Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 ottobre 2019, n. 27340
Lavoro carcerario, Cessazione del rapporto, Pagamento della
13ma mensilità e indennizzo per ferie non godute, Termine prescrizionale
Rilevato che
1. con sentenza n. 1668/2014, pubblicata in data 13
marzo 2014, la Corte d’appello di Roma confermava la decisione del locale
Tribunale che aveva rigettato la domanda proposta (tra gli altri) dagli odierni
ricorrenti volta ad ottenere il rimborso della trattenuta di 3/10 sulla
retribuzione operata dall’Amministrazione fino al 1986 (ai sensi dell’art. 23 della I. n. 354/1975,
poi abrogato dalla legge n. 663/86) che la
Corte costituzionale, con sentenza n. 49 del 1992,
aveva dichiarato illegittima, con il conseguente obbligo dell’amministrazione
di ripetizione in favore del lavoratore-detenuto, nonché il pagamento della
13ma mensilità anche per il periodo successivo durante il quale avevano svolto
lavoro carcerario oltre che dell’indennizzo per ferie non godute;
1.1. per quanto ancora rileva nel presente giudizio,
con riferimento alla richiesta di restituzione della trattenuta pari a 3/10
della mercede, la Corte riteneva fondata l’eccezione di prescrizione sollevata
dal Ministero poiché la restituzione si riferiva agli anni fino al 1986 e la
prescrizione decorreva dalla cessazione di ciascun rapporto di lavoro ancorché
eventualmente il detenuto non avesse riacquistato la libertà;
1.2. precisava che sarebbe stato onere degli
appellanti, allegare e provare specificamente la durata dei singoli rapporti di
lavoro intervenuti dopo il 1986 al fine di verificare che tra l’uno e l’altro
rapporto di lavoro, tenuto conto della durata dei relativi intervalli, non
fosse decorso il termine prescrizionale;
1.4. riteneva, poi, che fosse stata documentata
l’avvenuta corresponsione dei rati della 13ma mensilità, non essendo necessario
un espresso patto di conglobamento per la peculiarità del lavoro carcerario;
1.3. in relazione alla domanda relativa
all’indennità sostitutiva delle ferie non godute affermava che mancassero
specifiche allegazioni in merito alle modalità del lavoro espletato ed
all’effettiva consistenza oraria dell’attività lavorativa, oltre che ai periodi
di lavoro, con la conseguenza che la relativa pretesa doveva rigettata;
2. per la cassazione di tale sentenza hanno proposto
ricorso M.P., C.R. e A.D. formulando cinque motivi;
3. il Ministero ha resistito con controricorso;
4. i ricorrenti hanno depositato memoria.
Considerato che
1. con il primo motivo i ricorrenti denunciano la
violazione dell’art. 8 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo,
approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 10 dicembre
1948, secondo la quale deve essere garantito ad ogni cittadino il “diritto
ad una effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro
atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuto dalla costituzione e
dalla legge”, dell’art. 10, comma 3, del Patto Internazionale sui diritti
civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, e reso esecutivo in
Italia con la I. n. 881/1977, il quale prescrive che “Il regime
penitenziario deve comportare un trattamento dei detenuti che abbia per fine
essenziale il loro ravvedimento e la loro riabilitazione sociale”, la
Raccomandazione R (87) 3 sulle regole penitenziarie europee, adottata dal
comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, il 12 febbraio 1987, durante la
404a riunione dei delegati dei Ministri, ove all’art. 65, lett. b), è previsto
l’obbligo di “ridurre gli effetti negativi della detenzione e le
differenze tra la vita carceraria e quella in libertà, differenze che tendono a
far diminuire il rispetto di sé e il senso di responsabilità personale dei
detenuti”, comma 3, nonché degli artt. 3, 24, 27, 111 Costituzione e 6 della CEDU, dell’art. 2697, comma 2, cod. civ., 2730 cod. civ., 2727
cod. civ., 2941, n. 6, cod. civ. in
relazione all’art. 25 della I.
n. 354/1975, dell’art. 2942, n. 1, cod. civ.,
dell’art. 2938 cod. civ., degli artt. 112, 113, 115, 116 cod. proc.
