Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 novembre 2019, n. 29460
Riconoscimento della protezione internazionale, Status di
rifugiato, Permesso di soggiorno per motivi umanitari, Presupposti necessari
Fatti di causa
C.A., cittadino del Gambia, impugnò dinanzi al
Tribunale di Trieste la decisione della Commissione territoriale per il
riconoscimento della protezione internazionale, che gli aveva negato il
riconoscimento dello status di rifugiato e la protezione sussidiaria, e aveva
altresì respinto l’ulteriore richiesta di rilascio del permesso di soggiorno
per motivi umanitari.
Esito negativo sortì il ricorso in primo grado,
laddove la Corte d’appello di Trieste, in parziale accoglimento dell’appello,
ha riconosciuto la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di
soggiorno per motivi umanitari. A sostegno della decisione ha fatto leva sul
radicamento in Italia, dove il migrante studia e coltiva I suoi principali
legami sociali, mentre in Gambia non ha rapporti familiari di rilievo.
Contro la sentenza ha proposto ricorso il Ministero
dell’interno per ottenerne la cassazione, che ha affidato a un unico motivo,
cui il cittadino gambiano ha reagito con controricorso.
In esito all’adunanza camerale nella quale era stato
fissato il giudizio, il collegio ha sollecitato il contraddittorio sul regime
intertemporale del d.l. 4 ottobre 2018, n. 113,
poi convertito con I. 1 dicembre 2018, n. 132,
entrato in vigore nelle more. Le parti così sollecitate hanno depositato
memorie e altrettanto ha fatto la Procura generale.
A seguito di quest’interlocuzione il collegio ha
ravvisato ragioni di disaccordo con l’orientamento che la sezione aveva di
recente espresso sia in ordine al limiti di applicazione del d.l. n. 113/18, sia in relazione al presupposti
necessari per il rilascio di permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Ne è scaturita l’ordinanza 3 maggio 2019 n. 11750
con la quale si è sottoposta al Primo Presidente l’opportunità di demandare la
cognizione delle questioni alle sezioni unite, cui ha fatto seguito la
fissazione dell’odierna udienza, in prossimità della quale il Ministero e il
migrante, il secondo tardivamente, hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. – Con l’unico motivo di ricorso il Ministero
dell’interno ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 del d.lgs. 28 gennaio 2008,
n. 25 e dell’art. 5, comma 6,
del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, là dove il giudice d’appello ha
ravvisato i seri motivi umanitari idonei al riconoscimento del relativo
permesso contentandosi del fatto che il richiedente stia svolgendo gli studi in
Italia e ivi coltivi i propri principali legami sociali.
1.1. – La soluzione della questione postula per un
verso la permanente configurabilità del permesso per seri motivi umanitari e
richiede per altro verso l’individuazione della rilevanza, in seno ai seri
motivi umanitari, dell’integrazione sociale.
Su entrambi gli aspetti si diffonde l’ordinanza
interlocutoria indicata in narrativa, manifestando dissenso rispetto agli
orientamenti al riguardo emersi all’interno della prima sezione civile.
2. – Quanto al primo dei due aspetti, ossia a quello
concernente il regime normativo applicabile, rileva il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, conv., con
modificazioni, con I. 1 dicembre 2018, n. 132,
che ha disciplinato ex novo la materia già regolata dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. n.
286/98, il quale vietava il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno
quando comunque ricorressero «seri motivi, in particolare di carattere
umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato
italiano»: su questa norma si è fondato l’istituto della protezione umanitaria.
La norma era richiamata dall’art. 32, comma 3, del d.lgs. n.
25/08, secondo il quale «nei casi in cui non accolga la domanda di
protezione internazionale e ritenga che possano sussistere gravi motivi di
carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al
questore per l’eventuale rilascio del permesso dì soggiorno ai sensi dell’art. 5, comma 6, del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286».
2.1. – Ad avviso del legislatore della novella la
definizione di protezione umanitaria, dai contorni incerti, ha lasciato
«…ampi margini ad una interpretazione estensiva in contrasto con il fine di
tutela temporanea di esigenze di carattere umanitario per il quale l’istituto è
stato introdotto nell’ordinamento» (così si legge a pag. 3 della relazione di
accompagnamento del decreto). Si è quindi ritenuto necessario «…delimitare
l’ambito di esercizio di tale discrezionalità alla individuazione e valutazione
della sussistenza di ipotesi predeterminate nella norma» (ibid.).
