con le più varie, ipotetiche congetture» (Cass., S.U., 3 novembre
2016, n. 22232): in questi casi si può dunque parlare di assenza di una
motivazione percepibile realmente come tale.
L’omessa pronuncia denunciabile ai sensi dell’art. 112 c.p.c. consiste invece nella mancanza di
presa di posizione del giudice rispetto ad una domanda od eccezione, nulla
avendo a che vedere con la mera carenza motivazionale, in una delle sue
possibili manifestazioni.
Ipotesi ancora diversa è quella regolata dall’art. 360 n. 5 c.p.c., nell’ultima formulazione
della norma, qui applicabile ratione temporis, che si incentra
sull’individuazione di un “fatto” il cui esame sia stato omesso dal
giudice di merito e che, per la sua decisività, da intendere come elevato grado
logico di pregnanza, se considerato, potrebbe in sé sovvertire l’esito della
pronuncia impugnata, sicché si impone la rivisitazione del giudizio, da
svolgere tenendo conto anche della circostanza pretermessa: “fatto”
di cui è stato omesso l’esame che è da intendere in senso storico – naturalistico
(Cass. 8 ottobre 2014, n. 21152), quale circostanza rilevante sia in via
diretta, perché costitutiva, modificativa o impeditiva rispetto alla
fattispecie legale, sia in via indiretta, quale fatto secondario, dedotto in
funzione di prova (Cass. 8 settembre 2016, n.
17761).
In sostanza l’inadeguatezza della motivazione,
rileva ex art. 360 n. 5 c.p.c., nel solo caso
in cui essa ometta l’esame di uno o più fatti decisivi. Sta in tale quadro il
nuovo assetto processuale quale delineato da Cass.,
S.U., 7 aprile 2014, n. 8053, e racchiusa nella sintesi delineata in tale
pronuncia, secondo la quale l’attuale e novellato assetto si caratterizza per
la «riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità
sulla motivazione», sicché è denunciabile in cassazione, nelle forme di cui
all’art. 360 n. 4 c.p.c., «solo l’anomalia
motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé», che si
determina, quale vizio processuale (art. 360 n. 4
c.p.c.), allorquando l’anomalia si manifesti come « “mancanza assoluta
di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione
apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione», mentre l’aggressione della
motivazione nei termini di cui all’art. 360 n. 5
c.p.c. presuppone una specifica modalità delle critica, rigorosamente
articolata attraverso l’indicazione del «”fatto storico”, il cui
esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui
esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto
sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la su.: “decisività”».
Resta per altro verso ferma la possibilità di
dedurre la violazione di legge (art. 360 n. 3 c.p.c.),
allorquando vi sia contrasto con la disciplina che regolano l’operatività e
l’efficacia delle prove, tra cui in particolare può qui richiamarsi l’ipotesi
del mancato rispetto delle regole di gravità, precisione e concordanza (art. 2729 c.c.) richieste per la prova presuntiva,
il che nuovamente consente il sindacato sotto il profilo della elevata
probabilità logica (Cass. 16 novembre 2018, n. 29635; Cass. 4 agosto 2017, n.
19485).
Così come, la ritenuta inidoneità di un fatto pur
dedotto può essere tale, se quel fatto, proprio come allegato, integri in sé la
circostanza costitutiva di un diritto o gli estremi di un eccezione, da
permettere di censurare l’erronea valutazione quale violazione della norma
sostanziale (art. 360 n. 3 c.p.c.), che si
ritenga viceversa intercettata dalla predetta circostanza e risulti pertanto
mal apprezzata dal giudice del merito nella propria pregnanza giuridica.
2.2 Venendo al caso di specie, la motivazione della
sentenza impugnata, rispetto alla questione sulla nullità per frode della legge
o per motivo illecito determinante si concentra nell’affermazione, riferita ad
entrambe le predette ipotesi giuridiche, secondo cui il lavoratore non aveva
soddisfatto «l’onere di allegazione e prova su di lui gravante», avendo agito
sulla base di «allegazioni … sul punto generiche e del tutto inidonee a
dimostrare la sussistenza di un intento fraudolento eo discriminatorio».