civ.;
lamentano i ricorrenti che la Corte territoriale non
abbia considerato la sospensione del termine prescrizionale, in pendenza e per
tutto il rapporto detentivo (anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro)
ed a causa della condizione di detenuti dei ricorrenti;
rilevano, altresì, che nella specie il Ministero
aveva eccepito il maturarsi della prescrizione solo per la sussistenza della
stabilità reale ma la Corte aveva accolto l’eccezione di prescrizione con altra
motivazione;
2. il motivo è infondato;
2.1. come questa Corte ha già più volte affermato
con riferimento al lavoro carcerario (v. Cass. 9 aprile 2015, n. 7147; Cass. 26
febbraio 2015, n. 3925; Cass. 11 febbraio 2015, n. 2696; Cass. 16 febbraio
2015, n. 3062; si veda anche Cass. 15 ottobre 2007, n. 21573) la prescrizione
non corre in costanza di rapporto di lavoro tra il detenuto lavoratore e l’amministrazione
carceraria ma soltanto dalla cessazione del rapporto stesso;
in conseguenza, non è condivisibile la tesi posta
dai ricorrenti secondo i quali la sospensione del termine prescrizionale
dovrebbe estendersi all’intero periodo di detenzione e dunque permanere una
volta che il rapporto di lavoro sia cessato e si protragga invece il rapporto
detentivo, dovendo decorrere il termine prescrizionale solo dalla cessazione
della detenzione;
tale tesi, infatti, non trova fondamento in
disposizioni normative mentre il principio affermato nelle citate pronunce di
questa Corte è chiaramente da intendersi nel limitato senso della sospensione
con riferimento al rapporto di lavoro a nulla rilevando la condizione di
detenuto, restando quest’ultimo gravato degli oneri probatori afferenti
qualsivoglia credito e pretesa;
2.2. va, inoltre, rilevato che il richiamo all’art. 2941, n. 6, cod. civ. e all’art. 2942 cod. civ. appare del tutto inconferente
in quanto le norme citate si riferiscono rispettivamente alle ipotesi di
sospensione del termine prescrizionale in considerazione dei rapporti tra le
parti o per la condizione del titolare e costituiscono ipotesi tassative non
applicabili in via analogica;
l’ipotesi di cui all’art.
2941, n. 6, cod. civ. attiene, in particolare, al regime dei beni fino al
deposito del conto delle persone sottoposte per legge o per provvedimento del
giudice all’amministrazione dei beni e non incide sul diverso diritto del
detenuto a far valere i diritti derivanti dal rapporto di lavoro con
l’amministrazione penitenziaria;
anche il richiamo all’art.
2942 cod. civ. è inconferente riguardando i minori emancipati e gli interdetti
per infermità di mente;
2.3. quanto alla denunciata violazione dell’art. 2938 cod. civ. (la prescrizione non può
essere rilevata d’ufficio) il motivo è inammissibile perché il ricorrente non
ha riprodotto la comparsa di costituzione del Ministero in primo grado e l’atto
di costituzione in appello che solo avrebbero consentito a questa Corte di
verificare se e in quali termini l’eccezione di prescrizione fosse stata
formulata e riproposta;
2.4. per il resto le doglianze, laddove contestano
l’individuazione, tra gli atti prodotti dai ricorrenti, di quelli costituenti
idonee messa mora, involgono valutazioni in fatto riservate al giudice di
merito e come tali insindacabili in questa sede di legittimità;
3. con il secondo motivo i ricorrenti denunciano
ulteriore motivazione apparente ed abnorme, violazione degli artt. 115 e 112 cod.
proc. civ., 111 Cost. e 6 CEDU in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.;
4.1. il motivo assomma in modo confuso una serie di
critiche senza specificare i punti della sentenza che violano le disposizioni
citate;
4.2. in ogni caso, per quanto attiene la 13ma la
Corte ha ritenuto, condividendo la tesi prospettata dal Ministero, che tale
voce retributiva fosse stata corrisposta in quanto conglobata nella
retribuzione mensile;
secondo la Corte, infatti, emergeva dalle stesse
buste paga che i ratei della 13ma fossero stati corrisposti mensilmente,
unitamente alla mercede e con essa conglobati e ciò trovava conferma nella
circolare ministeriale n. 2294/4748 del 9/3/1976 e nelle tabelle delle
retribuzioni in vigore che appunto includevano nella paga della giornata
lavorativa il rateo della 13ma in base alle disposizioni della commissione
istituita ai sensi della I. n.