Così il d.l. n. 113/18
ha sistematicamente disposto l’espunzione da ogni disposizione, legislativa o
regolamentare, di qualsivoglia riferimento al permesso di soggiorno per motivi
umanitari, ha abrogato la disposizione, sopra indicata, contenuta nell’art. 5 comma 6 del d.lgs. n. 286/98
e ha introdotto alcune ipotesi nominate di titoli di soggiorno, ossia:
– il permesso di soggiorno per calamità naturale,
regolato dal nuovo art. 20-bis del
d.lgs. n. 286/98, a fronte di una situazione di «contingente ed eccezionale
calamità naturale che non consente il rientro in condizione di sicurezza» nel
Paese d’origine;
– Il permesso di soggiorno per atti di particolare
valore civile, previsto dal nuovo art.
42-bis del medesimo decreto;
– il permesso di soggiorno per cure mediche,
inserito con la lettera d-bis)
dell’art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 286/98, relativo a «stranieri che
versano in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante
idonea documentazione, tali da non consentire di eseguire il provvedimento di
espulsione senza arrecare un irreparabile pregiudizio alla salute degli
stessi».
2.2. – Sono rimasti fermi altri titoli di soggiorno
riconducibili a esigenze umanitarie, tra i quali quello in favore delle vittime
di violenza domestica (art. 18-bis
del d.lgs. n. 286/98) e di sfruttamento lavorativo (art. 22, comma 12-quater, del
medesimo decreto), nonché quelli in favore dei minori (artt. art. 28, lettere a-b, del
d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 e 31 del d.lgs. n. 286/98).
2.3. – Accanto a questi permessi il legislatore ha
introdotto una nuova forma di protezione, denominata speciale: il testo
novellato dell’art. 32, comma 3,
del d.lgs. n. 25/08 prevede che le Commissioni territoriali trasmettano gli
atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno annuale che reca
la dicitura “protezione speciale”, qualora non sia accolta la domanda
di protezione internazionale, ma comunque sussistano i presupposti previsti
dall’art. 19, commi 1 e 1.1, del
d.lgs. n. 286/98, salvo che possa disporsi l’allontanamento verso uno Stato
che provvede ad accordare una protezione analoga.
La protezione speciale è quindi configurata come
norma di chiusura, in ideale contrattare all’apertura del catalogo dei seri
motivi già contemplati dall’art.
5, comma 6, del d.lgs. n. 286/98.
2.4. – La costruzione di questa norma è diversa da
quella precedente ed evidenzia il mutamento dell’approccio del legislatore.
Nella disciplina abrogata i seri motivi umanitari
costituivano il titolo per rimanere in Italia.
In quella odierna la protezione speciale si traduce
nel diritto di non essere allontanati, espressione del divieto di refoulement.
L’art. 19, commi 1 e 1.1., del
d.lgs. n. 286/98 stabilisce difatti che:
«1. In nessun caso può disporsi l’espulsione o il
respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di
persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero
possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia
protetto dalla persecuzione.
1.1. Non sono ammessi il respingimento o
l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano
fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura.
Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale
Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani».
2.5. – Diverso è anche il regime delineato dal
diritto sopravvenuto.
Il permesso di soggiorno per motivi umanitari aveva
la durata di due anni, rinnovabile, ed era convertibile in permesso per motivi
di lavoro (art. 14, comma 1,
lett. c), e comma 3, del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394) e per motivi
familiari (art. 30, comma 1,
lett. b), del d.lgs. n. 286/98).
La nuova protezione speciale, invece, ha durata di
un anno, rinnovabile, previo parere della competente Commissione territoriale e
non consente la conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.
E ciò, si è visto, al fine di scongiurare le
‘Interpretazioni estensive” della protezione temporanea per ragioni umanitarie.
2.6. – La novella contiene al riguardo due sole
disposizioni transitorie:
– in virtù della prima (art. 1, comma 8) i permessi
di soggiorno per motivi umanitari già rilasciati restano validi e continuano a
essere regolati secondo la disciplina precedente fino alla foro naturale
scadenza, salva la possibilità di conversione in altro tipo di permesso di
soggiorno; una volta scaduti non potranno essere rinnovati, ma, ricorrendone I
presupposti, ossia il rischio di persecuzione o il rischio di tortura, sarà
rilasciato il permesso per “protezione speciale”;
– in base alla seconda (art. 1, comma 9) qualora
siano in corso procedimenti in cui le Commissioni territoriali abbiano già
ritenuto la sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario, dovrà essere
rilasciato un permesso di soggiorno “per casi speciali” della durata
di due anni, convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro
autonomo o subordinato, alla scadenza del quale si applicherà la medesima disciplina
prevista nel precedente comma.
3. – Non è espressamente regolata la sorte del caso
che si è verificato nell’odierno giudizio, in cui il permesso è stato denegato
dalla Commissione territoriale e riconosciuto dal giudice antecedentemente
all’entrata in vigore del d.l. n. 113/18.
Ineludibile è quindi il ricorso alle regole che
scandiscono la successione delle leggi net tempo.
