Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 ottobre 2019, n. 26217

Sicurezza sul lavoro, Dispositivi di protezione individuale,
Lavaggio delle divise indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di
efficienza e prevenire l’insorgenza e il diffondersi d’infezioni,
Responsabilità datoriale

Rilevato che

 

1. La Corte di appello di Cagliari in accoglimento
dell’impugnazione proposta da D.V.T. s.p.a e in riforma della sentenza di primo
grado, ha respinto la domanda di M.M., operatore ecologico, di condanna di
parte datoriale al risarcimento dei danni da inadempimento di lavaggio e
manutenzione dei dispositivi di protezione individuale (D.P.I.).

2. La Corte territoriale, richiamata la definizione
di D.P.I. dettata dall’art.
40, comma 1, D.Lgs. n. 626 del 1994, nonché le previsioni di cui al D.Lgs. n. 475 del 1992 e alla circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 29.4.1999,
ha precisato che dispositivi di protezione individuale sono solo quelli aventi,
secondo valutazioni tecnico scientifiche, la funzionalità tipica di protezione
dai rischi per la salute e la sicurezza e che rispondono ai requisiti
normativamente dettati per la relativa realizzazione e commercializzazione.

3. Ha escluso che gli indumenti da lavoro forniti
dalla società datoriale potessero essere qualificati D.P.I. in quanto non
destinati a fornire una adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze
nocive o agenti patogeni; ha sottolineato che tale convincimento è confermato
dal c.c.n.l. 2.8.1995, che prevedeva solo la
fornitura “in uso gratuito” degli “indumenti da lavoro”
elencati nell’art. 22, e dal
successivo c.c.n.l. 30.4.2003 secondo cui gli
indumenti rientrano nei D.P.I. “solo in caso di specifica destinazione a
finalità protettive da parte del piano di valutazione dei rischi”; ha
evidenziato che il documento di valutazione dei rischi (D.V.R.) redatto dalla
società contemplava uno specifico corredo antinfortunistico per le mansioni di
raccoglitore (protezione delle mani: guanti contro le aggressioni meccaniche e
chimiche; protezione dei piedi: calzature di sicurezza con dotazione di lamina
antiforo e suola antisdrucciolo; protezione della persona: dispositivi di alta
visibilità applicati sugli indumenti; protezione contro gli agenti atmosferici:
impermeabile con dispositivi ad alta visibilità”) che non includeva gli
indumenti ed ha definito “adeguata” la contestata scelta datoriale.

4. La Corte di merito ha negato che la società
appellante fosse classificabile come industria insalubre di prima classe sul
rilievo che il D.M. 5.9.94 ha individuato come
tali unicamente gli impianti di depurazione e trattamento dei rifiuti solidi e
liquami e gli impianti di trattamento, lavorazione e deposito dei rifiuti
tossici e nocivi e non i servizi di raccolta e smaltimento rifiuti svolti dai
lavoratori in questione.

5. Ha dato atto di come il verbale di sopralluogo
dell’Asl del 4.8.2005 avesse indicato l’esistenza, nel settore della raccolta
dei rifiuti, di un elevato (“pericolo maggiore”) “rischio
infettivo” richiamando, a proposito degli indumenti da lavoro, la
previsione normativa sui D.P.I.; il medesimo verbale aveva fatto riferimento
anche ad una “potenziale esposizione ad agenti microbiologici” ma
riferita esclusivamente ai “casi di punture da ago e ferite da taglio”
e ad alcune categorie di lavoratori con “mansioni di spazzino, di riporta
sacchi, di addetto allo svuotamento dei pozzetti delle caditoie stradali”
non svolte dall’appellato.

6. Ha, infine, desunto dalla previsione contenuta
nel citato verbale, di un lavaggio settimanale degli indumenti da parte della
società, la conferma ulteriore della non appartenenza degli indumenti da lavoro
in oggetto alla categoria dei D.P.I., risultando altrimenti l’unico lavaggio
settimanale misura inidonea a preservare la salute dei dipendenti.

7. Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto
ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, cui ha resistito con
controricorso la società. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi
dell’art. 380 bis.1. cod. proc. civ. .

