Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 novembre 2019, n. 29105
Licenziamento, Cessazione del contratto di somministrazione
con società utilizzatrice, Illegittimità, Tutela reintegratoria
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 2723 del 21.6.2018 la Corte
d’appello di Roma, in sede di reclamo ex art. 1, comma 58 della legge n. 92
del 2012 ed in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Viterbo, ha
dichiarato illegittimo il licenziamento intimato dalla società E-W. il
26.3.2015 a A.L.T. per cessazione del contratto di somministrazione con la
società utilizzatrice M.P.E. in considerazione del mancato raggiungimento della
prova relativa alla cessazione del contratto di somministrazione ed alla impossibilità
di ricollocazione del lavoratore, con conseguente applicazione della tutela
reintegratoria di cui all’art.
18, commi 7 e 4, della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92 del 2012.
2. La Corte territoriale, premesso che oggetto
dell’impugnazione giudiziale da parte del lavoratore era stato altresì la
mancata cessazione del contratto di somministrazione tra agenzia del lavoro e
società utilizzatrice (oltre che l’interruzione della missione del L.T. presso
la M.P.), ha rilevato l’assenza di contestazioni, deduzioni e prove sul punto
da parte della società E.-W. Nonché
insufficienti gli sforzi compiuti dall’agenzia ai fini della
ricollocazione del lavoratore (essendo irrilevante che il cliente Intercarta
avesse richiesto espressamente l’avvio di altro dipendente, C., a fronte della
diversa anzianità anagrafica e professionale);
infine, ha applicato il regime sanzionatorio
previsto dall’art. 18, comma
4, della legge n. 300 del 1970 in considerazione della mancanza di
eccessiva onerosità della reintegra nel posto di lavoro avuto riguardo
all’ampio fatturato della società ed al numero rilevante di dipendenti,
prendendo a parametro di riferimento – ai fini del risarcimento dovuto – la
retribuzione percepita presso la società utilizzatrice M.P. ritenendo
l’indennità di disponibilità corrisposta dalla società E.W. negli ultimi nove
mesi “solo una parte della retribuzione globale di fatto”.
3. La società E.-W. s.p.a. ha proposto, avverso tale
sentenza, ricorso per cassazione affidato a cinque motivi illustrati da
memoria. Il lavoratore ha depositato controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la società ricorrente
denuncia violazione degli artt. 2697 cod.civ. e
115 e 116
cod.proc.civ. (ex art. 360, primo comma, n. 3,
cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che la
cessazione del contratto di somministrazione con la società M.P. era questione
pacifica, come emergeva dal ricorso introduttivo del giudizio proposto dal
lavoratore.
2. Con il secondo ed il terzo motivo si denuncia
violazione degli artt. 25 del
CCNL Agenzie di somministrazione 2014, 22 del d.lgs. n. 276 del 2003, 3 della legge n. 604 del 1966
nonché vizio di motivazione (ex art. 360, primo
comma, nn. 3 e 5, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale,
trascurato (come invece emerso dalle deposizioni testimoniali rese dall’unico
testimone escusso) che la società aveva intrapreso tutte le azioni possibili
per individuare una nuova missione al dipendente durante il periodo, previsto
dall’art. 25 del CCNL di settore, di disponibilità. La Corte, inoltre, ha
effettuato erroneamente una ingerenza nelle decisioni squisitamente
imprenditoriali (e dunque insindacabili nel merito) ove ha ritenuto
collocabile, presso il cliente Intercarta, il dipendente L.T. con preferenza al
collega C. (effettivamente avviato).
3. Con il quarto ed il quinto motivo la ricorrente
denuncia violazione degli artt.
18, commi 4 e 7, della legge n. 300 del 1970 e 2058,
comma 2, cod.civ. (ex art. 360, primo comma, n.
3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte distrettuale, applicato il regime
sanzionatorio della reintegra nel posto di lavoro nonostante il licenziamento
fosse avvenuto a seguito di cessazione del contratto di somministrazione con la
M. e in situazione di incollocabilità e non potendosi configurare una manifesta
insussistenza del fatto a fronte della mera violazione degli obblighi di buona
fede e collaborazione.
