Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 novembre 2019, n. 29424

Patto di prova, Conseguente recesso, Domanda di accertamento
– Respinta, Deposito dell’appello, Remissione in termini

 

Rilevato che

 

la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato inammissibile
il gravame proposto da A.V. avverso la sentenza del Tribunale di Lucca che
aveva respinto la sua domanda di accertamento dell’illegittimità del patto di
prova e del conseguente recesso dalla ASL n. 2 di Lucca dal rapporto di lavoro
inter partes;

la Corte, sul presupposto che la sentenza fosse
stata ritualmente notificata il 7.5.2013 e l’appello depositato il 7.6.2013,
ritenendo non accoglibile l’istanza di remissione in termini, considerava
superato il termine c.d. breve di trenta giorni;

la sentenza è stata impugnata per cassazione dalla
V. con due motivi, resistiti da controricorso della Asl, che ha anche
depositato memoria illustrativa;

 

Considerato che

 

con il primo motivo la ricorrente adduce, ai sensi
dell’art. 360 n. 4 c.p.c. la violazione dell’art. 153, co., 2, c.p.c., per avere la corte
territoriale erroneamente disatteso la sua istanza di remissione in termini per
la proposizione dell’appello, avendo essa dovuto modificare l’atto già
predisposto al fine di ritenere conto della comunicazione dell’avvenuta
ammissione al patrocinio a spese dello Stato per il giudizio di primo grado,
pronunciata in esito a reclamo ex art.
126 co. 3 d.p.r. 115/2002; la dinamica dei fatti processuali è pacifica,
nel senso che la ricorrente chiese l’ammissione al patrocinio a spese dello
Stato per il primo grado di giudizio, che le venne respinta dal Consiglio
dell’Ordine;

essa propose quindi reclamo, ma poi il giudizio (di
merito) di primo grado fu definito in senso per lei sfavorevole, senza che le
fosse stata comunicata alcuna decisione sul predetto reclamo;

fu guindi predisposto atto di appello nell’interesse
della stessa V., che conteneva – a guanto afferma la ricorrente – anche un
primo motivo dedicato alla mancata pronuncia sul reclamo attinente al
patrocinio a spese dello Stato;

tuttavia, l’ultimo giorno utile per il deposito
dell’appello, prima che tale deposito avesse luogo, fu comunicata la decisione
di accoglimento del reclamo stesso;

l’appello fu quindi modificato, onde tenere conto di
tale vicenda sopravvenuta, ma il deposito fu dilazionato al giorno successivo,
allorquando il termine per il gravame, di trenta giorni stante l’avvenuta notifica
della sentenza di primo grado, era pacificamente scaduto; il motivo è
infondato;

in giurisprudenza è consolidato l’orientamento per
cui la remissione in termini, applicabile anche rispetto all’impugnazione delle
pronunce giudiziali, può essere ammessa ove l’impedimento che non ha consentito
di dare corso tempestivamente all’attività richiesta abbia i «caratteri
dell’assolutezza e non della mera difficoltà» (Cass., S.U., 12 febbraio 2019,
n. 4135; Cass. 6 luglio 2018, n. 17729);

nel caso di specie, anche a voler seguire la tesi
della ricorrente secondo cui l’atto di appello avrebbe contenuto un primo
motivo inerente la mancata decisione sul reclamo ex art. 127 t.u. spese giustizia,
poi conosciuta l’ultimo giorno utile per il deposito, è palese come ciò non
determinava alcun impedimento munito dei menzionati caratteri di assolutezza,
in quanto l’atto ben poteva esser depositato così come formato, salvo poi – o
anche lo stesso giorno, a ciò bastando poche righe – rettificarne il contenuto
con riferimento al primo motivo superato dall’evolversi dei fatti;

neppure ha rilievo il richiamo, su cui insiste la
ricorrente, ai rischi riconnessi al c.d. filtro in appello, in quanto comunque
la pronuncia ai sensi dell’art. 348-bis c.p.c.
non è destinata ad intervenire prima dell’instaurazione del contraddittorio e
dunque vi è era tutto il tempo di integrare o rettificare, come si è detto, le
difese, così ovviando al rischio palesato con il ricorso per cassazione,
ammesso e non concesso che davvero un tale rischio sussistesse;

con il secondo motivo la ricorrente sostiene la
violazione e falsa applicazione dell’art.
13, co. 1 – quater d.p.r. 115/2002 per avere la Corte distrettuale
erroneamente applicato nei suoi confronti la norma «condannando (… ) a
versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato» nonostante essa
fosse stata ammessa al gratuito patrocinio e risultasse quindi esentata dal
versamento del contributo stesso; il motivo è inammissibile;