354 del 1975, art. 22;
in particolare la Corte territoriale ha evidenziato
che la mercede stabilita nelle tabelle per giornata lavorativa era costituita
da rateo di paga base, ratei indennità di contingenza, della 13ma mensilità e
dell’indennità di anzianità;
la decisione della Corte, vertendosi su una questione
di fatto adeguatamente motivata, non è censurabile in Cassazione;
la Corte d’appello ha dato conto delle fonti del
proprio convincimento ed ha argomentato in modo logicamente congruo non
essendo, del resto, contestato che la retribuzione percepita fosse quella
indicata nelle tabelle;
5. con il terzo motivo i ricorrenti denunciano
mancata motivazione della sentenza con violazione dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., violazione degli artt. 112 e 115 cod.
proc. civ. in relazione all’art. 360, n. 3,
cod. proc. civ.;
lamentano che nella fattispecie non vi fosse alcuna
prova della sussistenza di un preciso patto di conglobamento;
censurano l’affermazione della Corte secondo cui,
stante la peculiarità del lavoro carcerario, non fosse necessario tale patto,
richiesto solo in caso di rapporti di lavoro privato, regolato da un contratto
individuale, in cui il rilascio del prospetto paga mensile, con l’indicazione
delle singole voci retributiva, è obbligatorio;
6. il motivo è infondato;
il conglobamento, come evidenziato dalla Corte
d’appello, è disposto, in via generale, con riferimento a tutti i rapporti di
lavoro intercorsi tra il Ministero ed i detenuti: ciò in coerenza con la natura
di un rapporto che non prevede contratto individuale scritto e che è, in quanto
a disciplina, etero integrato dalla normativa secondaria richiamata in atti;
pertanto, è in tale rapporto necessaria e
sufficiente la regola generale e la specificazione contenuta nelle tabelle
dell’inclusione nella paga oraria del rateo di 13ma (v. in termini Cass. n.
7147/2015 cit.);
le censure relative alla natura privata del rapporto
di lavoro intercorso tra i detenuti e l’amministrazione penitenziaria sono
irrilevanti in quanto ciò che è stato evidenziato dalla Corte territoriale è
proprio la particolarità di alcuni profili del rapporto di lavoro in esame;
7. con il quarto motivo i ricorrenti denunciano
violazione degli artt. 112 e 115 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.;
lamentano che la Corte territoriale abbia ritenuto
palesemente sfornita di prova la domanda ‘subordinata’ volta ad ottenere
l’indennizzo le ferie non usufruite (quantificata nel medesimo esatto importo
già richiesto a titolo di 13ma mensilità);
sostengono che il mancato scrutinio della domanda
diretta ad ottenere il pagamento di detta indennità da parte del Tribunale
(che, come si legge a pag. 41 del ricorso per cassazione, avrebbe rigettato
tale domanda per aver accolto quella – principale – intesa ad ottenere il
pagamento della 13ma mensilità) avrebbe dovuto comportare un accoglimento di
tale domanda subordinata in appello, senza possibilità di una ricostruzione dei
fatti processuali (v. pag. 43 del ricorso);
8. il motivo è infondato;
8.1. è innanzitutto imprecisa la ricostruzione della
vicenda processuale atteso che emerge dalla stessa sentenza d’appello che il
Tribunale aveva respinto tutte le domande proposte dagli odierni ricorrenti
(né, del resto, risulta che ci fosse stata impugnazione incidentale del
Ministero) e, dunque, anche quella, avanzata, in via principale, intesa ad
ottenere la 13ma mensilità;
8.2. va, poi, puntualizzato che non è qui in
discussione il diritto del detenuto lavoratore di godere di un periodo di ferie
retribuito ed in difetto di percepire un compenso;
8.3. la Corte cost., con sentenza n. 158/2001, ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 20, sedicesimo comma – recte:
diciassettesimo comma -, della legge 26 luglio 1975, n. 354 – in riferimento agli
artt. 36, terzo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione – nella parte
in cui non riconosce il diritto al riposo annuale retribuito al detenuto che
presti la propria attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione
carceraria;
secondo il Giudice delle leggi, da un lato, il ruolo
assegnato al lavoro nell’ambito di una connotazione non più esclusivamente