La Corte ha, inoltre, preso erroneamente a parametro
di riferimento per la determinazione del risarcimento del danno la retribuzione
da ultimo percepita presso l’utilizzatore e non il compenso, avente natura
retributiva, percepito dall’Agenzia nell’ultimo periodo (nove mesi) di
disponibilità (previsto dall’art.
25 CCNL di settore)
4. Il primo, il secondo ed il terzo motivo di
ricorso sono inammissibili.
Deve, in primo luogo, rimarcarsi che in tema di
ricorso per cessazione, il vizio di violazione di legge consiste nella
deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato,
della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica
necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa,
l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo
delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di
legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura
è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.
Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso
proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa,
ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria
ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo
quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata
valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. 16 luglio 2010 n. 16698;
Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).
Nella specie è evidente che il ricorrente lamenta la
erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria
ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia
un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge
(ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) bensì
un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma n. 5 cod.proc.civ., che –
nella versione ratione temporis applicabile – lo circoscrive all’omesso esame
di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014),
riducendo al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità
sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014).
Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la
motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a
giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o
contraddittori.
La sentenza impugnata ha ampiamente esaminato i
fatti controversi ed accertato che nessuna allegazione né prova era stata
dedotta dalla società E.-W. in ordine alla ragione posta a base del
licenziamento (e cristallizzata nella lettera di recesso) ossia la cessazione
del contratto di somministrazione con la società M.P.. Con riguardo all’onere
del repechage (indagine che, peraltro, si rivela ultronea, con conseguente
inammissibilità della relativa censura, a fronte della già accertata
insussistenza della ragione posta a base del licenziamento), la Corte ha
ritenuto insufficienti gli elementi di prova (di fonte testimoniale) forniti
dalla società, non emergendo una totale incollocabilità in altri posti di
lavoro.
La Corte di Appello ha, dunque, correttamente
applicato l’art. 18, comma 7,
della legge nr. 300 del 1970, secondo l’interpretazione che questa Corte
ha, di recente, offerto.
Con la pronuncia nr.
10435 del 2018 è stato chiarito che «In tema di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito della “manifesta
insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” previsto dall’art. 18, comma 7, st.lav.,
come novellato dalla I. n. 92 del 2012,
concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le
ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al
regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il
lavoratore (cd. “repéchage”); fermo l’onere della prova che grava sul
datore di lavoro ai sensi dell’art.
5 della I. n. 604 del 1966, la “manifesta insussistenza” va
riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio,
assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità
del recesso» (nello stesso senso, Cass. n. 181 del
2019).
La Corte distrettuale ha correttamente ritenuto
integrata una ipotesi di manifesta insussistenza del fatto a fronte della
totale assenza di elementi probatori relativi alla sussistenza della ragione
organizzativa posta a base del licenziamento e dunque del presupposto che –
unitamente all’obbligo del repéchage (ossia alla impossibilità di inviare in
missione il lavoratore) – integra il giustificato motivo oggettivo.
5. Il quarto motivo di ricorso appare anch’esso
inammissibilmente formulato per avere ricondotto sotto l’archetipo della
violazione di legge censure che, invece, attengono alla tipologia del difetto
di motivazione ovvero al gravame contro la decisione di merito mediante una
diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertate e
ricostruite dalla Corte territoriale.
6. Il quinto motivo di ricorso non appare fondato.
Il regime
sanzionatorio previsto dall’art.
18, comma 4, della legge n. 300 del 1970 come novellato dalla legge n. 92 del 2012 rinvia, quale parametro di
riferimento per la determinazione dell’indennità risarcitoria, “all’ultima
retribuzione globale di fatto”.
Secondo orientamento consolidato di questa Corte
(seppur maturato sulla versione della norma precedente la novella del 2012), la
retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il
lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato (Cass.
n. 15066 del 2015), dovendosi comprendere nel relativo parametro non
soltanto la retribuzione base ma anche ogni compenso di carattere continuativo
che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al
momento del licenziamento, in quanto, altrimenti verrebbero ad essere addossate
al lavoratore le conseguenze negative di un illecito altrui (Cass. n. 19956 del 2009). Il testo novellato
dell’art. 18 della legge n.
300 del 1970 è suscettibile di identica interpretazione, dovendosi ritenere
il riferimento all’ “ultima” retribuzione quale rinvio al rapporto di
lavoro come cristallizzato al momento del licenziamento.
