Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 ottobre 2019, n. 27335

Amministratore di s.r.l., Riconoscimento del compenso
spettante in relazione alla attività espletata

Fatti di causa

 

La s.p.a. I.M. & C. adiva il Tribunale di
Livorno ed esponeva in via di premessa, di esser titolare di crediti di
imponente ammontare, nei confronti di R.C., in virtù di una serie di sentenze
esecutive. Dolendosi di non averne potuto conseguire il recupero, conveniva in
giudizio R.C. nonché la D. s.r.I., la L.T.M. s.r.l. e la R.C. s.r.l. nelle
quali il primo aveva rivestito funzioni di presidente ovvero di amministratore
delegato, proponendo azione surrogatoria “satisfattiva” ai  sensi dell’art.
2900 c.c. La ricorrente instava affinchè le società presso le quali R.C.
aveva svolto detti ruoli, corrispondessero il pagamento dei compensi a lui
spettanti direttamente in favore di essa creditrice, previa determinazione
anche equitativa, dei compensi maturati in favore del proprio debitore.

Nel costituirsi in giudizio le parti convenute
contestavano la domanda deducendone l’inammissibilità, sul rilievo che con
precedente sentenza n. 249/2006 resa nell’ambito del giudizio di accertamento
dell’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c., era
stata accertata l’insussistenza del diritto del C. al compenso come
amministratore delle menzionate società.

Proponevano quindi domanda riconvenzionale volta a
conseguire il risarcimento dei danni da lite temeraria.

Il giudice adito accoglieva la domanda proposta
dalla s.p.a. I.M., con sentenza che veniva riformata dalla Corte distrettuale.

Il giudice del gravame, a fondamento del decisum, e
per quanto ancora qui rileva, osservava che l’azione surrogatoria satisfattiva
nella specie esperita, presupponeva l’accertamento della sussistenza del
credito del debitore verso il terzo e la sua liquidità. Rimarcava, peraltro che
nella specie la società ricorrente aveva già esperito nei confronti della
L.T.M. e della D. s.r.I., azione ex art. 548 c.p.c.
conclusasi con sentenza, passata in giudicato, di accertamento negativo circa
l’esistenza di crediti di R. C. nei confronti delle summenzionate società.

Con riferimento alla azione promossa nei confronti
della s.r.l. R. C., rimasta estranea al giudizio proposto ai sensi dell’art. 548 c.p.c., la Corte di merito argomentava
che dall’atto costitutivo della società non si evinceva la definizione di alcun
diritto al compenso per gli amministratori, né le delibere assembleari avevano
mai provveduto in tal senso. La circostanza che il C. avesse accettato
incarichi che non prevedevano compensi, per lunghi anni, confermava
ulteriormente la gratuità della prestazione collaborativa resa.

Avverso tale pronuncia la s.p.a. I. M. &C.
interpone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi ai quali resistono
con controricorso R. C. e la società L.T.M. La s.r.l. Finanziaria D. e R. C.
s.r.l. non hanno svolto attività difensiva.

Entrambe le parti hanno depositato memoria
illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1.Con il primo motivo si denunzia violazione dell’art. 2909 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si critica la sentenza impugnata per aver ritenuto
che l’accertamento negativo del diritto di credito compiuto nel giudizio
sull’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c.,
precludesse l’esame della fondatezza del diritto azionato nel presente
giudizio.

Si osserva, per contro, che l’accertamento
dell’obbligo del terzo e l’azione surrogatoria non si fondano sui medesimi
punti di fatto o di diritto, giacchè l’azione esperita in sede esecutiva può
riguardare solo i crediti assoggettabili a pignoramento che, se da un lato
possono comprendere crediti condizionati, illiquidi o non ancora esigibili, non
possono mai includere quelle posizioni la cui attualità o la cui certezza
dipendono dal venir in essere dei propri stessi presupposti. Sulla base di tali
principi si deduce che non possono essere staggiti, formando oggetto di azione
ex art. 548 c.p.c., i crediti da accertare in
sede giudiziale sia per quanto concerne l’an che il quantum debeatur.

2. La tesi accreditata dal ricorrente a sostegno
della critica, si presenta evidentemente carente sotto il profilo della
specificità, giacchè, in violazione dei dettami sanciti dall’art. 366 c. 1 nn. 3, 4 e 6 c.p.c. omette di
riportare integralmente il tenore della sentenza di accertamento della
insussistenza dei crediti vantati dal C. nei confronti delle società
controricorrenti, passata in cosa giudicata.

La giurisprudenza di questa Corte, da tempo, ha
infatti posto in evidenza il necessario coordinamento tra il principio secondo
cui l’interpretazione del giudicato esterno può essere effettuata direttamente
dalla Corte di Cassazione con cognizione piena, e il principio della necessaria
specificità del ricorso.

