Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 novembre 2019, n. 29100

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
Illegittimità, Soppressione del posto del lavoratore, Obbligo datoriale di
repechage

Fatti di causa

 

Con sentenza in data 30 novembre 2016, la Corte
d’appello di Ancona dichiarava illegittimo il licenziamento per giustificato
motivo oggettivo intimato il 21 dicembre 2012 da T.P. s.r.l. a M.P. e
condannava la società al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di sei
mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori: così
riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece rigettato il ricorso
del lavoratore.

Pur ritenuta l’effettività della crisi aziendale
giustificante la soppressione del posto del lavoratore, la Corte territoriale
escludeva tuttavia, sulla base delle scrutinate risultanze istruttorie, la
prova dell’offerta di mansioni anche inferiori, con il conseguente mancato
assolvimento dell’obbligo datoriale di repechage, configurabile pure per mansioni
di tale natura, se rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e
compatibili con l’assetto aziendale.

Con atto notificato il 29 maggio 2017, la società
ricorreva per cassazione con sei motivi, illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., cui il lavoratore resisteva con
controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce
violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 5 I. 604/1966, 2697 c.c., 115, 116, 414, n. 3 c.p.c.,
per erronea ripartizione dell’onere della prova in ordine all’esistenza di un
posto cui il lavoratore, gravato dell’onere della relativa allegazione non
adempiuto, avrebbe potuto essere adibito.

2. Con il secondo, essa deduce violazione e falsa
applicazione degli artt. 3, 5
I. 604/1966, 2697, 2729, 2103 c.c.,
per esclusione della possibilità datoriale di adibire il lavoratore a mansioni
inferiori, nell’incontestata indisponibilità incontestata di altre equivalenti
a quelle svolte, posto che l’attribuzione avrebbe comunque comportato
l’inammissibile conseguenza del licenziamento di un altro dipendente in sua
vece.

3. Con il terzo, la ricorrente deduce omesso esame
di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in
relazione agli artt. 3 I.
604/1966, 115, 116
c.p.c., quale l’inesistenza di posti di lavoro liberi, anche riguardanti
mansioni inferiori.

4. Con il quarto, essa deduce omesso esame di un
fatto decisivo per il giudizio, in relazione agli artt. 3 I. 604/1966, 115, 116 c.p.c., 2727, 2729 c.c.,
quale l’esatta formulazione dell’offerta datoriale di demansionamento al
lavoratore, con la specificazione (del tutto ignorata dalla Corte territoriale,
al contrario del Tribunale) che  ciò
avrebbe comportato, in difetto di posti disponibili neppure per mansioni
inferiori, il licenziamento di un altro lavoratore, in violazione dell’obbligo
di repechage.

5. Con il quinto, la ricorrente deduce omesso esame
di un fatto decisivo per il giudizio oggetto, in relazione agli artt. 3 I. 604/1966, 115, 116 c.p.c., 2727, 2729 c.c.,
quale l’equazione, erroneamente operata dalla Corte territoriale in difetto di
riscontri istruttori, tra demansionamento e attribuzione di mansioni inferiori
rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore.

6. Con il sesto, essa deduce violazione e falsa
applicazione degli artt. 3, 5
I. 604/1966, 2697, 2729, 2103 c.c., 41 Cost., per il mancato accertamento, sia pure
esclusa la prova dell’anteriorità o contestualità al licenziamento del patto di
demansionamento, del consenso del lavoratore ad esso, meramente presunto.

7. Il primo motivo, relativo a violazione e falsa
applicazione delle norme suindicate per inadempimento dal lavoratore dell’onere
di allegazione dell’esistenza di un posto cui avrebbe potuto essere adibito, è
infondato.

7.1. Secondo principio di diritto consolidato presso
questa Corte, spetta al datore di lavoro l’onere di allegazione e di prova
dell’impossibilità di repechage del dipendente licenziato, in quanto requisito
di legittimità del recesso datoriale, senza che sul lavoratore incomba un onere
di allegazione dei posti assegnabili, essendo contraria agli ordinari principi
processuali una divaricazione tra i suddetti oneri (Cass.
22 marzo 2016 n. 5592; Cass. 13 giugno 2016,
n. 12101; Cass. 5 gennaio 2017, n. 160; Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882). Ed è stato
piuttosto ritenuto che la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza
di una posizione lavorativa disponibile (ribadita l’insussistenza di un onere a
suo carico in tale senso), una volta accertata – anche attraverso presunzioni
gravi, precise e concordanti – l’impossibilità di un ricollocamento
nell’impresa del lavoratore medesimo per indisponibilità di posti in azienda,
ai fini del repechage (la cui prova grava sul datore di lavoro), valga a
corroborare il descritto quadro probatorio (Cass.
23 maggio 2018, n. 12794).

8. Anche il secondo motivo, relativo a violazione
delle suindicate norme di diritto per esclusione della possibilità datoriale di
adibire il lavoratore a mansioni inferiori per indisponibilità incontestata di
altre equivalenti a quelle svolte, è infondato.

8.1. In linea di diritto giova ribadire, quanto
all’onere di repechage, che in caso di licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, per la soppressione del posto di lavoro cui era addetto il
lavoratore,’ il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento
del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella
soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione
del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente,
senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni
inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale (Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 8 marzo 2016, n. 4509; Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653).