Nell’ambito del contratto di subordinazione (a tempo
indeterminato) intercorrente con l’agenzia di somministrazione, la cessazione
della missione presso l’utilizzatore, non è sufficiente a giustificare il
recesso (per giustificato motivo oggettivo) dell’agenzia atteso che ciò non fa
venir meno, da una parte, l’obbligo di disponibilità del lavoratore a tempo
indeterminato e, dall’altra, l’obbligo di reperimento di altre occasioni di
lavoro in un arco di tempo congruo: la ricerca di altra occupazione ai fini
dell’obbligo di repechage finisce, dunque, per coincidere con l’oggetto
dell’adempimento contrattuale dell’agenzia nei confronti del dipendente.
Se, dunque, il licenziamento si appalesa illegittimo
per insussistenza della ragione tecnica, organizzativa e produttiva dedotta
nella lettera di licenziamento (nella specie, il lavoratore ha concluso la
missione nonostante non sia risultata provata la contemporanea interruzione del
contratto commerciale tra datore di lavoro-utilizzatore e agenzia), l’indennità
prevista dall’art. 18 della
legge n. 300 del 1970 mira a risarcire le conseguenze retributive e
contributive del danno da mancato adempimento e va commisurata alla
retribuzione percepita dal lavoratore presso l’ultimo datore di
lavoro-utilizzatore.
La soluzione è coerente con le statuizioni di questa
Corte dirette ad affermare che la funzione del risarcimento ex art. 18 della legge nr. 300 del
1970 è, sostanzialmente, quella di ripristinare lo status quo ante,
attraverso la corresponsione al lavoratore di quanto (e non più di quanto)
avrebbe percepito se non vi fosse stata l’illegittima estromissione, di fatto,
dall’azienda (così identificando il contenuto concreto dell’obbligazione di
pagamento dell’indennità risarcitoria ex art. 18 cit. in ragione della
effettiva situazione economica che il lavoratore aveva al momento del licenziamento
illegittimo: Cass. in motivazione nr. 10307 del 2002).
Ebbene, nell’ambito del contratto di
somministrazione, a fronte della insussistenza della ragione inerente
l’attività produttiva, l’organizzazione o il funzionamento dell’azienda
concretatasi nell’illegittima interruzione della missione nella quale era
impegnato il lavoratore, l’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 della legge n. 300 del
1970 deve ripristinare lo status quo ante rappresentato dallo svolgimento
dell’attività lavorativa presso il datore di lavoro-utilizzatore, con
commisurazione del risarcimento alla retribuzione dallo stesso percepita e non
all’indennità di disponibilità corrisposta negli ultimi mesi del rapporto di
lavoro (a seguito della illegittima estromissione dall’attività lavorativa
presso il datore di lavoro-utilizzatore).
Il suddetto principio non si pone in contrasto con
la recente pronuncia di questa Corte (cfr. Cass.
n. 181 del 2019) che, in sede di valutazione della illegittimità di un
licenziamento per giustificato motivo oggettivo da parte di un’agenzia di
somministrazione, ha ritenuto corretta la parametrazione dell’indennità
risarcitoria ex art. 18 della
legge n. 300 del 1970 all’indennità di disponibilità (di natura
retributiva) percepita dai lavoratori al momento del licenziamento, essendo
stato accertato in detta fattispecie che la collocazione dei lavoratori in
disponibilità era avvenuta per fatto non imputabile all’agenzia di
somministrazione.
Invero, considerata la peculiarità del contratto di
somministrazione, la ratio della individuazione del parametro a cui commisurare
l’indennità risarcitoria ha rispettato il medesimo criterio della
considerazione del tipo di danno subito dal lavoratore, la prosecuzione della
missione ossia del rapporto di lavoro presso l’utilizzatore, nel presente caso,
la prosecuzione della disponibilità del lavoratore (a tempo indeterminato) nel
caso già esaminato da questa Corte.
7. In conclusione, il ricorso va rigettato e le
spese del presente giudizio di legittimità seguono il criterio della
soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
8. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato – se dovuto -, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13,
comma 1 quater, introdotto dalla L.
24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente
al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano
in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 5.000,00 per compensi professionali,
oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del
comma 1-bis dello stesso articolo
13.