Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 ottobre 2019, n. 27342
Domanda di superiore inquadramento, Differenza retributiva,
Mansioni indicate nel ricorso introduttivo
Ritenuto
1. Che la Corte d’Appello di Bologna, con la
sentenza n. 1232/13 del 15 ottobre 2013, pronunciando sull’appello proposto da
T.L. nei confronti dell’INPS, avverso la sentenza emessa tra le parti dal
Tribunale di Parma, in parziale accoglimento dello stesso condannava l’Istituto
datore di lavoro al pagamento della somma di euro 3.892,80, oltre interessi
legali dal dovuto al saldo, quale differenza retributiva per lo svolgimento di
mansioni superiori; confermava il rigetto della domanda di superiore
inquadramento.
2. La lavoratrice, come ricordato nella sentenza di
appello, aveva adito il Tribunale esponendo di essere dipendente dell’INPS,
sede di Parma, e di essere stata inquadrata, da ultimo, nel livello B1 della
scala classificatoria del personale degli enti pubblici non economici, di
essere stata preposta al reparto legale – settore contenzioso – e di avere
svolto, almeno dal 1° luglio 1989 (recte: 1998) e fino al 23 settembre 1999
(data del nuovo inquadramento nell’Area C1 mansioni superiori riconducibili
all’Area C, profilo C-1, quale operatore di processo.
Chiedeva, quindi, che venisse accertato sia il
diritto ad essere inquadrata nell’ambito dell’Area C1, posizione economica VII,
ovvero in quella comunque superiore a quella riconosciutale, a far tempo dal 1
luglio 1998 al 23 settembre 1999, sia il diritto a percepire il corrispondete
trattamento economico e normativo, con condanna dell’INPS a corrispondere per
tale titolo la somma di euro 3.892,80, o la diversa somma accertata in causa.
Il Tribunale rigettava la domanda.
3. La Corte d’Appello, dopo aver proceduto all’esame
delle declaratorie contrattuali del CCNL, Comparto
enti pubblici non economici del 19 febbraio 1999 e del CCNI del 24 giugno
1999, Area B ed Area C, affermava che il criterio fondamentale di distinzione
fra il personale inquadrato nella AREA B ed il personale inquadrato nell’AREA C
era rappresentato dalla capacità del secondo di svolgere tutte le fasi del
processo al medesimo affidato, a tal punto da essere in grado di ottimizzarlo e
facilitarlo, limitandosi invece il primo a svolgere solo fasi o fasce del
processo produttivo nell’ambito delle ricevute direttive di massima e di
procedure predeterminate.
In buona sostanza, quindi, il dipendente inquadrato
nell’ Area C è responsabile del processo ad esso affidato, con gestione dal suo
inizio fino al risultato finale, mentre il dipendente inquadrato in Area B è
sostanzialmente un mero interprete di istruzioni operative relative ad una fase
del processo produttivo in cui è strutturalmente inserito.
3.1. Tanto premesso, la Corte d’Appello ha statuito
che la lavoratrice aveva certamente svolto di fatto mansioni rientranti nella
Area C, essendo sostanzialmente -emersa in causa sulla base dei fatti come
dalla lavoratrice specificamente allegati, ed ex adverso non specificamente
contestati, la sostanziale autonomia della stessa nella gestione di tutti i
processi a lei affidati e svolti in tutte le diverse fasi.
Ciò trovava conferma nell’attribuzione alla
lavoratrice, dal 24 settembre 1999, dell’inquadramento nell’Area C1, pur
continuando la stessa a svolgere i medesimi compiti già svolti – di fatto- nel
periodo precedente.
4. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre l’INPS prospettando un motivo di ricorso.
5. Resiste con controricorso la lavoratrice, che in
prossimità dell’adunanza camerale ha depositato memoria.
Considerato
1. Che con l’unico motivo di ricorso è prospettata
la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art.
360, n. 4, cod. proc. civ., dell’art. 416 cod.
proc. civ. e del d.P.R. n. 285 del 1988.
È censurata la statuizione che ha ritenuto fondata
la domanda della lavoratrice, nella parte accolta, in primo luogo sulla base
della mancata contestazione da parte dell’INPS delle mansioni indicate nel
ricorso introduttivo.