 

Considerato che

 

8. Col primo motivo di ricorso il lavoratore ha
censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 3 cod.proc.civ., per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994 e dell’art. 216, T.U. n. 1265 del 1934,
per aver escluso che la D.V.T. s.p.a. fosse classificabile come impresa
insalubre di prima classe.

9. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente ha
dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3
cod.proc.civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 cod.civ., 40, D.Lgs. n. 626 del 1994; 1, comma 2, D.Lgs. n. 475 del 1992;
379 del D.P.R. n. 547 del
1955 e 43, comma 4, D.Lgs.
n. 626 del 1994 e art. 67
comma 2 lett. A) del c.c.n.l. 30 aprile 2003, per avere la sentenza
impugnata affermato che gli indumenti forniti ai lavoratori per lo svolgimento della
prestazione non avessero alcuna funzione protettiva e quindi non fossero
classificabili come DPI..

10. Col terzo motivo il lavoratore ha denunciato la
violazione e falsa applicazione dell’art. 116
cod.proc.civ., nonché l’omesso esame di un punto decisivo della
controversia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5
cod.proc.civ., per avere la Corte d’appello erroneamente escluso il rischio
alla salute, certificato dalle relazioni dell’Ausl, cui era esposto il
lavoratore per il contatto con i rifiuti solidi urbani e per il lavaggio nella
propria abitazione degli indumenti usati durante l’attività lavorativa; ha
richiamato il verbale ispettivo del 4.8.2005 che aveva evidenziato l’esistenza,
nel settore della raccolta e dello stoccaggio dei rifiuti solidi urbani, di un
rischio di esposizione degli addetti ad agenti microbiologici, con particolare
riferimento al virus dell’epatite B (HBV), e con pericolo di contatto, specie
per alcune mansioni come quelle dei portasacchi, riguardante varie parti del
corpo tra cui mani, braccia, gambe.

11. Col quarto motivo è stata dedotta erronea
valutazione degli artt. 4,
comma 2, e 42 del D.Lgs. n.
626 del 1994, ai sensi dell’art. 360, comma 1,
n. 3 cod.proc.civ., per avere la sentenza impugnata considerato attendibile
il piano di valutazione dei rischi eseguito dal datore di lavoro.

12. Con il quinto motivo i ricorrenti hanno
censurato la decisione per violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 cod.civ., dell’art. 4, D.Lgs. n. 626 del 1994;
dell’art. 67, comma 2, lett. a) c.c.n.l.
30.4.2003, in relazione all’art. 360 primo
comma 1 n. 3 cod. proc. civ., per avere la Corte d’appello escluso che gli
indumenti da lavoro forniti ai dipendenti costituissero D.P.I. in quanto non
menzionati nel piano di valutazione rischi aziendale.

13. Con il sesto motivo di ricorso il ricorrente ha
dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt.
115 e 116 cod.proc.civ. e dell’art. 2697 cod.civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 cod.proc.civ., per omesso
esame di un punto decisivo della controversia ed, esattamente, per avere la
Corte d’appello erroneamente disatteso che tra gli indumenti forniti
dall’azienda al lavoratore fossero ricomprese le scarpe, i guanti e la
pettorina alta visibilità che nel D.V.R. aziendale erano classificati D.P.I..

14. La questione oggetto del presente ricorso è
stata già trattata da questa Corte che in numerose cause aventi il medesimo
oggetto, e nella quali erano poste le medesime questioni sulle quali è
sollecitata la decisione nella controversia odierna, ha ritenuto che “in
tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, la
nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve
essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate
per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche
tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o
accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a
qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità
con l’art. 2087 cod.civ.; ne consegue la
configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di continua
fornitura e di mantenimento in stato di efficienza degli indumenti di lavoro
inquadrabili nella categoria dei D.P.I.”(cfr. Cass.
21/06/2019 n. 16749 e le successive 25/07/2019 nn. 20208, 20207, 20206, 27/06/2019 n. 27354 e 26/06/2019
n. 17132)

15. La Corte di Cassazione in esito all’esame delle
medesime censure oggi poste in giudizio ha ritenuto fondati, nei limiti
dell’ammissibilità delle censure formulate, il secondo, terzo e quinto motivo
di ricorso.