E’ stato infatti, affermato che
“l’interpretazione di un giudicato esterno può essere effettuata anche
direttamente dalla Corte di cassazione con cognizione piena, nei limiti, però,
in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per cassazione, in forza del
principio di autosufficienza di questo mezzo di impugnazione, con la
conseguenza che, qualora l’interpretazione che 
abbia dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta, il predetto
ricorso deve riportare il testo del giudicato che si assume erroneamente
interpretato, con richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo,
atteso che il solo dispositivo non può essere sufficiente alla comprensione del
comando giudiziale” (vedi in motivazione Cass. Sez. Un. 27/1/2004 n. 1416
cui adde Cass. 31/7/2012 n. 13658, Cass. 15/10/2012 n. 17649, Cass. 23/6/2017
n. 15737, Cass. 31/05/2018 n. 13988).

Tale orientamento ha rimarcato come i motivi di
ricorso per cassazione fondati su giudicato esterno, debbano rispondere ai
dettami di cui all’art. 366 n. 6 c.p.c., che
del principio di autosufficienza rappresenta il precipitato normativo (cfr.
Cass. 18/10/2011 n. 21560, Cass. 30/4/2010 n.10537, Cass.13/3/2009 n. 6184);
tanto sia sotto il profilo nella riproduzione del testo della sentenza passata
in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il riassunto sintetico della
stessa (cfr. Cass. 11/2/2015 n. 2617), sia
sotto il profilo della indicazione della sede in cui essa sarebbe rinvenibile
ed esaminabile in questo giudizio di legittimità (vedi Cass. cit. n.
21560/2011).

Nello specifico, la pronuncia non risulta trascritta
nel suo contenuto, né parte ricorrente indica in quale parte del fascicolo la
stessa sarebbe rinvenibile; onde il motivo resiste alla censura all’esame.

3. La seconda critica prospetta violazione dell’art. 2389 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si deduce che una corretta lettura della
disposizione – che sancisce il diritto perfetto dell’amministratore di una
s.r.l. a compenso per l’opera prestata (stabilito nello statuto delle società
D. Finanziaria ed L.T.M.) – avrebbe dovuto indurre la Corte distrettuale al
riconoscimento del diritto del C. al compenso spettante in relazione alla
attività espletata.

4. Anche questa censura palesa profili di
inammissibilità.

S’impone infatti l’evidenza del difetto di
specificità della doglianza che non riproduce il tenore dell’art.16 dello Statuto
della D. Finanziaria né dell’art. 27 dello Statuto L.T.M. recanti la previsione
che l’organo assembleare possa provvedere a deliberare il compenso in favore
degli amministratori. Nel rispetto dei requisiti di contenuto-forma previsti, a
pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1,
c.p.c., nn. 3, 4 e 6, il ricorrente deve infatti specificare il contenuto
della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti
processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il
documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel
ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato
depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso (vedi ex
plurimis Cass. 13/11/2018 n. 29093). Non avendo la società ottemperato a tale
ultimo incombente, la censura non si sottrae ad un giudizio di inammissibilità.

5. Con il terzo motivo è denunciata violazione dell’art. 1720 c.c. ex art.
360 comma primo n. 3 c.p.c.

Si critica la statuizione con la quale la Corte di
merito ha accertato la gratuità della prestazione resa dal C., sul rilievo che
il mandato – integrante il contenuto dell’incarico conferito all’amministratore
– ha sempre natura onerosa per espressa previsione dell’art. 1720 c.c., come stabilito dai dicta della
corte di legittimità secondo cui la gratuità della prestazione, se non prevista
dallo statuto societario, deve emergere da una delibera assembleare.

Si desume quindi dalle enunciate premesse, che la
rinuncia dell’amministratore al compenso non può evincersi dalla mera inerzia
di quest’ultimo, ma deve esprimersi in un atto positivo, che nella specie era
mancato.

6. Il motivo è privo di fondamento. Il giudice del
gravame, nel proprio incedere argomentativo, ha infatti accertato che il ruolo
rivestito dal C. nelle compagini societarie, non postulava l’obbligatorietà del
compenso professionale, acclarando altresì che nessuno degli atti costitutivi
delle tre società aveva assicurato un compenso per gli amministratori; ha
quindi precisato ulteriormente che non risultava agli atti, né era stato
specificamente allegato, che alcun corrispettivo fosse stato effettivamente
versato al C.. La richiamata statuizione è conforme a diritto e si sottrae alle
critiche formulate, perché coerente col dicta di questa Corte secondo cui il
rapporto che lega l’amministratore alla società è di immedesimazione organica,
non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato, né a quello di
collaborazione coordinata e continuativa, dovendo essere, piuttosto, ascritto
all’area del lavoro professionale autonomo ovvero qualificato come rapporto
societario “tout court” (vedi Cass.
11/2/2016 n. 2759).

