Sonia Gioia
Per “principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale”. Tale principio comporta il divieto di ogni forma di discriminazione e cioè di qualsiasi ingiustificata differenza di trattamento, sia diretta che indiretta (art. 2, D.LGS. 9 luglio 2003, n. 216 di attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro)
La discriminazione è diretta quando consegue all’applicazione di un criterio di differenziazione vietato dalla legge, ossia “quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga” (art. 2, lett. a), D.LGS. cit.). Con riferimento alla giurisprudenza di merito, v. Trib. Velletri 10 aprile 2019, n. 6061, annotata in questo sito da S. GIOIA, Discriminazioni per motivi sindacali; Trib. Bergamo 30 marzo 2018, n. 1586; Trib. Roma 21 giugno 2012, che ha ritenuto discriminatoria la mancata assunzione dei lavoratori iscritti ad un determinato sindacato; Trib. Bologna 1 giugno 2012.
Si definisce, invece, indiretta la discriminazione quando il criterio adottato è formalmente neutro, ma, nei fatti, svantaggia i lavoratori con le caratteristiche tipiche protette dalla legge: ciò, in particolare, “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone” [art. 2, lett. b), D.LGS. cit.] (CGUE 7 giugno 2012, C- 132/2011; Cass. 12 gennaio 2012, n. 234; Cass. 13 novembre 2007, n. 23562; Trib. Napoli 31 maggio 2012).
In particolare, se nel caso di discriminazione diretta è la condotta, il comportamento tenuto che determina l’ingiustificata diversità di trattamento, nell’ipotesi di discriminazione indiretta la disparità vietata è “l’effetto di un atto, di un patto, di una disposizione, di una prassi in sé legittimi, di un comportamento che è corretto in astratto e che, in quanto destinato a produrre i suoi effetti nei confronti di un soggetto con particolari caratteristiche, determina invece una situazione di disparità che l’ordinamento sanziona” (Cass. n. 20204/2019; Cass. 13 novembre 2007, n. 23562; CGUE, 17 ottobre 1989, C- 109/88).
La discriminazione indiretta può, altresì, consistere “nell’effetto sproporzionatamente pregiudizievole di una politica o di una misura generale che, se pur formulata in termini neutri, produce una discriminazione nei confronti di un determinato gruppo” (CGUE 9 giugno 2009; CGUE13 novembre 2007; CGUE 20 giugno 2006).
Sono, inoltre, considerate come discriminazioni le molestie o il mobbing individuato in quei comportamenti indesiderati aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità della persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo (art. 2, co. 3, D.LGS. cit.) (Trib. Milano 22 marzo 2012).
L’ordine di discriminare è, poi, equiparato alla discriminazione (art. 2, co. 4, D.LGS. cit.).
La discriminazione, al pari del divieto di indagini, è, invece, esclusa quando la natura della prestazione lavorativa o il suo contesto o il tipo di attività del datore di lavoro rendono essenziali determinate caratteristiche del lavoratore (art. 3, co. 3 e 5, D.LGS. cit.) (CGUE 17 aprile 2018, C-414/16, annotata in questo sito da G.I. VIGLIOTTI, Discriminazione sul lavoro e religione; Trib. Milano 27 giugno 2016) e quando la differenza di trattamento sia giustificata da finalità legittime, quali obiettivi di politica e mercato del lavoro, perseguite con mezzi appropriati e necessari (art. 3, co. 6, D.LGS. cit.) (CGUE 14 marzo 2017, C- 157/15, con nota in questo sito di D. CASAMASSA, Vietare il velo sul posto di lavoro non costituisce discriminazione).