afflittiva della pena comporta che, ove si configuri un rapporto di lavoro
subordinato, questo assuma distinta evidenza dando luogo ai correlativi diritti
ed obblighi, d’altro lato, la garanzia del riposo annuale – imposta in ogni
rapporto di lavoro subordinato, per esplicita volontà del Costituente – non
consente deroghe e va perciò assicurata ad ogni lavoratore senza distinzione di
sorta, dunque anche al detenuto, sia pure con differenziazione di modalità;
vero è che il lavoro del detenuto, specie quello
intramurario, presenta le peculiarità derivanti dalla inevitabile connessione
tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi, disciplinari e di
sicurezza, propri dell’ambiente carcerario, per cui è ben possibile che la
regolamentazione di tale rapporto conosca delle varianti o delle deroghe
rispetto a quella del rapporto di lavoro in generale, tuttavia, nè tale
specificità, nè la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il
soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il
contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni
rapporto di lavoro subordinato;
ha affermato, ancora, la Corte Costituzionale che:
“Il diritto al riposo annuale integra appunto una di quelle ‘posizioni
soggettive’ che non possono essere in alcun modo negate a chi presti attività
lavorativa in stato di detenzione. La Costituzione sancisce chiaramente (art. 35) che la Repubblica tutela il lavoro in
tutte le sue forme ed applicazioni, e (all’art. 36,
comma 3) che qualunque lavoratore ha diritto anche alle ferie annuali
retribuite, e non può rinunziarvi; garanzia che vale ad assicurare il
soddisfacimento di primarie esigenze del lavoratore, fra le quali in primo
luogo la reintegrazione delle energie psicofisiche. È ovvio che le rilevate
peculiarità del rapporto di lavoro dei detenuti comportano che le concrete
modalità (di forme e tempo) di realizzazione del periodo annuale continuativo
retribuito (con sospensione dell’attività lavorativa), dedicato al riposo o ad
attività alternative esistenti nell’istituto carcerario, devono essere
compatibili con lo stato di detenzione. Esse possono, quindi, diversificarsi a
seconda che tale lavoro sia intramurario (alle dipendenze dell’amministrazione
carceraria o di terzi), oppure si svolga all’esterno o in situazione di
semiliberta; diversificazioni che spetta al legislatore, al giudice o
all’amministrazione precisare”;
8.4. ciò non toglie che in ogni caso che sui
ricorrenti gravava l’onere (i ricorrenti erano sono onerati) della prova del
numero di ferie maturate e non pagate e tale prova non può essere fornita con
il semplice richiamo alla documentazione che si assume depositata o a confuse e
parziali ricostruzioni dell’attività lavorativa effettuata anche nel presente
giudizio dovendo essere invece fornite precise indicazioni del periodo di attività,
del numero delle ore lavorate giornaliere, settimanali o mensili (v. in termini
Cass. n. 3925/2015 cit.);
i fatti su cui i ricorrenti fondano le pretese
dovevano essere specificamente indicati fin dal primo grado non potendo a tale
obbligo supplire una produzione documentale che presuppone invece la preventiva
estrinsecazione del fatto, così che ove non vi sia stata tempestiva allegazione
del fatto, attività riservata alla parte, il giudice non può rilevarlo
d’ufficio;
8.5. per il resto il motivo involge l’apprezzamento
degli atti di causa e richiede, in modo inammissibile, una rivalutazione dei
fatti e delle prove;
8.6. va, infine, ricordato che la dedotta violazione
dell’art. 115 cod. proc. civ. non è ravvisabile
nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove
proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune
piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato
sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al
di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di
disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass., Sez. Un., 5 agosto 2016,
n. 16598; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892);
9. con il quinto motivo i ricorrenti denunciano
violazione e falsa applicazione dell’art. 1199 cod.
civ., degli artt. 3, 24, 27, 36, 111 Cost., 6 CEDU, degli artt. 112 e 115 cod.
proc. civ., dell’art. 1193, comma 2, e 1194 cod. civ., dell’art.