Non può quindi dirsi sussistente la denunciata
violazione dell’art. 132 c.p.c. (primo motivo)
in relazione al fondarsi del licenziamento su frode alla legge (…) o motivo
illecito determinante.
L’iter logico seguito, fondato sull’assunto per cui
quanto dedotto non fosse idoneo alla prova delle fattispecie invocate, è
infatti del tutto percepibile, a nulla rilevando, perché la legge processuale
non li valorizza, i profili di sufficienza nell’esplicitazione dei singoli
passaggi di interconnessione tra la conclusione (inidoneità alla dimostrazione
dei fatti idonei ad integrare la fattispecie) e il fondamento di esse (tenore
concreto delle allegazioni svolte); né le affermazioni motivazionali presentano
profili di contraddittorietà che possano far ipotizzare per tale via un difetto
di motivazione rilevante ex art. 132 n 4 c.p.c.
Ragioni analoghe portano ad escludere che si possa
ravvisare la violazione dell’art. 112 c.p.c.
(secondo motivo), sempre rispetto alle medesime domande, in quanto su di esse,
palesemente, la pronuncia sussiste ed è di rigetto.
Ed ancora da disattendere è il terzo motivo ove si
addebita alla sentenza la violazione dell’art. 112
c.p.c., per avere omesso di considerare una serie di fatti che, a dire del
ricorrente, avrebbero consentito di apprezzare l’incolpevolezza del medesimo
rispetto alla alterazione documentale che sarebbe stata commessa – questa è la
tesi – dal di lui figlio.
A parte ogni altro profilo, la Corte territoriale va
infatti oltre il tema di chi fosse stato a porre in essere la contraffazione,
affermando che «ad ogni buon conto» ciò che rilevava era che il lavoratore
avesse fatto uso di quel documento, senza sincerarsi diligentemente del suo
contenuto.
Si tratta di argomentazione in cui si concentra una
assorbente, autonoma e finale ratio decidendi rispetto alla quale i fatti
opposti con il motivo, riguardando la responsabilità per l’alterazione
documentale, sono destinati a risultare irrilevanti, mentre quanto dedotto in
termini direttamente riguardanti tale profilo, ovverosia il fatto che il R. non
potesse prefigurarsi l’avvenuta alterazione neppure al momento di trasmettere
la documentazione all’azienda, individua una generica prospettazione di
rilettura del merito in senso diverso rispetto a quanto opinato dalla Corte
territoriale, come tale parimenti inammissibile (Cass.
S.U. 25/10/2013, n. 24148).
2.3 In definitiva, a fronte dell’affermazione della
sentenza impugnata secondo la quale le allegazioni svolte erano da considerare
«generiche ed inidonee» rispetto alla pretesa azionata, la censura avrebbe potuto
essere sviluppata, sul piano sostanziale, individuando l’eventuale contrasto
tra uno o più tra i fatti dedotti e le fattispecie sostanziali rivendicate (art. 360 n. 3 c.p.c.), oppure, sul piano
motivazionale, individuando uno o più fatti la cui omessa considerazione, quale
effetto del giudizio generale di inidoneità sopra detto, avrebbe avuto
l’effetto di impedire un diverso giudizio, viceversa altamente probabile ove le
relative circostanze fossero state considerate (art.
360 n. 5 c.p.c.).
Non è tuttavia in questi termini che i motivi – si
fa qui riferimento al primo ed ai secondo di essi – sono impostati, in quanto
essi consistono in un richiamo complessivo di quanto addotto a sostegno della
ricostruzione sostenuta per inficiare la
legittimità del licenziamento, mentre entrambe le ipotesi appena
indicate imporrebbero l’enucleazione esatta e precisa, nel corpo del motivo e
con correlata e specifica argomentazione, del (o dei) fatti la cui erronea
sussunzione o pretermissione abbia inficiato il giudizio di diritto sulla
fattispecie astratta (art. 360 n. 3 c.p.c.) o
di fatto sulla fattispecie concreta (art. 360 n. 5
c.p.c.), non essendo in alcun modo ammissibile che una tale stringente
impostazione sia surrogata dalla cernita giudiziale, tra i più fatti
contestualmente richiamati, dei profili ipoteticamente rilevanti nell’uno o
nell’altro senso.
