Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 novembre 2019, n. 29093
Differenze retributive, Svolgimento di mansioni superiori,
lmpugnazione proposta da INPS
Ritenuto
1. Che la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza
n. 1192/12, ha rigettato l’impugnazione proposta dall’INPS, nei confronti di
C.E. e di C.F., avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Milano tra le
parti, che aveva accolto le domande con le quali le suddette lavoratrici,
inquadrate nell’ Area C, posizione
C3, del CCNL enti pubblici non economici, 1998-2001, avevano chiesto
accertarsi il loro diritto alle differenze retributive maturate per lo
svolgimento di mansioni superiori riconducibili all’AREA C, posizione C4.
2. Per la cassazione della sentenza di appello
ricorre l’INPS prospettando un motivo di impugnazione.
3. Resistono con controricorso le lavoratrici.
4. In prossimità dell’adunanza camerale le
controricorrenti hanno depositato memoria.
Considerato
1. Che prima di esaminare il motivo di ricorso,
occorre premettere che la Corte d’Appello ha rigettato le censure relative alla
dedotta carenza di motivazione della sentenza di primo grado quanto alle
specifiche mansioni svolte dalle lavoratrici e alla corrispondenza delle stesse
alla qualifica superiore invocata.
Il giudice di primo grado aveva descritto le
mansioni facendo riferimento agli ordini di servizio (n. 11 del 1999, n. 1 del
2002, n. 6 del 1995) in cui venivano illustrati i compiti ai quali le
lavoratrici erano state adibite, ed erano indicate le posizioni rivestite, e
dai quali si ricavava il rapporto diretto tra il direttore del servizio e le
ricorrenti.
Il Tribunale aveva poi operato un confronto motivato
tra le caratteristiche delle mansioni C3, d’inquadramento, con quelle C4, non
essendo necessario che venisse riportata la completa declaratoria dei due
profili attesa la produzione documentale del CCNL.
Dagli ordini dei servizio, precisava la Corte
d’Appello, emergevano le responsabilità affidate alle lavoratrici in relazione
all’andamento del proprio ufficio e del lavoro affidato dalle stesse ai
collaboratori, essendo le medesime responsabili del raggiungimento dei
risultati di produzione, con potere anche di firma in caso di delega del
direttore.
La Corte d’Appello disattendeva anche la censura
relativa alla valutazione delle risultanze testimoniali, in quanto non era
ravvisabile il dedotto contrasto, che sarebbe consistito nell’aver affermato un
teste (D.) che la C., in particolare, autorizzava le ferie senza ulteriori autorizzazioni,
mentre altri testi (P. e L.) avevano affermato che spettava esclusivamente al
direttore l’autorizzazione del piano ferie.
Ed infatti, il piano ferie proposto dai
capo-ufficio, come la C. e la Conti, veniva poi approvato dal dirigente responsabile,
tuttavia la materiale fruizione di un giorno o due, come anche dei permessi,
era di spettanza del capo-ufficio, quale responsabile del buon andamento della
singola unità che sovrintendeva, e dunque consapevole della necessità o meno di
presenza del personale in determinati giorni.
I testi avevano, altresì, confermato che le
lavoratrici smistavano le pratiche ai dipendenti collaboratori – i quali si
rapportavano a loro per ogni problematica – e verificavano lo stato di
avanzamento del lavoro stesso.
Anche la documentazione allegata evidenziava con
sufficiente chiarezza la qualità dell’attività di coordinamento svolta dalle
lavoratrici.
Affermava la Corte d’Appello che le appellate
svolgevano un’attività che presupponeva di fatto l’assunzione di responsabilità
formale in ordine alla conduzione di strutture organizzative – gli uffici di
cui erano a capo – e alla gestione delle risorse che erano dalle stesse
coordinate e dirette, caratteristiche che, come aveva ritenuto correttamente il
Tribunale nell’interpretare le declaratorie contrattuali, erano proprie della
posizione C4 e non di quella C3.
L’adibizione alle mansioni superiori era stata
costante sia per quanto atteneva alle strutture organizzative, sia e
soprattutto in relazione alla gestione delle risorse umane facenti capo alle
ricorrenti.
2. L’INPS, con l’unico motivo di ricorso, deduce la
violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi
collettivi nazionali di lavoro ovvero degli artt.
1362 cod. civ. e ssg., anche con riferimento all’allegato A-declaratoria delle AREE del
CCNL 1998-2001 enti pubblici non economici (AREA C/C3-C4), nonché
dell’allegato B1-profili professionali nel sistema di organizzazione
dell’INPDAP del CCIE INPDAP 1999-2001 (AREA C/C3-C4), dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del
2001 (art. 360, n. 3, cod. proc. civ.), in
relazione alla violazione dei principi di cui all’art.
111 Cost., in particolare, del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 della CEDU.
Il ricorrente ricorda che le lavoratrici risultavano
inquadrate nell’AREA C/C3 – facilitatore di processo – del CCNL enti pubblici non economici 1998-2001.
