Reiterare un licenziamento formalmente corretto ma intimato per la stessa ragione sostanziale del precedente è illegittimo.
Nota a Cass. 3 ottobre 2019, n. 24772
Francesco Belmonte
Il lavoratore “reintegrato nel posto di lavoro può essere nuovamente licenziato da parte del datore di lavoro solo sulla base di una diversa ragione giustificatrice.” È cioè ammissibile una successiva comunicazione di recesso dal rapporto da parte del datore medesimo, “purché il nuovo licenziamento si fondi su una ragione o motivo diverso e sopravvenuto.”
In particolare, secondo la giurisprudenza, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per lo stesso motivo (ossia, soppressione della posizione lavorativa), già addotto a fondamento di un precedente licenziamento collettivo dichiarato illegittimo”, configura uno schema fraudolento ai sensi dell’art. 1344 c.c. Tale schema va accertato dal giudice di merito in base agli indici sintomatici dell’intento elusivo, quali la mancata ottemperanza del datore all’ordine giudiziale di reintegra e la contiguità temporale del secondo recesso.
Questo, il principio posto dalla Corte di Cassazione (3 ottobre 2019, n. 24772, parzialmente difforme da App. Milano n. 2186/2017) in relazione al caso di un licenziamento collettivo dichiarato illegittimo per ragioni (non procedurali, ma) inerenti alla violazione dei criteri di scelta ex art. 5, L. 23 luglio 1991, n. 223, ossia per ragioni di ordine sostanziale. La Corte precisa che nella fattispecie non trova “applicazione il principio secondo cui, ove si tratti di un licenziamento collettivo dichiarato inefficace per un vizio procedurale, si può procedere ad un nuovo licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, basato sugli stessi motivi sostanziali del precedente recesso, purché ne sussistano i requisiti…” (Cass. n. 22357/2015)” ed ha ritenuto viziata la sentenza di merito che ha considerato fatto diverso la “conseguenza oggettiva delle modifiche organizzative descritte nella procedura di licenziamento collettivo e attuate nelle more”.
Il datore di lavoro non ha dunque la garanzia di poter espellere dall’azienda i dipendenti meno graditi limitandosi ad intimare “in via prudenziale un licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo decorsi centoventi giorni dal licenziamento collettivo, facendo riferimento alla stessa nozione di organico per la quale è stato promosso il licenziamento collettivo.”
A questo proposito, la stessa Cassazione (n. 23042/2018), in merito ad un secondo licenziamento il cui motivo era stato individuato nella impossibilità, a seguito del riassetto organizzativo attuato nelle more, di adibire proficuamente il lavoratore ad altre funzioni aveva rilevato che l’errore commesso dall’azienda era stato quello di non considerare che tale impossibilità di adibizione ad altre funzioni «non fosse derivata da un fatto nuovo ed autonomo rispetto alla soppressione della posizione lavorativa posta a base del primo licenziamento annullato. Ed infatti la posizione soppressa costituiva uno degli esuberi di cui alla procedura di licenziamento collettivo posta, in quell’ambito, in relazione ad un processo di “riduzione o trasformazione di attività o lavoro”». In particolare, “se il licenziamento collettivo era stato ritenuto illegittimo per violazione dei criteri di scelta, non poteva la società addurre a sostegno del secondo licenziamento la soppressione della stessa posizione. Dunque, l’ordine di reintegra andava adempiuto e solo una ragione diversa da quella posta a base del licenziamento annullato avrebbe potuto incidere, con effetto estintivo, sulla ricostituita posizione lavorativa”.