L’art. 2103 c.c. si
deve, infatti, interpretare alla stregua del bilanciamento del diritto del
datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed
efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con
la ratio di numerosi interventi normativi, quali l’art. 7, quinto comma d. Ig. 151/2001,
l’art. 1, settimo comma I.
68/1999, l’art. 4,
undicesimo comma d. Ig. 223/1991 anche come da ultimo riformulato dall’art. 3, secondo comma d.Ig. 81/2015:
senza necessità, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al
recesso datoriale, di un patto di demansionamento o di una richiesta del
lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento (come invece
per Cass. 18 marzo 2009, n. 6552), essendo
onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona
fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni
inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale (Cass. 19 novembre 2015, n. 23698).

Ebbene, al di là di un difetto di specificità del
motivo, in violazione del principio prescritto dall’art.
366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c., per omessa trascrizione delle
autocertificazioni dell’organico aziendale (indicate al primo capoverso di pg.
11 del ricorso) citate a fondamento della censura (Cass. 3 luglio 2010, n.
17915; Cass. 31 luglio 2012, n. 13677; Cass.
10 agosto 2017, n. 19985), la violazione delle norme di legge denunciate non si
configura, in difetto dei requisiti suoi propri (Cass.
31 maggio 2006, n. 12984; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 26 giugno
2013, n. 16038). Ed è noto che essa consista nella deduzione di un’erronea
ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta
recata da una norma di legge, necessariamente implicante un problema
interpretativo della stessa, non mediato dalla contestata valutazione delle
risultanze di causa, riservata alla tipica valutazione del giudice di merito
(Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 12 ottobre 2017, n. 24054). Proprio su
una tale mediazione con le risultanze di causa la ricorrente ha incentrato la
censura, non tanto allora nel corretto alveo di un error in íudicando, quanto
piuttosto in quello inappropriato di una contestazione (nella sostanza, per
insufficiente motivazione) dell’accertamento in fatto operato dalla Corte
territoriale, sulla scorta delle scrutinate risultanze istruttorie, approdato
alla conclusione di una mancanza di prova dell’offerta datoriale al lavoratore
di mansioni inferiori per impossibilità incontestata di adibirlo ad altre
equivalenti (come in particolare esposto al p.to 2.2.2. di pg. 6 della
sentenza). E per giunta, traendo argomenti di confutazione dall’apprezzamento
della natura contraddittoria di puntuali allegazioni datoriali (al p.to 2.2.3.
di pg. 6 della sentenza), sulla base di una prospettata valutazione ipotetica
di inevitabilità in ogni caso di un licenziamento, se non a carico di M.P. di
“un altro in sua vece” (così agli ultimi capoversi di pgg. 11 e 15
del ricorso).

9. I motivi dal terzo al quinto, tutti riguardanti
denuncia di omesso esame dei fatti suindicati, possono essere congiuntamente
esaminati, per la loro evidente connessione.

9.1. Essi sono inammissibili.

9.2. Con essi non vi è deduzione di alcun fatto
storico, ma piuttosto di una (ri)valutazione di risultanze istruttorie (con il
terzo motivo) o di una valutazione ipotetica, come già nel secondo (con il
quarto) o di una questione di diritto (con il quinto): con evidente eccedenza
dell’ambito devolutivo del novellato testo dell’art.
360, primo comma, n. 5 c.p.c., applicabile ratione temporis.

Come noto, esso ha introdotto nell’ordinamento un
vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un
fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo
della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (nel senso che, qualora
esaminato, sia idoneo a determinare un esito diverso della controversia). Da
ciò discende che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente
deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il
“dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il
“come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di
discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”; fermo
restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il
vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante
in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la
sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie: con la
conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell’accertamento dei fatti
ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass.
s.u. 7 aprile 2014 n. 8053; Cass. s.u. 22 settembre 2014 n. 19881; Cass. 21
ottobre 2015, n. 21439).

10. Il sesto motivo, relativo al mancato
accertamento del consenso del lavoratore ad un patto di demansionamento, è
inammissibile.

10.1. Ribadita la legittimità di un tale patto, pur
anteriormente alla riformulazione dell’art. 2103
c.c. disposta dal d.Ig. 81/2015, in
presenza di condizioni tali da legittimare il licenziamento del lavoratore in
mancanza di accordo, purché il consenso sia stato espresso liberamente, sebbene
in forma tacita ma attraverso fatti univocamente attestanti la volontà del
lavoratore di aderire alla modifica in peius delle mansioni (Cass. 26 febbraio
2019, n. 5621), la ricorrente difetta di interesse, avendo la Corte anconetana
escluso la prova di un’offerta datoriale di mansioni inferiori al lavoratore: sicché,
manca il presupposto per l’accertamento di un consenso del lavoratore a quanto,
appunto, neppure offerto.

11. Dalle superiori argomentazioni discende il
rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese secondo il regime di
soccombenza e il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella
ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass.
s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna la società alla
rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che
liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre
rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del
comma 1 bis, dello stesso art. 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 novembre 2019, n. 29100
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