La continuità di tali condivisibili approdi è
segnata da successiva pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte con la
quale si è rimarcata la natura del rapporto intercorrente tra la società di
capitali ed il suo amministratore nei descritti termini; la Corte ha infatti
avuto modo di argomentare come l’amministratore unico o il consigliere di
amministrazione di una s.p.a. siano legati alla stessa da un rapporto di tipo
societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona
fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso
in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c.
(vedi Cass. S.U.20/1/2017 n. 1545), di guisa
che del tutto legittima è anche la previsione statutaria di gratuità delle
relative funzioni (cfr. Cass. 9/1/2019 n. 285).
Il possesso della qualifica di amministratore di società di capitali, non
comporta in capo a chi tale qualifica riveste, alcun rapporto di tipo
contrattuale con la società stessa, di guisa che non potrebbe riconoscersi
all’amministratore alcun diritto ex lege al compenso (vedi sul punto Cass. 2017 n. 15382).

Discende, coerente, dagli evocati principi, che la
normativa invocata da parte ricorrente in tema di mandato, con la relativa
presunzione di gratuità, non può rinvenire riscontro nella fattispecie
delibata.

La statuizione impugnata, del tutto congrua sotto
il- profilo logico, e corretta sul versante giuridico, perché coerente con i
principi summenzionati che la Corte distrettuale ha mostrato di conoscere e
condividere, per quanto sinora detto, resiste alla censura all’esame.

7. La quarta critica concerne la violazione dell’art. 2697 c.c. ex art.
360 comma primo n. 3 c.p.c. ed attinge la pronuncia della Corte
distrettuale laddove ha ritenuto non adempiuto dalla società ricorrente,
l’onere di allegazione e di prova in ordine ai tempi e modi entro i quali il C.
aveva esercitato la carica di amministratore presso le società convenute.

Si fa leva sui dati desumibili da articoli di stampa
e dal tenore di talune testimonianze raccolte, (peraltro neanche riportate nel
loro tenore), per sostenere che il C. svolgesse un’attività di primissimo piano
nella amministrazione delle società menzionate, richiamandosi il principio
della vicinanza della prova, secondo cui la distribuzione degli oneri probatori
deve tener conto del principio costituzionale che impone di interpretare la
legge in modo da non renderne impossibile l’esercizio.

8. Anche detto motivo mostra evidenti criticità
quanto ai requisiti di ammissibilità del ricorso.

Vale difatti osservare che il vizio di violazione di
legge ricorre (quanto alla violazione di legge in senso proprio) in ipotesi di
erronea negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma,
nonché di attribuzione ad essa di un significato non appropriato, ovvero
(quanto alla falsa applicazione), alternativamente, nella sussunzione della
fattispecie concreta entro una norma non pertinente, perché, rettamente
individuata ed interpretata, si riferisce ad altro, od altresì nella deduzione dalla
norma, in relazione alla fattispecie concreta, di conseguenze giuridiche che
contraddicano la sua pur corretta interpretazione (Cass. 26/02005, n. 18782).

Dalla violazione o falsa applicazione di norme di
diritto va difatti tenuta distinta la denuncia dell’erronea ricognizione della
fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si
colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma
di legge. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi — violazione di legge in
senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie
normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o
contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta — è segnato dal fatto
che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata
valutazione delle risultanze di causa (Cass. 11/1/2016, n. 195; Cass. 30/12/2015, n. 26110; Cass. 4/4/2013, n.8315, Cass., Sez. Un. 5/5/2006
n. 10313).

Nel caso in esame il motivo non attiene al
significato e alla portata applicativa delle norme in esso richiamate, ma si
confronta esclusivamente con il governo del materiale probatorio eseguito dalla
Corte d’appello, richiamandosi a dichiarazioni testimoniali e a dati
documentali neanche riprodotti nella loro portata, secondo modalità non
consentite nella presente sede.

9. In definitiva, alla luce delle superiori
argomentazioni, il ricorso va rigettato.

Il governo delle spese del presente giudizio segue
il principio della soccombenza nella misura in dispositivo liquidata. Nessuna
statuizione va emessa in relazione a Finanziaria D. s.r.l. ed a R. C. s.r.l.
che non hanno svolto attività difensiva.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi dell’art.1 co. 17 L. 228/2012 (che ha
aggiunto il comma 1 quater all’art.
13 DPR 115/2002) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte
della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio in favore di R. C. nonché di L.T.M.
s.r.l. che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 8.000,00 per compensi
professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.

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