Il CCNL, nel trattare del nuovo sistema di
inquadramento, poneva in rilievo che lo stesso era orientato al superamento
delle attuali rigidità, sia per porsi al passo con i processi di cambiamento in
corso nell’ambito degli enti e con l’evoluzione dei modelli organizzativi, sia
per contribuire al miglioramento dei livelli di efficienza/efficacia
dell’azione amministrativa e di qualità dei servizi.
Riportava, quindi, la declaratoria del suddetto CCNL
relativa all’AREA C, come specificata per la posizione C3 e per la posizione
C4, nonché quella del CCIE 1999-2001.
Aggiungeva a ciò che il CCNL 2006-2009 (art. 6)
prevedeva l’individuazione delle mansioni in maniera più ampia, non più per
singole posizioni, ma per aree funzionali, al cui interno coesistono più
posizioni meramente economiche.
Tanto premesso, rilevava che dalla documentazione in
atti, prodotta dalle stesse lavoratrici, nonché dalle risultanze delle prove
testimoniali, risultava che le stesse avevano sempre svolto mansioni
rispondenti all’AREA C, posizione C3.
Pertanto, rispetto alla motivazione della Corte
d’Appello permaneva l’attualità delle deduzioni formulate con l’atto di
appello.
Dall’ ordine di servizio n. 11 del 1999 emergeva che
la C. era capo-ufficio dell’ufficio Va/2 “pensioni statali dalla lettera M
alla lettera Z”, che veniva coordinato con altri uffici (VA/1, VA/3 e
Ufficio assistenza fiscale e segreteria) dal direttore amministrativo della
struttura “Gestione pagamento pensioni ex DPT”. Solo a quest’ultimo
potevano attribuirsi le mansioni C4 (gestisce coordina e controlla in autonomia
i processi produttivi e le relative risorse umane strumentali).
Analoghe considerazioni potevano svolgersi per la
Conti, ed erano confermate dall’ordine di servizio n.1/02.
L’attività di coordinamento delle attività, di
organizzazione delle risorse, di responsabilità nel raggiungimento dei
risultati e dell’assegnazione delle pratiche, che appaiono profili di maggiore
responsabilità rispetto all’attività di mera proposta o supporto al dirigente,
espone il ricorrente INPS, in sostanza corrispondevano alla “capacità di gestire
teams di lavoro anche interfunzionali guidando e motivando gli appartenenti al
gruppo”, alla “capacità di gestire e regolare i processi di
produzione sulla base di una visione globale dei processi produttivi della
struttura organizzativa di appartenenza” dell’AREA C3, come emergeva
dall’esito della prova testimoniale (i relativi verbali sono inseriti nel
ricorso, così come gli ordini di servizio di cui sopra).
Contesta, inoltre, la ritenuta prevalenza delle
mansioni superiori svolte.
3. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non
fondato.
3.1. Il motivo di ricorso è inammissibile nella
parte in cui il ricorrente denuncia la violazione o falsa applicazione della
declaratoria dei profili professionali contenuta nel contratto collettivo
integrativo di ente.
L’art. 360 cod. proc.
civ., n. 3 si riferisce ai contratti collettivi nazionali di lavoro sicché
per i contratti integrativi la denuncia in sede di legittimità può riguardare
solo la violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale.
Opera, quindi, il principio, già affermato da questa
Corte, secondo cui “in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento
della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in
una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di
legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione
di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 cod. civ. e ssg., richiedendosi a tale
scopo il deposito del testo, da parte del ricorrente, del contratto collettivo
integrativo sul quale il ricorso si fonda.
Pertanto, il ricorrente per cassazione deve non solo
fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante
specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse
contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali
considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali
assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di
argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame
del merito in sede di legittimità, nonché è tenuto a depositare il relativo
contratto integrativo (Cass. n. 31164 del 2018, n.
8683 del 2018, n. 10271 del 2016).
Nel caso di specie, il ricorrente si è limitato a
richiamare nella rubrica gli artt. 1362 e ssg.,
cod. civ., non ha precisato né il contenuto dei criteri violati, né le
ragioni per le quali il giudice del merito avrebbe violato le regole di
ermeneutica, né ha allegato o indicato il luogo di produzione, nel corso del
giudizio, del contratto integrativo, con conseguente inammissibilità della
censura.
3.2. I restanti profili di censura prospettati con
il primo motivo di ricorso sono infondati.
Il CCNL del 16 febbraio
1999 per i dipendenti del comparto enti pubblici non economici inserisce
nell’AREA C il personale “competente a svolgere tutte le fasi del
processo” che opera “a livelli di responsabilità di diversa ampiezza
secondo lo sviluppo del curriculum”, e, quindi, differenziata in ragione
della pluralità di ruoli organizzativi, di tipo sia gestionale (operatore di
processo, facilitatore di processo, responsabile di processo, responsabile di
struttura) che professionale (esperti di progettazione, specialisti di
organizzazione).