Al di là della qualificazione nominale con cui,
entro l’ambito dell’art. 360 c.p.c., nel
ricorso sono individuate le ragioni di censura, manca dunque la specifica
individuazione degli aspetti eventualmente rilevanti nei termini appena
indicati.
3.3 I motivi vanno dunque respinti, potendosi
altresì esprimere il seguente principio, in sintesi di quanto finora detto:
«nel caso in cui il giudice del merito abbia ritenuto, senza ulteriori
precisazioni, che le circostanze dedotte per sorreggere una certa domanda (o
eccezione) siano generiche ed inidonee a dimostrare l’esistenza dei fatti
costitutivi del diritto stesso (o dell’eccezione), non può ritenersi
sussistente né la violazione dell’art. 132 n. 4
c.p.c. per difetto assoluto di motivazione o motivazione apparente, né la
violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa
pronuncia, mentre, qualora si assuma che una tale pronuncia comporti la mancata
valorizzazione di fatti che si ritengano essere stati affermati dalla parte con
modalità sufficientemente specifiche, può ammettersi censura, da articolare nel
rigoroso rispetto dei criteri di cui agli artt. 366
e 369 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., qualora uno o più dei
predetti fatti integrino direttamente elementi costitutivi della fattispecie
astratta e dunque per violazione della norma sostanziale, oppure ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., per omesso esame di una o
più di tali circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo
parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea
ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata».
3. Con il quarto motivo è dedotta la violazione
dell’art. 116 c.p.c. (e 24 della Costituzione) con riferimento alla
presunzione con cui il giudice del reclamo aveva ritenuto non verosimile che
l’alterazione documentale fosse stata operata
dal figlio del R. sua sponte.
Tuttavia la Corte, come detto, ha espresso una ratto
decidendi finale che prescinde dalla riferibilità all’una o altra persona
dell’alterazione, in quanto ha valorizzato condefinitivamente rilevante il
fatto che vi fosse stato comunque l’uso di un atto falso e non diligentemente
controllato, rilievo rispetto al quale è ininfluente chi fosse stato l’autore
della manomissione documentale.
Il motivo è dunque inconferente.
4. Con il quinto motivo è addotta la violazione o
falsa applicazione dell’art.
18, co. 4 e 5 L. 300/1970, assumendosi che il difetto di proporzione nella
sanzione irrogata atterrebbe ai profili di giuridicità del fatto, sicché il
rilievo della Corte d’Appello per cui l’illecito accertato non rientrava nella
tipizzazione dei comportamenti rilevanti disciplinarmente secondo la
contrattazione collettiva, avrebbe comunque dovuto portare all’applicazione del
co. 4, e non del co. 5, con susseguente applicazione della tutela
reintegratoria, oltre che indennitaria.
Con il sesto motivo si assume ancora la violazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 18, co. 4 e 5, L. 300/1970,
in una con quella degli artt. 38 e 75 C.C.N.L. Equitalia del 9.4.2008, per
avere comunque la Corte erroneamente ritenuto che la contrattazione collettiva
non contemplasse l’ipotesi accertata, in quanto la medesima era invece da essa
prevista nella parte in cui si prevedeva comunque la gradazione delle sanzioni
«in relazione alla gravità o recidività della mancanza o del grado di colpa».
La violazione delle stesse norme è infine addotta a
fondamento del settimo ed ultimo motivo di ricorso, secondo cui le due condotte
contestate andavano considerate come un unicum inscindibile, sicché il
riconoscimento dell’infondatezza di uno degli addebiti, quale si era orami
definitivamente avuta nel caso di specie, comportava di necessità la
caducazione anche dell’altro, con riconoscimento quindi dell’insussistenza nel
suo complesso del fatto perseguito ed applicazione della tutela reintegratoria
di cui all’art. 18, co. 4.
5. I motivi, riguardando le stesse norme, possono
essere esaminati congiuntamente, sulla premessa preliminare che il rapporto,
risalendo ad un contratto di lavoro originario tra Equitalia Centro s.p.a. ed
il lavoratore, ha natura piena di diritto privato, sicché ad esso trova
applicazione l’art. 18 L.
300/1970 quale riformato dalla L. 92/2012.
5.1 Si deve poi considerare che «qualora il
licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al
dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi
autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione.