3.1. – In base all’orientamento generalmente assunto
da questa Corte (con sentenza 4 febbraio 2019, n. 4890, seguita da Cass. 2
aprile 2019, n. 9090; 5 aprile 2019, n. 9650; 10 aprile 2019, n. 10107; 18
aprile 2019, n. 10922; 2 maggio 2019, nn. 11558, 11559, 11560, 11561; 3 maggio
2019, n. 11593; 8 maggio 2019, n. 12182; 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13082; 20
maggio 2019, nn. 13558, 13560, 13561; 22 maggio 2019, nn. 13883 e 13884; 24
maggio 2019, n. 14278; 19 giugno 2019, nn. 16457, 16460, 16461, 16462, 16463 e
16464; 27 giugno 2019, nn. 17306, 17308, 17310, 17311; 5 luglio 2019, nn.
18208, 18211, 18212, 18213 e 18214 e applicata, a quanto consta, dalla parte
preponderante della giurisprudenza di merito) la disciplina dinanzi indicata
contenuta nella normativa introdotta con il d.l.
n. 113 del 2018, come convertito, non trova applicazione in relazione a
domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari
proposte; prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) delle nuove norme.
3.2. – A sostegno della decisione la Corte ha fatto
leva sul principio d’irretroattività della legge, stabilito dall’art. 11 delle preleggi, che non può soffrire di
deroga al cospetto del mutamento, dovuta a diritto sopravvenuto, del fatto
generatore del diritto azionato o delle conseguenze giuridiche, attuali o
future, di esso.
Nel caso in questione, difatti, ha argomentato la
Corte, il diritto del cittadino straniero di ottenere un titolo di soggiorno
fondato su “seri motivi umanitari” desumibili dal quadro degli
obblighi costituzionali e internazionali assunti dallo Stato è già sorto
antecedentemente all’entrata in vigore del d.l. n.
113/18, per effetto del verificarsi delle condizioni di vulnerabilità e la
proposizione della domanda ne ha cristallizzato il paradigma legale, che non
può essere modificato per effetto della successione delle leggi nel tempo; e
ciò in aderenza al principio generale di ragionevolezza, che impedisce
d’introdurre ingiustificate disparità di trattamento, nonché a esigenze di tutela
del legittimo affidamento, connaturato allo Stato di diritto.
3.3. – Sul punto, sottolinea la Corte, irragionevole
sarebbe discriminare il trattamento giuridico di situazioni giuridiche
sostanziali simili, date dalla sussistenza dei presupposti d’insorgenza del
diritto a ottenere il rilascio del permesso per ragioni umanitarie, per il solo
fatto, del tutto eventuale, che esso sia già stato rilasciato o vi sia stata
delibazione favorevole della Commissione territoriale antecedentemente
all’entrata in vigore del d.l. n. 113/18.
3.4. – Benché, peraltro, Il diritto sia già sorto,
prosegue la Corte, la fase della sua attuazione non potrà che essere
disciplinata dal diritto sopravvenuto; sicché, ha concluso, va riconosciuto,
sussistendone i presupposti, il titolo di soggiorno sostenuto da ragioni
umanitarie in base a una domanda proposta antecedentemente all’entrata in
vigore del d.l. n. 113/18, ma la disciplina e
la durata di esso dovranno seguire le prescrizioni del d.l. n. 113/18, e specificamente dell’art. 1,
comma 9, di esso, unica fonte normativa applicabile al momento
dell’accertamento giudiziale del diritto.
4. – Con l’ordinanza interlocutoria è contestata
anzitutto la tenuta di quest’orientamento.
Si obietta che l’applicazione del diritto
sopravvenuto, compresa l’espunzione dall’ordinamento del permesso di soggiorno
per motivi umanitari, ai giudizi già in corso non sarebbe affatto retroattiva.
Ci si limiterebbe ad applicare in quel momento, in
cui il procedimento volto al riconoscimento del diritto è ancora pendente, le
norme vigenti e quindi obbligatoriamente applicabili, in base agli artt. 73 Cost. e 10
delle preleggi.
Il che acquisirebbe ancor maggior forza in base alla
considerazione che il diritto sopravvenuto trova fonte in un decreto legge, che
per definizione normativa (dettata dall’art. 15, comma 3, della I. 23
agosto 1988, n. 400) deve «contenere misure di immediata applicazione».
4.1. – D’altronde, si sottolinea con l’ordinanza
interlocutoria, il ragionamento seguito dall’orientamento dominante rivelerebbe
la propria intrinseca contraddittorietà quando, dopo aver negato
l’applicabilità ai giudizi in corso del diritto sopravvenuto, comunque finisce
per applicarlo, in relazione al nomen e alla durata del permesso da rilasciare:
sicché, si rimarca, si finirebbe col creare una norma transitoria nuova, data
dalla commistione di norme diverse.