Nella declaratoria generale dell’AREA si precisa che
il personale nella stessa inserito “costituisce garanzia di qualità dei
risultati, della qualità, di circolarità delle comunicazioni interne, di
integrazione delle procedure, di consulenza specialistica”.
L’AREA C, quindi, si caratterizza per il livello di
conoscenze richiesto al dipendente in ragione della capacità di quest’ultimo di
svolgere tutte le fasi del processo, garantendo la qualità del risultato e con
assunzione di responsabilità che, seppure graduata con riferimento allo
sviluppo professionale all’interno dell’AREA stessa, è elemento richiamato in
tutti i profili.
3.3. La posizione C3 presuppone “la capacità di
gestire e regolare i processi di produzione sulla base di una visione globale
dei processi produttivi della struttura organizzativa di appartenenza;
attitudini al “problem solving” rapportate al particolare livello di
responsabilità; capacità di operare orientando il proprio contributo
professionale all’ottimizzazione del sistema, al monitoraggio sistematico della
qualità e alla circolarità delle informazioni; capacità di gestire le varianze
del processo in funzione del “cliente”; attitudine alla cooperazione
e all’integrazione operativa e funzionale, capacità di gestire teams di lavoro
anche interfunzionali guidando e motivando gli appartenenti al gruppo”.
La posizione C4 presuppone “l’assunzione di
responsabilità formale in ordine alla conduzione di strutture organizzative e
alla gestione delle risorse nell’obiettivo di contribuire responsabilmente allo
sviluppo e all’integrazione delle conoscenze rilevanti per i processi
aziendali; la partecipazione al sistema di valutazione; la capacità di assumere
decisioni anche in situazioni di criticità orientando il proprio contributo
all’ottimizzazione del sistema, al monitoraggio sistematico della qualità, alla
circolarità delle informazioni, all’integrazione interna ed esterna (…)”.
3.4. La Corte territoriale ha correttamente
interpretato le disposizioni del CCNL, evidenziando che i tratti differenziali
fra il personale delle due posizioni, C3 e C4, vanno individuati
nell’attribuzione al solo personale C4 della responsabilità formale di
conduzione di un ufficio (struttura organizzativa) e del lavoro affidato ai
collaboratori, coordinando le attività, organizzano le risorse assegnate, e con
responsabilità del raggiungimento dei relativi risultati di produzione.
La sentenza impugnata, richiamate le prove
documentali e le deposizioni testimoniali, all’esito dell’esame delle stesse ha
ritenuto che le lavoratrici “svolgevano un’attività che presupponeva di
fatto l’assunzione di responsabilità formale in ordine alla conduzione di
strutture organizzative – gli uffici di cui erano a capo – e alla gestione
delle risorse che erano dalle stesse coordinate e dirette, caratteristiche che,
come aveva ritenuto correttamente il Tribunale nell’interpretare le
declaratorie contrattuali, erano proprie della posizione C4 e non del profilo
professionale rivestito C3”.
Il giudice di appello si è dunque attenuto al
principio di diritto, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte
(cfr. Cass. n. 8683 del 2018) secondo cui il
procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di
un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive, consistenti
nell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte,
nell’individuazione delle qualifiche e
gradi previsti dal contratto collettivo di categoria
e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della
normativa contrattuale individuati nella seconda.
3.5. Il giudizio di merito espresso dalla Corte
territoriale sulla natura delle mansioni espletate dalla ricorrente non è
sindacabile in questa sede perché tale censura, che il ricorrente formula nel
corso del motivo, esula dall’ambito dell’art. 360,
n. 3, cod. proc. civ., e per le sentenze pubblicate nella vigenza dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5, come modificato
dal d.l. n. 83 del 2012, art. 54,
convertito, con modificazioni, nella legge n. 134
del 2012 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11 agosto 2012), nel cui ambito
la doglianza va sussunta, rileva solo l’omesso esame circa un fatto decisivo
per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
Ed infatti, l’art. 360
n. 5 cod. proc. civ., come novellato, consente di denunciare in sede di
legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che
è stato oggetto di discussione fra le parti.
Nel sistema, l’intervento di modifica dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 come interpretato
dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile
restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla
motivazione.
Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte
(Cass. S.U. n., 19881 del 2014 e Cass. S.U. n.
8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa
dai lavori parlamentari, lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ., ha la finalità di
evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non
strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare
la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice
dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della
violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando
l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto
attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal
testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza
assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella
“motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra
affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed
obiettivamente incomprensibile” – non ravvisabili nella specie in ragione
delle argomentazioni della Corte d’Appello poste a fondamento della decisione,
di cui sopra al punto 1 – esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione”, sicché quest’ultima non può
essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le
risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a
sostegno della propria tesi.
4. Il ricorso deve essere rigettato.
5. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.
6. Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 5.000,00,
per compensi professionali, oltre euro 200,00 per esborsi, spese generali in
misura del 15%, e accessori di legge.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma
1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.