1.1. Occorre precisare che la Corte d’Appello ha
affermato che parte ricorrente aveva dedotto di essere stata preposta nel
periodo in questione, al reparto legale – settore contenzioso presso la sede
legale di Parma, espletando di fatto mansioni meglio descritte nel ricorso di
primo grado e da aversi integralmente trascritte nella sentenza di appello e
che tale allegazione in punto di fatto aveva trovato sostanziale riscontro in
giudizio.
Quindi, ha rilevato che, nella pur articolata difesa
dell’INPS, non risultava sostanzialmente contestato l’espletamento da parte
della lavoratrice delle predette mansioni, non contenendo la memoria di
costituzione dell’Istituto una specifica contestazione al riguardo; di tale
mancata contestazione aveva dato conto anche la sentenza di primo grado
1.2. Assume l’INPS che sia nella memoria di
costituzione di primo grado, sia nella memoria di costituzione in appello aveva
chiaramente contestato lo svolgimento delle mansioni così come indicate da controparte,
mentre aveva affermato lo svolgimento da parte della stessa delle mansioni
proprie della qualifica di appartenenza.
Il ricorrente riporta alcuni passi del ricorso
introduttivo del giudizio e della memoria difensiva di primo grado, il cui
contenuto assume aver ribadito nella memoria di costituzione in appello.
Pertanto, l’Istituto aveva contestato gli assunti
avversari. Le circostanze e modalità di esecuzione della prestazione, come da
esso datore di lavoro prospettate, avevano trovato conferma nell’interrogatorio
libero della lavoratrice.
Erroneamente la Corte d’Appello aveva ritenuto che
le mansioni svolte dalla lavoratrice potevano rientrare nella qualifica
superiore, omettendo di esperire attività istruttoria.
Infine l’INPS richiama il d.P.R. n. 285 del 1988,
applicabile ratione temporis e il mansionario relativo alla VI e VII qualifica.
2. Il motivo di ricorso è inammissibile.
2.1. Come affermato dalle Sezioni Unite, con la
sentenza n. 8077 del 2012, anche nel caso in cui sia prospettata la violazione
dell’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., la
proposizione del motivo di censura resta soggetta alle regole di ammissibilità
e di procedibilità stabilite dal codice di rito, nel senso che la parte ha
l’onere di rispettare il principio di specificità del ricorso e le condizioni
di procedibilità di esso.
2.2. Tanto premesso, occorre precisare che la Corte
d’Appello ha affermato (pag. 4 della sentenza di appello) che nel ricorso la
lavoratrice aveva descritto le mansioni svolte e tale allegazione aveva trovato
riscontro in giudizio. Le predette mansioni non venivano specificamente
contestate nella memoria di costituzione dell’INPS, come affermato anche dal
giudice di primo grado. E ulteriore riscontro andava desunto dalla prodotta
documentazione, con specifico riferimento agli ordini di servizio prodotti in
atti.
Lo svolgimento delle mansioni superiori era emersa
confermata in causa sulla base dei fatti specificamente allegati dalla
lavoratrice e non specificamente contestati ex adverso.
2.3. L’INPS, nel dedurre l’intervenuta contestazione
delle circostanze di fatto, si limita a riportare contrapponendole alcune
affermazioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio e un passo della
propria difesa in primo grado, rimettendo a questa Corte di desumere dal
confronto tra gli stessi l’intervenuta contestazione. Non riporta le proprie
difese svolte in appello, e dunque le contestazioni che avrebbe ribadito in
detta sede, e il contenuto del libero interrogatorio i cui esiti prospetta
favorevoli alla propria tesi, così violando la previsione dell’art. 366 n. 4, cod. proc. civ.
Come già affermato dalla giurisprudenza di
legittimità, i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità,
dall’art. 366, comma 1, cod. proc. civ., nn. 3,
4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono
essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso,
dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla
sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del
vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui
erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale
fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e
trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del
principio di autosufficienza (Cass., n. 29093 del 2018).
2.4. Inoltre, l’INPS assorbe nella statuizione di
non contestazione, e dunque non censura specificamente, l’autonoma affermazione
della Corte d’Appello che ha ritenuto intervenuta la prova documentale (ordini
di servizio prodotti in giudizio) dello svolgimento delle mansioni superiori.
3. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
4. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.
5. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il
ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 200,00 per
esborsi, euro 5.500,00, per compensi professionali, oltre spese generali in
misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.