5. – Merita adesione l’orientamento maggioritario
affermatosi nella giurisprudenza di questa Corte.
5.1. – Indubbiamente in base alla combinazione dell’art. 73 Cost. e dell’art.
10 delle preleggi il tempo dell’applicabilità della legge non può che
coincidere con quello del vigore di essa; sicché effettivamente l’applicazione
immediata di una nuova norma è la regola vincolante per gli interpreti e non
richiede conferme nel testo normativo da applicare.
L’abrogazione determina, però, la perdita di vigore
per il futuro; per cui non si può escludere l’applicabilità della legge
abrogata per il passato, ossia per il periodo anteriore all’abrogazione: la
legge abrogata, semplicemente, è dotata di efficacia temporalmente limitata,
nel senso che la disciplina ivi stabilita concerne, di norma, i soli fatti che
si siano verificati antecedentemente all’abrogazione, quando, cioè, essa era
ancora applicabile.
5.2. – La nuova norma, divenuta vigente, è
senz’altro immediatamente applicabile; ma quel che si discute è se essa sia, o
no, retroattiva.
Rileva, allora, il principio generale
d’irretroattività, che non gode di copertura costituzionale nella materia in
questione, ma che è pur sempre stabilito, salvo deroghe, dall’art. 11 delle preleggi.
Esso, di là da distinzioni, di rilievo eminentemente
descrittivo, tra retroattività in senso proprio e retroattività in senso improprio,
è volto a tutelare non già fatti, bensì diritti: quel che il divieto di
retroattività garantisce è il divieto di modificazione della rilevanza
giuridica dei fatti che già si siano compiutamente verificati (nel caso di
fattispecie istantanea) o di una fattispecie non ancora esauritasi (nel caso di
fattispecie durevole non completata all’epoca dell’abrogazione).
La retroattività consente alla legge di regolare
diversamente fatti avvenuti precedentemente, quando la legge vigente era
un’altra: essa, quindi, postula la vigenza della legge successiva, ma non si
esaurisce in essa, in quanto, per mezzo della retroattività, la legge
successiva amplia a ritroso il tempo della propria applicabilità.
L’applicabilità ai giudizi già in corso del d.l. n. 113/18 implicherebbe quindi, e
ineludibilmente, la retroattività in parte qua del decreto.
5.3. – A differenza di quanto si sostiene con
l’ordinanza interlocutoria, secondo cui la protezione umanitaria è «una
fattispecie complessa e a formazione progressiva, come chiaramente si desume
dal fatto che essa consiste in un permesso deI quale l’ordinamento postula che
si verifichino I presupposti nell’ambito di un apposito procedimento» (punto
4.3.2), il procedimento non incide affatto sull’insorgenza del diritto, che, se
sussistente, è pieno e perfetto e nelle forme del procedimento è soltanto
accertato; se insussistente, esso non potrà nascere per effetto dello
svolgimento del procedimento.
5.3.1. – Il diritto sorge quando si verifica la situazione
di vulnerabilità quale sussumibile nella fattispecie allora vigente e
irrilevante è che esso non comporti il riconoscimento di uno status, ma una
protezione temporanea,
5.3.2. – La verifica all’attualità delle condizioni
per il rilascio dei permesso di soggiorno, sollecitata dal riferimento alle
«informazioni precise e aggiornate» contenuto nel comma 3 dell’art. 8 del d.lgs. n.
25/08, non è espressione della natura costitutiva dell’accertamento, affermata
con l’ordinanza interlocutoria, ma dell’estensione dei poteri di accertamento.
Al momento della decisione devono sussistere i presupposti di fatto per
l’accoglimento della domanda, ossia deve risultare la fondatezza di essa; ma,
in virtù dell’irretroattività della novella, è salvaguardato il diritto che la
rilevanza giuridica di tali fatti risponda alle norme previgenti.
5.4. – Questa ricostruzione è consolidata nella
giurisprudenza delle sezioni unite.
Come ripetutamente affermato (si vedano, fra le più
recenti, Cass., sez. un., 29 gennaio 2019, n. 2441; 19 dicembre 2018, nn.
32778, 32777, 32776, 32775 e 32774; 28 novembre 2018, nn. 30758, 30757; 27
novembre 2018, n. 30658), la situazione giuridica soggettiva dello straniero
nei confronti del quale sussistano i presupposti per il riconoscimento della
protezione umanitaria ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i
diritti umani fondamentali garantiti dagli artt. 2
Cost. e 3 della convenzione
europea dei diritti dell’uomo. Essa non è pertanto degradarle a interesse
legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere
amministrativo, in seno al relativo procedimento: all’autorità amministrativa è
richiesto soltanto l’accertamento dei presupposti di fatto che danno luogo alla
protezione umanitaria, nell’esercizio di mera discrezionalità tecnica, poiché
il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate
è riservato al legislatore.