2109, comma 2, cod. civ. in relazione all’art.
360, n. 3, cod. proc. civ.; lamentano che la Corte territoriale abbia
ritenuto già corrisposta la rivendicata 13ma mensilità a fronte di una
inesistente quietanza di pagamento sul titolo di voce retributiva speso in tale
rivendicazione;
rilevano che giammai fosse stato loro comunicato che
nelle retribuzioni mensili fosse incluso il rateo di pagamento della
tredicesima e ciò, specie considerata la loro condizione di detenuti, gli aveva
impedito di riconoscere le somme indicate a titolo di 13ma;
sostengono che le somme corrisposte fossero in ogni
caso molto inferiori a quelle dovute e che la Corte territoriale, disattendendo
sia la richiesta di c.t.u. sia quella di acquisire presso il datore di lavoro
la documentazione relativa al rapporto ex art. 210
cod. proc. civ. non avrebbe assolto a quel ruolo di equilibrio e di equità
nell’ambito di una situazione, quale quella dei detenuti, notoriamente
degradata sotto il profilo della condizioni di vita;
assumono che in atti vi fossero tutti gli elementi
per pervenire ad una pronuncia anche ai sensi dell’art.
2109 cod. civ.;
10. il motivo presenta plurimi profili di
inammissibilità ed è comunque infondato;
10.1. sulla tematica della mancanza di una quietanza
di pagamento i ricorrenti non hanno specificato, con idonea precisazione, il
‘dove’ ed il ‘quando’ la questione sia stata sottoposta ai giudici del merito e
in quali termini precisi sia stata prospettata;
si tratta, quindi, di una questione nuova e, nel
giudizio di cassazione, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in
rapporto alla regolarità formale del processo e alle questioni di diritto
proposte, non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di
contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito a meno che si
tratti di questioni rilevabili di ufficio o nell’ambito delle questioni
trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli
stessi elementi di fatto dedotti (v. Cass. 26 marzo 2012, n. 4787; Cass. 14
ottobre 2005, n. 20005; Cass. 3 marzo 2004, n. 4334; Cass. 30 marzo 2000, n.
3881): circostanze queste non ravvisabili nel caso in esame;
10.2. non sono in alcun modo documentate le asserite
istanze sollecitatorie (di c.t.u. ovvero di provvedimenti ex art. 210 cod. proc. civ.) rivolte ai giudici di
merito;
è noto, infatti, che nel rito del lavoro il mancato
esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 comma 2, cod. proc. civ., preordinato al
superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata
sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la
parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal
senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori; diversamente, si
introdurrebbe per la prima volta in sede di legittimità un tema del contendere
totalmente nuovo rispetto a quelli già dibattuti nelle precedenti fasi di
merito (cfr. ex plurimis Cass. 12 marzo 2009, n.
6023; Cass. 26 giugno 2006 n. 14731);
10.3. valgano, infine, quanto alla necessità della
prova a carico dei ricorrenti le considerazioni svolte al punto sub 8.2. che
precede e quanto alla dedotta violazione dell’art.
115 cod. proc. civ. le considerazioni svolte al punto sub 8.4.;
11. il ricorso deve essere, pertanto, rigettato;
12. al rigetto del ricorso consegue la condanna dei
ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come
da dispositivo.
7. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.
115/2002, come modificato dalla I. n. 228/2012,
deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il
raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al
pagamento, in favore del Ministero controricorrente, delle spese del giudizio
di legittimità liquidate in euro 3.000,00 per compensi professionali oltre
spese prenotate a debito.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 -bis.