15.1. Condivisibilnnente, infatti, è stata
dichiarata inammissibile la censura con la quale, nel secondo motivo di
ricorso, ed in relazione all’art. 360 primo comma
n. 5 cod. proc. civ., è stato prospettato un vizio che attiene alla
qualificazione e valutazione giuridica di fatti e quindi concerne parti della
motivazione in diritto e non l’omesso esame di fatti veri e propri, principali
o secondari, come richiesto dal vigente art. 360 n.
5 cod.proc.civ..

15.2. Con riguardo agli altri profili denunciati,
invece, sono state ritenute fondate le censure osservando che, ai sensi dell’art. 40, D.Lgs. n. 626 del 1994,
recante attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE,
89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE
e 90/679/CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei
lavoratori sul luogo di lavoro, per dispositivo di protezione individuale si
intende “qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal
lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di
minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento
o accessorio destinato a tale scopo.” Si è quindi rammentato che ”
non sono dispositivi di protezione individuale: a) gli indumenti di lavoro
ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e
la salute del lavoratore;..”. E’ stato evidenziato poi come tale
previsione si ponga in continuità con quelle già dettate dal D.P.R. n. 547 del 1955 che all’art. 377, relativo a
“Mezzi personali di protezione”, prevedeva che “il datore di
lavoro, fermo restando quanto specificatamente previsto in altri articoli del
presente decreto, deve mettere a disposizione dei lavoratori mezzi personali di
protezione appropriati ai rischi inerenti alle lavorazioni ed operazioni
effettuate, qualora manchino o siano insufficienti i mezzi tecnici di
protezione. – I detti mezzi personali di protezione devono possedere i
necessari requisiti di resistenza e di idoneità nonché essere mantenuti in
buono stato di conservazione” e all’art. 379, relativo agli
“Indumenti di protezione”, disponeva che ” Il datore di lavoro
deve, quando si è in presenza di lavorazioni, o di operazioni o di condizioni
ambientali che presentano pericoli particolari non previsti dalle disposizioni
del Capo 3″ del presente Titolo (art. 366 ss.), mettere a
disposizione dei lavoratori idonei indumenti di protezione”). E’ stato
rammentato che l’art. 40
cit. è stato poi sostituito dall’art.
74, D.Lgs. n. 81 del 2008, che ne ha ricalcato interamente il testo.

15.3. Ulteriormente poi la Corte ha ricordato che il
D.Lgs. n. 626 del 1994,
all’art. 4, comma 5, prevede che “il datore di lavoro adotta le misure
necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori e, in particolare, lett.
d) fornisce ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione
individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e
protezione”.

16. Alla luce di tali premesse le ordinanze di
questa Corte su richiamate hanno ritenuto che l’interpretazione data dalla
giudice di appello al citato art.
40, volta a far coincidere i D.P.I. con le attrezzature formalmente
qualificate come tali in ragione della conformità a specifiche caratteristiche
tecniche di realizzazione e commercializzazione, non tenesse adeguatamente
conto del tenore letterale delle disposizioni richiamate e, soprattutto, della
finalità delle stesse, di tutela della salute quale diritto fondamentale (art. 32 Cost.).

Hanno osservato infatti che l’espressione adoperata
dall’art. 40 cit., che fa
riferimento a “qualsiasi attrezzatura” nonché ad “ogni
complemento o accessorio” destinati al fine di proteggere il lavoratore
“contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza e la
salute durante il lavoro”, deve essere intesa nella più ampia latitudine
proprio in ragione della finalizzazione a tutela del bene primario della salute
e dell’ampiezza della protezione garantita dall’ordinamento attraverso non solo
disposizioni che pongono specifici obblighi di prevenzione e protezione a
carico del datore di lavoro, ma anche attraverso la norma di chiusura di cui
all’art. 2087 cod.civ..