Non è dunque il datore di lavoro a dover provare di aver licenziato solo per il
complesso delle condotte addebitate, bensì la parte che ne ha interesse, ossia
il lavoratore, a dover provare che solo presi in considerazioni congiuntamente,
per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non
consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro» (Cass.
28 luglio 2017, n. 18836).
L’insussistenza del fatto attorno alla quale ruota
la disciplina di cui all’art.
18, co. 4 cit., ricorre dunque, in caso di pluralità di addebiti, solo
qualora nessuno di essi, come detto da presumere base idonea per giustificare
la sanzione, sia sussistente o se, comunque, possa dirsi che anche i fatti
accertati come verificatisi, siano disciplinarmente del tutto irrilevanti.
Nel caso di specie, l’affermazione, contenuta nel
settimo motivo di ricorso, secondo cui il comportamento perseguito dal datore
di lavoro, pur consistendo di due fatti, sarebbe da considerare come unico, è
puramente apodittica, mentre la sussistenza di un fatto disciplinarmente
rilevante è stata accertata e in sé resiste ai motivi di ricorso.
Pertanto l’assunto di cui al settimo motivo va
disatteso e, residuando comunque uno solo dei due fatti contestati, il problema
potrebbe porsi semmai, come del resto ha ritenuto la Corte territoriale, sotto
il profilo della proporzionalità della sanzione.
5.2 Quanto a tale aspetto ed alla conseguenze della
violazione dei canoni di proporzionalità, deve darsi seguito alla ormai
costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui «in tema di licenziamento
disciplinare, qualora vi sia sproporzione tra sanzione e infrazione, va
riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta in addebito non coincida con
alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi ovvero i codici
disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa; in tal caso il
difetto di proporzionalità ricade, difatti, tra le “altre ipotesi” di
cui all’art. 18, comma 5,
st.lav., come modificato dall’art.
1, comma 42, della I. n. 92 del 2012, in cui non ricorrono gli estremi del
giustificato motivo soggettivo o della giusta causa di licenziamento ed è
accordata la tutela indennitaria cd. forte» (Cass. 20 maggio 2019, n. 13533; Cass. 12 ottobre 2018, n. 25534; Cass. 17 ottobre
2018, n. 26013).
L’orientamento si fonda su una nozione rigorosa di
tipicità (v. il caso deciso da Cass. 13533/2019 cit.), che è integrata solo
dalle ipotesi in cui la contrattazione collettiva preveda in modo specifico
fattispecie e relative sanzioni e non quando essa non contenga tipizzazioni o
si esprime attraverso formule generiche di gravità o simili, tali da rimettere
al giudice il controllo valutativo consequenziale. Ciò in coerenza con la ratio
della previsione del comma 4, cit., che consiste nella valorizzazione del
«grado di divergenza della condotta datoriale dal modello legale e contrattuale
legittimante» (Cass. 16 luglio 2017, n. 13178; analogamente, Cass. 16 luglio
2018, n. 18823), nel senso che più grave è la sanzione allorquando per tabulas
maggiore è, per la violazione di specifica tipizzazione della contrattazione
collettiva, la prevedibilità di una sproporzione dell’addebito.
Essendosi altresì precisato che la tutela
reintegratoria in ambito disciplinare «costituisce l’eccezione alla regola
rappresentata dalla tutela indennitaria, presupponendo l’art. 18, comma 4, della I. n. 300
del 1970, l’abuso consapevole del potere disciplinare, che implica una
conoscenza preventiva, da parte del datore di lavoro, della illegittimità del
provvedimento espulsivo, derivante o dalla insussistenza del fatto contestato o
dalla chiara riconducibilità della condotta tra le fattispecie ritenute dalle
parti sociali inidonee a giustificare l’espulsione del lavoratore» (Cass. maggio 2019, n. 12365).
Poiché nel caso di specie, come precisato dalla
Corte di merito, il C.C.N.L. non contiene alcuna tipizzazione delle condotte
disciplinari, va da sé, sulla base di quanto finora detto, che sia da ritenere
corretta l’applicazione della sola tutela indennitaria.
5. Il ricorso va dunque integralmente rigettato,
senza alcun provvedimento sulle spese, in quanto la parte datoriale è rimasta
intimata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1- bis, dello stesso articolo 13.