5.5. – Il procedimento amministrativo è sì atto
necessario, ma pur sempre esprime, in base al modello generale, esercizio di
attività vincolata, ricognitiva della sussistenza dei presupposti determinati
dalla legge.
Sinanche la nullità del provvedimento amministrativo
di diniego reso dalla commissione territoriale sarebbe del tutto irrilevante,
poiché la natura di diritto soggettivo al riconoscimento della protezione
umanitaria impone che il procedimento giurisdizionale giunga alla decisione
sulla spettanza, o non, del diritto stesso, senza potersi limitare al mero
annullamento del diniego amministrativo (Cass. 21 novembre 2018, n. 30105; 22
marzo 2017, n. 7385; 3 settembre 2014, n. 18632).
Il diritto unionale, d’altronde, sia pure con
riferimento allo status di rifugiato, stabilisce (considerando 21 della
direttiva n. 2011/95) che il relativo riconoscimento è atto ricognitivo e che
la conseguente qualità non dipende dal riconoscimento (Corte giust., grande
sezione, 14 maggio 2019, cause C-391/16, C-77/17 e C-78/18, punto 92).
6. – Tutte le protezioni sono quindi ascrivibili
all’area dei diritti fondamentali, sia quelle maggiori (ossia il riconoscimento
dello status di rifugiato e la protezione sussidiaria), sia quella, residuale e
temporanea, per ragioni umanitarie (in termini, tra varie, Cass., sez. un., 12
dicembre 2018, n. 32177 e 11 dicembre 2018, nn. 32045 e 32044).
E tutte le protezioni, compresa quella umanitaria,
sono espressione del diritto di asilo costituzionale.
6.1. – Se ne legge conferma, pure da ultimo, nella
giurisprudenza costituzionale, secondo la quale la protezione umanitaria,
insieme con la tutela dei rifugiati e la protezione sussidiaria, attua il
diritto di asilo costituzionale ex art. 10, comma
3, Cost. (Corte cost. 24 luglio 2019, n. 194). Il che vale anche per i
nuovi istituti, l’interpretazione e – l’applicazione dei quali devono
rispettare la Costituzione e i vincoli internazionali, «nonostante
l’intervenuta abrogazione dell’esplicito riferimento agli “obblighi
costituzionali o internazionali dello Stato italiano” precedentemente
contenuto nell’art. 5, comma 6, del t.u. immigrazione» (così ancora Corte cost.
n. 194/19).
6.2. – Recessivo risulta l’approccio seguito con
l’ordinanza interlocutoria, secondo cui la riconducibilità del permesso per
motivi umanitari nell’alveo dell’asilo costituzionale non gioverebbe
all’orientamento dominante, in considerazione della discrezionalità del
legislatore, perché l’art. 10 Cost. prevede il
diritto d’asilo «secondo le condizioni stabilite dalla legge».
Il diritto di asilo scaturisce direttamente dal
precetto costituzionale e si colloca, come ha osservato sin da epoca risalente
autorevole dottrina, in seno all’apertura amplissima della Costituzione verso i
diritti fondamentali dell’uomo.
Il diritto di asilo è quindi costruito come diritto
della personalità, posto a presidio di Interessi essenziali della persona e non
può recedere al cospetto dello straniero bisognoso di aiuto, che, allegando
motivi umanitari, invochi il diritto di solidarietà sociale: i diritti
fondamentali dell’uomo spettano ai singoli non in quanto partecipi di una
determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani, sicché la condizione
giuridica dello straniero non può essere considerata ragione di trattamenti
diversificati e peggiorativi (Corte cost. 10 aprile 2001, n. 105; 8 luglio 2010, n. 249).
Le condizioni che possono essere definite per legge,
necessariamente conformi alle altre norme costituzionali e internazionali,
allora, sono quelle chiamate a regolare il soggiorno dell’esule, la definizione
dei criteri di accertamento dei requisiti richiesti per l’asilo e le modalità
del relativo procedimento di accertamento.
Di qui la coerenza del consolidato orientamento
della giurisprudenza di queste sezioni unite delle quali si è dato conto, che
relegano la discrezionalità, anche del legislatore, al solo accertamento e
all’individuazione delle modalità di esercizio del diritto.
Quanto alla preoccupazione espressa dal collegio
rimettente che, a seguire quest’orientamento, il giudice potrebbe giungere a
riconoscere la protezione internazionale anche ai richiedenti responsabili di
gravi reati, non previsti dalla normativa precedente, ma da quella
sopravvenuta, può bastare, per superarla, il riferimento alla giurisprudenza
unionale: la grande sezione della Corte di giustizia ha pure di recente
sottolineato (con sentenza 14 maggio 2019, cause C-391/16, C-77/17 e C-78/17,
cit.) che, anche in caso di rifiuto del riconoscimento o di revoca dello status
di rifugiato per ragioni di pericolo per la sicurezza o per la comunità dello
Stato membro ospitante, è possibile autorizzare il soggiorno nel territorio
dello Stato membro «in base a un altro fondamento giuridico» (punto 106).