17. La Corte ha poi rammentato che lo stesso D.Lgs. 81 del 2008 (pur non applicabile ratione
temporis) contiene nell’allegato VIII un “Elenco” espressamente
definito “indicativo e non esauriente delle attrezzature di protezione
individuale”, che costituisce la conferma del contenuto necessariamente
“aperto” della categoria dei mezzi di protezione e quindi della
correttezza della sola interpretazione in grado di salvaguardare l’ampiezza
dell’obbligo di tutela posto anche dalle disposizioni in esame.

18. Ritiene il Collegio che si debba perciò dare
continuità all’affermazione contenuta in quelle ordinanze secondo cui, “da
tali premesse discende come la previsione dell’art. 43, commi 3 e 4, D.Lgs. n.
626 del 1994, secondo cui “3. Il datore di lavoro fornisce ai
lavoratori i DPI (dispositivi di protezione individuale) conformi ai requisiti
previsti dall’art. 42 e
dal decreto di cui all’art. 45,
comma 2″; 4. Il datore di lavoro: – a) mantiene in efficienza i DPI
(dispositivi di protezione individuale) e ne assicura le condizioni d’igiene,
mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie )”,
non possa essere letta in senso limitativo del contenuto e del novero dei /-
D.P.I., come ha fatto la Corte d’appello, bensì quale previsione di un
ulteriore obbligo di carattere generale, posto a carico del datore di lavoro,
di adeguatezza dei D.P.I. e di manutenzione dei medesimi” (cfr. per tutte
la citata Cass. 21/06/2019 n. 16749).

19. Condivisibilmente inoltre è stato ritenuto che
non fosse rilevante la circostanza della previsione o meno degli specifici
D.P.I. nell’ambito del documento di valutazione dei rischi. L’obbligo posto
dall’art. 4, comma 5 del
D.L.gs. n. 626 del 1994 di fornire ai lavoratori i necessari e idonei
dispositivi di protezione individuale, costituisce un precetto al quale il
datore di lavoro è tenuto a conformarsi a prescindere dal fatto che il loro
utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei
rischi, confezionato dal medesimo datore di lavoro (in tal senso, con
riferimento alla omologa previsione di cui all’art. 18, lett. d), D.Lgs. n. 81 del
2008, cfr. Cass. pen., n. 13096 del 2017).

20. La categoria dei D.P.I. deve essere quindi
definita in ragione della concreta finalizzazione delle attrezzature, degli
indumenti e dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai
rischi per la salute e la sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte, a
prescindere dalla espressa qualificazione in tal senso da parte del documento
di valutazione dei rischi e dagli obblighi di fornitura e manutenzione
contemplati nel contratto collettivo. L’art. 40 citato coerentemente
distingue ciò che integra un D.P.I. e ciò che non è tale e, alla lett. a) del
comma 2, esclude che costituiscano D.P.I. “gli indumenti di lavoro
ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e
la salute del lavoratore”, vale a dire gli indumenti che in nessun modo
sono correlati alla finalità di protezione da un rischio per la salute, e che
assolvono unicamente alla funzione di uniforme aziendale o di preservare gli
abiti civili. Come condivisibilmente osservato nelle citate ordinanze, anche la
circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 1999
si è espressa in tal senso (la circolare non costituisce fonte del diritto, ma
è presupposto chiarificatore della posizione espressa dall’Amministrazione su
un determinato oggetto; cfr. al riguardo Cass. n. 7889 del 2011; n. 23042 del 2012; n.
1577 del 2014; n. 280 del 2016). La stessa ha elencato le diverse funzioni
a cui possono assolvere gli indumenti di lavoro, in particolare: a) elemento
distintivo di appartenenza aziendale, ad esempio uniformi o divise; b) mera
preservazione degli abiti civili dalla ordinaria usura connessa
all’espletamento dell’attività lavorativa; c) protezione da rischi per la
salute e la sicurezza; la circolare ha specificato che “in quest’ultimo
caso gli indumenti rientrano nei dispositivi di sicurezza che assolvono alla
funzione di protezione dai rischi, ai sensi dell’art. 40 del Decreto Legislativo
19 settembre 1994 n. 626. Rientrano, ad esempio, tra i D.P.I. … gli
indumenti per evitare il contatto con sostanze nocive, tossiche, corrosive o
con agenti biologici ecc.”.