è noto che il contributo unificato costituisce
debito fiscale (Cass., S.U., 5 maggio 2011, n.
9840) ovvero «entrata tributaria erariale» (Cass,
29 dicembre 2016, n. 27331), rispetto alla quale creditore è
l’Amministrazione e non le parti in causa del singolo giudizio, sicché essa è
soggetta ad accertamento secondo le dinamiche proprie delle entrate fiscali e
rientranti, quanto a contenzioso, nella giurisdizione tributaria (Cass. 9840/2011 cit.); in tale contesto, la
declaratoria, ad opera del giudice della causa di impugnazione cui inerisce il
contributo, della sussistenza dei presupposti per il raddoppio di esso in
ragione dell’integrale rigetto, inammissibilità o improcedibilità
dell’impugnazione stessa, non ha natura di condanna (come erroneamente afferma
la ricorrente), né di fatto costitutivo del diritto al raddoppio, ma ha soltanto
funzione di agevolazione dell’accertamento amministrativo, rispetto alla
sussistenza dei presupposti processuali del raddoppio stesso;

tale dichiarazione non impedisce dunque né
all’Amministrazione di perseguire il raddoppio che ritenga dovuto nonostante la
mancata dichiarazione, né al privato di contestare la sussistenza del diritto
al raddoppio a fronte di una dichiarazione di tale presupposto da parte del
giudice della causa e che egli ritenga erronea, il tutto nelle sedi e con i
procedimenti amministrativi e giurisdizionali propri delle entrate tributarie;

in sostanza la statuizione relativa al versamento di
un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non riguardando
l’oggetto del contendere tra le parti in causa, ha natura amministrativa (Cass.
11 giugno 2018, n. 15111); su tali presupposti il collegio ritiene di aderire
alla tesi restrittiva che non ritiene ammissibile la deduzione della
corrispondente questione come ragione di impugnazione, stante l’indifferenza
della controparte del giudizio rispetto ad essa e la piena possibilità di
affrontare la medesima, se del caso, attraverso la contestazione, nelle sedi
proprie, della pretesa che si ritenesse indebitamente esercitata
dall’Amministrazione a tale titolo; neppure può condividersi il timore che ciò
comporti un indebito prolungamento dei tempi di giustizia (in guanto non è
detto – ed è anzi improbabile – che l’Amministrazione, pur a fronte di una
erronea dichiarazione sui presupposti processuali del raddoppio, lo persegua
ugualmente, stante il fatto che la duplicazione di un importo pari a zero, dà
comunque zero come risultato, mentre consentire che tale profilo possa essere
oggetto di impugnazione prolunga senza dubbio il processo con riferimento a
controparti del giudizio che sono del tutto estranee alla questione stessa) né
la perdita della tutela giurisdizionale (in guanto come detto la dichiarazione
giudiziale ha mera valenza amministrativa, priva di effetti preclusivi sulle
pretese che l’una o l’altra parte del rapporto obbligatorio possono far valere
nelle sedi giurisdizionali competenti); il motivo va dunque dichiarato
inammissibile;

le spese del giudizio di cassazione restano regolate
secondo soccombenza; l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato
per il giudizio di cassazione è stata respinta dal Consiglio dell’Ordine,
sicché nulla osta alla declaratoria della sussistenza dei presupposti
(processuali) per il raddoppio della contribuzione, ove dovuta secondo la
disciplina, anche reddituale, che regola l’istituto;

 

P.Q.M.

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente
al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in euro 4,500,00 per compensi ed euro 200,00 per
esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il
ricorso, a norma del comma 1-bis
dello stesso art. 13″.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 novembre 2019, n. 29424
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