6.3. – Irrilevante è altresì l’obiezione mossa con
l’ordinanza interlocutoria secondo cui occorrerebbe dimostrare che la
sommatoria delle forme di protezione attualmente vigenti sia insufficiente a
garantire il nucleo minimo dell’asilo costituzionalmente garantito dalla
Costituzione.
Ininfluente è che sia garantito il nucleo minimo
dell’asilo costituzionalmente protetto, giacché la rilevanza del relativo
diritto ne merita la massima espansione.
La scelta italiana di garantire una terza forma di
tutela complementare alle due protezioni maggiori riconosciute dal diritto
unionale trova d’altronde legittimazione – anche – nel sistema europeo: la direttiva n. 2008/115/CE (c.d. direttiva sui
rimpatri) stabilisce (art. 6, paragrafo 4) che
«In qualsiasi momento gli Stati membri possono
decidere di rilasciare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura un
permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il
diritto di soggiornare a un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel
loro territorio è irregolare. In tali casi non è emessa la decisione di
rimpatrio. Qualora sia già stata emessa, la decisione di rimpatrio è revocata o
sospesa per il periodo di validità del titolo di soggiorno o di un’altra
autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare».
6.4. – In questo contesto di rilevanza
costituzionale, sarebbe ben difficile prospettare la retroattività delle
disposizioni abrogatrici dell’art.
5, comma 6, del d.lgs. n. 286/98. Prospettazione, questa, prodromica e
comunque autonoma rispetto alle valutazioni sulla legittimità della scelta di
retroattività.
6.5. – A indirizzare la scelta ermeneutica sulla natura
della disposizione senz’altro milita la considerazione che la retroattività
debba trovare «adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza
attraverso un puntuale bilanciamento tra le ragioni che ne hanno motivato la
previsione e i valori, costituzionalmente tutelati, al contempo potenzialmente
lesi dall’efficacia a ritroso della norma adottata» (così, in particolare,
Corte cost. 22 febbraio 2017, n. 73, nonché, tra le ultime, 12 luglio 2019, n. 174).
Laddove, nel caso in esame, la diversa valutazione
giuridica dei fatti già accaduti, e posti a base del riconoscimento per via
giudiziale del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per ragioni
umanitarie, ossia, appunto, la retroattività, conseguirebbe l’effetto di
escludere il diritto al rilascio del permesso in questione, della cui inerenza
all’area dei diritti fondamentali nella stessa ordinanza interlocutoria non si
dubita. Effetto, che, al cospetto della riduzione dell’area di tutela che il
legislatore della riforma intende perseguire, scoraggiando, come si è visto,
interpretazioni estensive dell’istituto della protezione umanitaria,
rischierebbe di entrare in frizione con la tenuta dei valori costituzionalmente
tutelati.
6.6. – Non è, allora, affatto ovvia, come si
prospetta con l’ordinanza, la deduzione, tratta dalla disposizione transitoria
contenuta nell’art. 1, comma 9,
del d.l. n. 113/18, come convertito, che il legislatore avrebbe inteso
escludere che alle situazioni pendenti siano da applicare le norme ormai
abrogate. Al contrario; la consistenza della situazione soggettiva già maturata
e le criticità di tenuta costituzionale della scelta di retroattività impongono
di pervenire alla soluzione opposta.
6.7. – Né infine giova alla tesi ivi sostenuta il
riferimento all’orientamento (affermato, in particolare, da Cass., sez. un., 28
novembre 2016, n. 21691, seguita, tra varie, da Cass. 28 febbraio 2017, n.
5226), che ammette l’applicazione del ius superveniens ai giudizi in corso,
anche qualora sia intervenuto dopo la notificazione del ricorso per cassazione.
Ciò perché la giurisprudenza citata si riferisce chiaramente al caso in cui la
legge sopravvenuta sia dotata di efficacia retroattiva.
7. – Benché il diritto di asilo nasca quando il
richiedente faccia ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità che
mettano a repentaglio l’esercizio dei propri diritti fondamentali, è la
presentazione della domanda che identifica e attrae il regime normativo della protezione
per ragioni umanitarie da applicare.
è con la domanda in sede amministrativa che il
titolare del diritto esprime il bisogno di tutela, e il bisogno di tutela per
ragioni umanitarie va regolato secondo le modalità previste dal legislatore
nazionale: sicché è quella domanda a incanalare tale bisogno nella sequenza
procedimentale dettata dal legislatore nell’esercizio della discrezionalità a
lui rimessa ed è quindi il tempo della sua presentazione a individuare il
complesso delle regole applicabili.