21. Va allora qui ribadito che anche sotto il vigore
del D.Lgs. n. 626 del 1994, come “in tema
di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, ed in
particolare di fornitura ai lavoratori di indumenti, alla stregua della
finalità della disciplina normativa apprestata dal legislatore, per
“indumenti di lavoro specifici” si debbono intendere le divise o gli
abiti aventi la funzione di tutelare l’integrità fisica del lavoratore nonché
quegli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari
funzioni, volti ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi ad esse connessi
(come la tuta ignifuga del vigile del fuoco), oppure a migliorare le condizioni
igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento delle sue
incombenze, onde scongiurare il rischio potenziale di contrarre malattie, come
appunto deve reputarsi per la divisa dell’operatore ecologico (cfr. oltre alle
ordinanze già citate Cass. n. 11071 del 2008;
nello stesso senso Cass. n. 23314 del 2010).

22. Con particolare riferimento agli operatori
ecologici, addetti alla raccolta dei rifiuti, questa Corte ha sempre affermato
l’obbligo datoriale di manutenzione e lavaggio degli indumenti da lavoro sul
presupposto, fattuale e logico, della qualificazione degli indumenti medesimi
come dispositivi di protezione individuale.

22.1. Si è in particolare precisato come
“l’idoneità degli indumenti di protezione che il datore di lavoro deve
mettere a disposizione dei lavoratori – a norma del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 379
fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n.
626 del 1994 e ai sensi dell’art. 40, art. 43, commi 3 e
4, di tale decreto, per il periodo successivo – deve sussistere non solo nel
momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l’intero periodo
di esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti,
finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario
assoluto (art. 32 Cost.), solo nel suddetto
modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è
quello di prevenire l’insorgenza e il diffondersi d’infezioni. Ne consegue che,
essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di
efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale
destinatario dell’obbligo previsto dalle citate disposizioni”, (cfr.
Cass., n. 11139 del 1998; n. 22929 del 2005; n. 14712 del 2006; n. 22049 del 2006; n. 18573 del 2007; n. 11729 del 2009; n. 16495
del 2014; n. 8585 del 2015).

22.2. Nella sentenza n.
18674 del 2015, questa Corte, nel confermare la pronuncia di appello che
aveva qualificato come D.P.I. gli indumenti usati da una lavoratrice addetta
alla pulizia delle carrozze dei treni, attività comportante la raccolta di
rifiuti, lo svuotamento di cestini e portacenere e l’inevitabile contatto con
sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia, residui organici, ha
affermato che “per i lavori di pulizia di ambienti, treni, ecc. la
semplice tuta di cotone può considerarsi un (seppur minimo) mezzo o dispositivo
di protezione individuale, e non solo strumento identificativo dell’azienda per
cui si lavora, e come tale essa deve essere fornita dal datore di lavoro e
tenuta in stato idoneo”; la medesima pronuncia ha ritenuto come
l’inclusione degli indumenti tra i D.P.I. in ragione della funzione protettiva
svolta dovesse prescindere dalla loro qualificazione o meno in tal senso da
parte delle fonti contrattuali collettive e, deve aggiungersi, anche da parte
del documento di valutazione dei rischi.

23. In definitiva, sulla base del quadro normativo
in materia di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di
rilievo costituzionale nonché attuativo delle direttive europee (a partire
dalla direttiva quadro 89/391/CE) e delle
convenzioni internazionali, incentrato sull’obbligo di prevenzione quale
insieme di “disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi
dell’attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel
rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno”
(art. 2, lett. g), D.Lgs. n.
626 del 1994), la giurisprudenza di legittimità ha collegato l’obbligo di
fornitura e manutenzione dei D.P.I. alla idoneità, seppur minima, dei medesimi
di ridurre i rischi legati allo svolgimento dell’attività lavorativa,
costituendo specifico obbligo datoriale quello di porre in essere tutte le
misure necessarie per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori e quindi
per prevenire, con specifico riferimento agli operatori ecologici, l’insorgere
e la diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro familiari, a cui
il rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti da lavoro in
ambito domestico.

