Alla successione nell’appalto di un servizio di ristorazione, con subentro nella gestione di locali e attrezzature di proprietà del committente si applica la disciplina del trasferimento d’azienda.
Nota a App. Trento 5 agosto 2019, n. 75
Francesca Albiniano
In caso di passaggio fra cedente e cessionario di un insieme di beni materiali e immateriali complessivamente considerato, finalizzato e necessario all’esercizio di una medesima stabile attività oggetto dei capitolati di appalto (come un servizio di ristorazione), si applica la disciplina del trasferimento d’azienda ex art. 2112, co.1, c.c., secondo cui il “il rapporto di lavoro continua con il cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”.
È quanto statuito dalla Corte di Appello di Trento 5 agosto 2019, n. 75 (di conferma di Trib. Trento 5 febbraio 2019, n. 29, annotata in questo sito da M.N. BETTINI, Cambio di appalto e trasferimento d’azienda) la quale chiarisce che diversamente dal cambio di appalto, “con il trasferimento d’azienda si verifica un fenomeno di successione del nuovo datore di lavoro nello stesso rapporto di lavoro subordinato, con conservazione (nei limiti di cui al co. 3, art. 2112 c.c.) di tutte le posizioni giuridiche soggettive attive dei lavoratori, ad iniziare dalla anzianità di servizio, e con responsabilità solidale per i crediti maturati di cedente e cessionario”.
La diversa disciplina del contratto di appalto e del trasferimento di azienda riflette la differente considerazione dei due fenomeni da parte del legislatore nazionale e di quello eurounitario.
Il cambio di appalto realizza infatti “un avvicendamento nello svolgimento di una attività nell’interesse del medesimo committente con una propria organizzazione aziendale”. In relazione a tale organizzazione risulta prevalente l’interesse di tutelare la concorrenza e la libera impresa, rispetto all’interesse alla salvaguardia del livello occupazionale affidata alla contrattazione collettiva e alle cd. “clausole sociali”.
Invece, con il trasferimento di azienda si verifica “l’acquisizione (in via definitiva o temporanea) di una organizzazione imprenditoriale esistente come entità operante sul mercato rispetto alla quale prevale l’esigenza di mantenere la continuità dei rapporti di lavoro” poiché si esclude “che la vicenda successoria possa di per sé stessa essere causa legittima di licenziamento”.
Sia la Direttiva 2001/23/CE (art. 1, co. 1, lett. b)) che l’art. 2112, co. 5, c.c., utilizzando formule analoghe, riconducono il trasferimento di azienda ad un’attività economica preesistente al trasferimento stesso che, dopo la cessione contrattuale o la fusione, mantenga la propria identità (in questo senso v. CGUE 20 novembre 2003, C- 340/01; CGUE 11 marzo 1997, C-13/95).
Per configurare un trasferimento d’azienda occorre dunque verificare in concreto se il complesso dei beni organizzati dal primo imprenditore conservi la sua essenza, indipendentemente dal nomen iuris dell’atto circolatorio. Ed il giudice, qualora accerti “la sussistenza di un trasferimento d’azienda pur in un caso formalmente riconducibile al cambio di appalto, deve applicare la disciplina di cui all’art. 2112 c.c., indipendentemente dalla qualificazione formale, non trattandosi di disciplina nella disponibilità delle parti”.
Ordinariamente, il “passaggio di un’entità aziendale che mantiene la propria identità di organizzazione imprenditoriale di beni e servizi” è “attuato attraverso strumenti contrattuali che pongono in relazione immediata cedente e cessionario, con un acquisto a titolo derivativo del diritto di proprietà o di gestione temporanea dell’attività”.
Tale elemento, tuttavia, non è indefettibile. E’ cioè irrilevante la circostanza che nella fattispecie in esame vi sia o meno un negozio traslativo: purché vi sia un “passaggio sostanziale di beni di non trascurabile entità organizzati e finalizzati all’esercizio di una attività di impresa non labour intensive”, la disciplina da applicare è quella del trasferimento d’azienda, all’art. 2112 c.c., indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalle parti o dalla mediazione di un terzo ed anche laddove si riscontrino eventuali indici di discontinuità marginali che, complessivamente considerati, non siano idonei a incidere sulla natura del fenomeno circolatorio.
La previsione del nuovo co .3, art. 29, D.LGS. n. 276/2003, secondo la quale va escluso un trasferimento d’azienda quando siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, costituisce una sorta di presunzione relativa che pone in capo al nuovo appaltatore l’onere di dimostrare che non vi sia identità tra la sua attività e quella svolta dall’appaltatore uscente. E, per valutare il rilievo di tali elementi occorre evidentemente “effettuare un raffronto tra l’entità economica, così come strutturata e organizzata presso il cedente e quella risultante dopo il trasferimento in capo al cessionario” (CGUE 20 novembre 2003, C-340/01, cit.; CGUE 11 marzo 1997, C-13/95, cit., Corte di Giustizia, 18 marzo 1986, C-24/85).