7.1. – Se ne trova chiara traccia nel diritto
positivo: stabilisce l’art. 3 del
d.P.R. 12 gennaio 2015, n. 21, il quale detta il regolamento relativo alle
procedure per il riconoscimento e la revoca della protezione internazionale, a
norma dell’art. 38, comma 1, del
d.lgs. n. 25/08, che «2. Quando la volontà di chiedere la protezione
internazionale è manifestata all’ufficio di polizia di frontiera all’ingresso
nel territorio nazionale, tale autorità invita formalmente lo straniero a
recarsi al più presto, e comunque non oltre otto giorni lavorativi, salvo
giustificato motivo, presso l’ufficio della questura competente alla
formalizzazione della richiesta, informando il richiedente che qualora non si
rechi nei termini prescritti presso l’ufficio indicato, è considerato a tutti
ali effetti di legge irregolarmente presente nel territorio nazionale»:
aggiunge il comma 2, poi abrogato dal d.l. n.
113/18, del successivo art. 6 che «Nei casi di cui alle lettere b) e c) del
comma 1, la Commissione, se ritiene che sussistono gravi motivi di carattere
umanitario trasmette gli atti al questore per il rilascio del permesso di
soggiorno di durata biennale ai sensi dell’articolo 32, comma 3, del
decreto».
Da un lato, il crisma della regolarità non può che
derivare dal complesso di norme In quel momento in vigore; dall’altro, gli
“elementi utili all’esame” che il richiedente è chiamato a indicare
in domanda (giusta l’art. 10 del d.lgs. n.
25/08) non possono che essere gli elementi da ritenere utili in base alle
regole allora vigenti.
7.2. – Non vale addurre che il principio di
eguaglianza sarebbe violato dalla differenziazione normativa tra coloro che
abbiano presentato la domanda entro il 5 ottobre 2018 e coloro che, pur
trovandosi nella medesima situazione, non l’abbiano fatto.
Spetta difatti alla discrezionalità del legislatore,
nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di
applicazione delle norme (tra varie, Corte cost. 8
novembre 2018, n. 194 e 23 maggio 2018, n. 104).
Ed è ragionevole che si applichino 1 regole diverse a seconda del momento in
cui il titolare della situazione soggettiva innesti il procedimento indirizzato
alla tutela di essa, diversamente disciplinato nel tempo dal legislatore.
7.3. – Irragionevole sarebbe, invece, assegnare
diverso trattamento normativo a situazioni soggettive sostanziali già sorte e
fatte valere con la domanda, per il solo fatto che qualcuna di esse, al momento
di entrata in vigore della novella, per ragioni che sfuggono alle possibilità
di controllo dei rispettivi titolari, sia stata già favorevolmente delibata nel
corso di un procedimento, il quale, va ribadito, è chiamato a svolgere mera
funzione ricognitiva.
La divaricazione delle tutele, destinata a durare e,
quindi, di carattere strutturale, sarebbe difatti incoerentemente ancorata a un
criterio eccentrico, perché contingente, rispetto alla fattispecie
disciplinata.
7.4. – Il legislatore della novella ha espresso la
volontà che, al cospetto della sussistenza dei presupposti per il rilascio del
permesso di soggiorno per motivi umanitari, i permessi già rilasciati restino
validi fino alla scadenza (art. 1,
comma 8, del d.l. n. 113/18) e gli accertamenti già compiuti – dalle
Commissioni territoriali – restino fermi, ai fini del rilascio di permessi di
durata biennale (art. 1, comma 9
del decreto).
Questa volontà annette quindi rilievo preminente
alla sussistenza di quei presupposti. L’interpretazione costituzionalmente
conforme della novella impone allora che, a fronte di tale sussistenza,
recessiva sia la circostanza che vi sia stato un accertamento, meramente
ricognitivo. Sicché non soltanto nel caso in cui, alla data di entrata in
vigore del d.l. n. 113/18, la Commissione
territoriale abbia già ritenuto la sussistenza dei gravi motivi di carattere
umanitario (come stabilito dall’art.
1, comma 9, del d.lgs. n. 113/18), ma anche in quello in cui l’accertamento
sia comunque in itinere il titolo di soggiorno dovrà rispondere alle modalità
previste dall’art. 1, comma 9, del
d.l. n. 113/18.
7.5. – E nessuna contraddizione sussiste in questo
ragionamento: la permanente rilevanza della protezione per seri motivi
umanitari o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato
Italiano discende dalla irretroattività della novella, che l’ha espunta
dall’ordinamento; il concreto atteggiarsi del permesso, che pur sempre risponde
a quella protezione, è dettato dall’interpretazione conforme a Costituzione,
che valorizza la volontà del legislatore, coerente con la natura ricognitiva
dell’accertamento.