24. Condivisibilmente, poi, nelle ordinanze più
volte ricordate ed a cui il Collegio intende adeguarsi, non è stato attribuito
alcun rilievo alle pronunce di legittimità richiamate nella sentenza impugnata
e nel controricorso (Cass. nn. 2625, 5176, 13745 del 2014),
in quanto relative a lavoratori non addetti alla raccolta dei rifiuti, bensì a
mansioni di giardiniere. Neppure paiono significativi i precedenti di questa
Corte (sentenze Sez. 6, nn. 13931 – 13936, 13707, 14033 – 14035, tutte
pronunciate all’udienza del 15.4.2014) in cui è precisato come fosse estraneo
al giudizio trattato il thema decidendum “della tutela della salute, della
conformità degli indumenti forniti alla normativa vigente e, quindi, della
violazione dell’art. 2087 c.c., dell’art. 35, punti 1 e 3 (b e c),
art. 4 (c) e D.Lgs. n. 626 del
1994, art. 40…”;
peraltro, nelle fattispecie decise con le sentenze del 2014 appena richiamate
non risulta che l’azienda avesse accettato di farsi carico del lavaggio
settimanale degli indumenti da lavoro, come invece avvenuto da parte della
società attuale controricorrente, a seguito delle prescrizioni contenute nel
verbale ispettivo dell’Asl.

25. Orbene la sentenza qui impugnata non ha dato
atto dell’esito del sopralluogo effettuato dall’Asl 4.8.2005 che aveva individuato
l’esistenza, nel settore della raccolta dei rifiuti svolta dalla società, di un
rischio infettivo, più esattamente di un rischio da contatto con sostanze
tossiche, nocive ed agenti biologici.

26. Va rilevato tuttavia che nel ricorso è
evidenziato che l’accertamento dell’ esistenza di rischi, specie di natura
infettiva, per la salute dei lavoratori impegnati nell’attività di raccolta dei
rifiuti, rischi legati al possibile contatto con sostanze nocive, tossiche o
corrosive, contenuto in quel verbale è significativo ai fini della
qualificazione degli indumenti forniti dalla società come D.P.I. dovendosi
escludere che gli stessi non possedessero una specifica funzionalità protettiva
desumibile da caratteristiche tecniche dettate per la loro realizzazione e
commercializzazione tenuto conto del fatto che non risultavano adottati altri
strumenti in grado di fronteggiare il rischio pacificamente accertato, cosicché
le tute rappresentavano per gli operatori ecologici l’unico schermo di
protezione in concreto utilizzabile contro il possibile contatto con sostanze
nocive per la salute.

27. Da quanto esposto consegue che la sentenza
impugnata è incorsa nel denunciato vizio di violazione di legge avendo
interpretato l’art. 40, comma
1, D.Igs. n. 626 del 1994, e la nozione legale di D.P.I. come limitata alle
attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di
specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate;
laddove la disposizione suddetta, per l’ampio tenore letterale della previsione
e la precipua finalità di tutela di beni fondamentali del lavoratore, deve
essere letta, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, nel senso di
includere nella categoria dei D.P.I. qualsiasi attrezzatura, complemento o
accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure
ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza
del lavoratore, ai fini dell’adempimento datoriale all’obbligo, posto dall’art. 4, comma 5, Dlgs. n. 626 del
1994.

28. All’accoglimento del secondo, terzo e quinto
motivo di ricorso consegue l’assorbimento dell’esame delle censure contenute
nel primo e nel sesto motivo.

29. Quanto al quarto motivo di ricorso in quanto
contenente censure di incompletezza ed inattendibilità del D.V.R. che,
tuttavia, non è stato prodotto né trascritto nelle parti rilevanti.

30. In conclusione la sentenza impugnata deve essere
cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese del
presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Cagliari, in diversa
composizione, che provvederà ad un riesame della fattispecie attenendosi a
tutti i principi sopra enunciati.

 

P.Q.M.

 

accoglie il secondo, il terzo ed il quinto motivo di
ricorso.

Dichiara inammissibile il quarto motivo ed assorbiti
il primo ed il sesto motivo.

Cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e
rinvia alla Corte di appello di Cagliari che, in diversa composizione,
provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 ottobre 2019, n. 26217
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