Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 novembre 2019, n. 29099

Licenziamento, Impugnazione, Effettiva sussistenza delle
ragioni riorganizzative, Soppressione del posto del lavoratore, Adempimento
datoriale all’onere di repechage

Fatti di causa

 

Con sentenza in data 21 aprile 2016, la Corte
d’appello di Roma rigettava il reclamo proposto da S. S., dipendente di C. A.
T. I. s.r.l. con qualifica di “viaggiatore” 2° livello e compiti di
venditore di tachigrafi e prodotti affini con marchio VDO, avverso la sentenza
di primo grado di reiezione dell’opposizione avverso l’ordinanza (all’esito del
procedimento sommario introdotto dalla legge 92/2012) di rigetto della sua
impugnazione di licenziamento, intimatogli dalla datrice il 25 febbraio 2014
per giustificato motivo oggettivo, e delle conseguenti condanne reintegratoria
e risarcitoria, nonché di improponibilità, con il rito speciale, delle domande
di preavviso e di risarcimento del danno per screditamento professionale.

Preliminarmente ravvisata l’ammissibilità del
reclamo per la sua conformità al paradigma legale e l’individuazione dallo
stesso ricorrente delle ragioni di impugnazione del licenziamento
nell’inesistenza di un giustificato motivo oggettivo, la Corte territoriale
riteneva l’effettiva sussistenza delle ragioni riorganizzative, consistenti
nella soppressione del posto del lavoratore, per esternalizzazione
dell’attività di vendita dal medesimo svolta e l’adempimento datoriale
all’onere di repechage, per l’offerta, nell’incontestata indisponibilità di
posizioni del suo livello di inquadramento, di un posto per mansioni inferiori
con adeguamento del contratto in pejus.

Avverso tale sentenza, con atto notificato il 20
(21) giugno 2016, il lavoratore ricorreva per cassazione con due motivi, cui resisteva
la società con controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi
dell’art. 378 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione degli artt. 1175,
1375, 2103, 2697, 2729, 2731 c.c. 3, 5 I. 604/1966, 113, 115, 116 c.p.c., per avere la Corte territoriale
ritenuto mancante la prova, a carico della datrice di lavoro, dell’effettiva
soppressione del posto di lavoro del ricorrente senza avere esaminato alcuno
dei contratti di esternalizzazione dell’attività prima svolta dal medesimo e
pertanto l’effettiva riorganizzazione aziendale, nonché dell’impossibilità di
una propria collocazione in posizione equivalente, non ricavabile da
dichiarazioni rese dallo stesso in sede di interrogatorio libero, integranti
meri argomenti di prova: così reputando legittima un’offerta di reimpiego
peggiorativa, per il livello delle mansioni, la novazione del rapporto, con
deteriore trattamento economico e trasferimento della sede di lavoro.

2. Con il secondo, egli deduce nullità della
sentenza per difetto del requisito di validità della motivazione in violazione
degli artt. 132 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c., in riferimento
all’effettiva soppressione del posto del lavoratore, sul presupposto di una sua
dichiarazione, resa nel libero interrogatorio, di esternalizzazione dell’attività
in precedenza svolta e di assoluzione dell’onere di repechage, su pari
presupposto.

3. Il primo motivo, relativo alla violazione di
legge suindicata per mancanza di prova dell’effettiva soppressione del posto di
lavoro del lavoratore, è inammissibile.

3.1. In via di premessa, giova ribadire che, in tema
di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la
legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività
produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una
migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività,
determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la
soppressione di un’individuata posizione lavorativa: non essendo la scelta
imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro,
sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al
disposto dell’art. 41 Cost. (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201; Cass. 3 maggio 2017, n. 10699); sempre che,
s’intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla
posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non
risultando il recesso pretestuoso (Cass. 28 marzo 2019, n. 8661).

3.2. Quanto all’onere di repechage, in caso di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione del
posto cui era addetto il lavoratore, il datore ha l’onere di provare non solo
che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro
analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma
anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver
prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un
reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale (Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 8 marzo 2016, n. 4509; Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653).

L’art. 2103 c.c.
deve, infatti, essere interpretato alla stregua del bilanciamento del diritto
del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed
efficiente e di quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza
con la ratio di numerosi interventi normativi, quali l’art. 7, quinto comma d.Ig. 151/2001,
l’art. 1, settimo comma l.
68/1999, l’art. 4,
undicesimo comma d. Ig. 223/1991 anche come da ultimo riformulato dall’art. 3, secondo comma d.lg. 81/2015:
senza necessità, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al
recesso datoriale, di un patto di demansionamento o di una richiesta del
lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, essendo
onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona
fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni
inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale (Cass. 19 novembre 2015, n. 23698).

3.3. E la Corte territoriale ha esattamente
applicato i suenunciati principi di diritto, in base ad accertamento in fatto
congruente con le scrutinate risultanze di effettiva soppressione del posto del
lavoratore per incontestata esternalizzazione della sua attività, dallo stesso
espressamente riconosciuta (così al primo capoverso di pg. 4 della sentenza) e
di inesistenza di posti disponibili del suo livello di inquadramento, con la
conseguente, corretta offerta di una posizione di mansione inferiore (di
ispettore di rete), rifiutata dal lavoratore (così all’ultimo capoverso di pg.
4, in riferimento al terzultimo di pg. 2 della sentenza): e pertanto
insindacabile in sede di legittimità.

3.4. Né la Corte capitolina ha mal governato i
principi di valutazione della prova in riferimento alle dichiarazioni rese dal
lavoratore in sede di interrogatorio libero, ben potendo la dichiarazione ivi
resa, nonostante la sua natura giuridica non confessoria, essere liberamente
valutata dal giudice, che ne può legittimamente trarre un convincimento
contrario all’interesse della parte ed utilizzarla quale unica fonte di prova
(Cass. 2 aprile 2009, n. 8066; Cass. 1 ottobre 2014, n. 20736; Cass. 22 giugno
2016, n. 12961; Cass. 7 giugno 2017, n. 14195).

4. Il secondo motivo, relativo a nullità della
sentenza per difetto del requisito di validità della motivazione in riferimento
all’effettiva soppressione del posto del lavoratore, è infondato.

4.1. Non si configura, infatti, il denunciato error
in procedendo.

E ciò alla luce della congrua argomentazione
dell’accertamento compiuto dalla Corte di merito, che ne esclude la
sussistenza: posto che il vizio di apparente motivazione, integrante nullità
della sentenza, ricorre qualora essa sia totalmente mancante o meramente apparente,
ovvero risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di
esplicitare le ragioni della decisione, per essere afflitta da un contrasto
irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed
obiettivamente incomprensibile, realizzandosi in tal caso una nullità
processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c. (Cass. 12
ottobre 2017, n. 23940; Cass. 25 settembre 2018, n. 22598).

5. Dalle superiori argomentazioni discende coerente
il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il
regime di soccombenza e il raddoppio del contributo unificato, ove spettante
nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di
Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla
rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che
liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00 per compensi professionali, oltre
rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 bis, dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 novembre 2019, n. 29099
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