8. – Il secondo aspetto che rileva nel caso in esame
concerne la possibilità di riconoscere il permesso di soggiorno per «seri
motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi
costituzionali o internazionali dello Stato italiano» anche al cittadino
straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale nel
nostro paese, in base a una valutazione comparativa effettiva con la situazione
oggettiva e soggettiva del richiedente nel paese d’origine.
Si obietta con l’ordinanza interlocutoria che questa
valutazione comparativa ha contenuto vago e indefinito e che prima ancora lo
stesso parametro dell’integrazione sociale ha basi normative assai fragili, in
mancanza di disposizioni che ne facciano menzione.
8.1. – Al fondo delle obiezioni v’è anche il dubbio
in ordine alla relazione tra le due protezioni maggiori, di matrice unionale, e
la terza, temporanea e complementare, poiché si paventa un’impropria
sovrapposizione della tutela umanitaria prevista dal diritto nazionale a quelle
previste dal diritto unionale.
9. – È il diritto unionale a delineare l’actio
finium regundorum tra le protezioni maggiori e quella umanitaria prevista dal
diritto nazionale.
La giurisprudenza unionale (Corte giust., grande
sezione, 9 novembre 2010, cause C-57/09 e
C-101/09) ha chiarito che, come risulta dall’art. 2, lett. g), della c.d.
direttiva qualifiche (direttiva n. 2011/95/UE), essa non osta a che una persona
chieda di essere protetta nell’ambito di un «diverso tipo di protezione» che
non rientra nel relativo ambito di applicazione. E ciò perché la direttiva
muove dal principio che gli Stati membri di accoglienza possono accordare, in
conformità del loro diritto nazionale, una protezione nazionale accompagnata da
diritti che consentano alle persone escluse dallo status di rifugiato di
soggiornare nel territorio dello Stato membro considerato.
9.1. – Si è stabilito, tuttavia, che «Tale altro
tipo di protezione che gli Stati membri hanno la facoltà di accordare non deve
tuttavia poter essere confuso con lo status di rifugiato ai sensi della
direttiva, come giustamente sottolineato dalla Commissione. Pertanto, nei
limiti in cui le norme nazionali che accordano un diritto d’asilo a persone
escluse dallo status di rifugiato ai sensi della direttiva permettono di
distinguere chiaramente la protezione nazionale da quella concessa in forza
della direttiva, esse non contravvengono al sistema di quest’ultima» (punti
119-120).
9.2. – Non vi potrà essere spazio per la protezione
umanitaria, dunque, qualora i seri motivi evochino la situazione socio-politica
o normativa del Paese di provenienza correlata alla specifica posizione del
richiedente e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione
personale e diretta, per l’appartenenza a un’etnia, associazione, credo
politico o religioso, oppure in ragione delle proprie tendenze e stili di vita,
e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure
sanzionatone a carico della sua integrità psico-fisica (giusta i parametri
utili al riconoscimento dello status di rifugiato, da ultimo ribaditi da Cass. n. 30105/18, cit.).
9.3. – Analoghe precisazioni hanno riguardato i
rapporti tra diritto umanitario e protezione sussidiaria.
L’art. 15 della direttiva qualifiche identifica
quali requisiti per l’ottenimento della protezione sussidiaria:
a) la condanna o l’esecuzione della pena di morte; o
b) la tortura o altra forma di pena o trattamento
inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; o
c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla
persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di
conflitto armato interno o internazionale.
La giurisprudenza unionale, con riguardo a quello
sub c), che presenta un sostrato comune col diritto umanitario, ha chiarito che
lo scopo del diritto umanitario è principalmente quello di garantire la
protezione dei civili in zone di conflitto, limitando gli effetti negativi
della guerra: «Le definizioni della nozione di conflitto armato accolte dal
diritto internazionale umanitario non mirano, quindi, ad identificare le
situazioni in cui una tale protezione sarebbe necessaria e dovrebbe essere
concessa dalle autorità competenti degli Stati membri» (Corte giust. 30 gennaio
2014, causa C-285/12, Diakité, punto 10.3).
La disciplina dell’Unione si concentra, quindi,
sulla concessione della protezione internazionale quando lo straniero abbia
superato il confine dello Stato di origine e sia venuta meno la protezione che
dovrebbe essere garantita dallo Stato di appartenenza: la direttiva qualifiche
utilizza l’espressione indistinta e complessiva di “conflitto armato
interno o internazionale” (art. 15, lett c), mentre nel diritto internazionale
umanitario i concetti di “conflitti armati internazionali” e
“conflitti armati che non presentano carattere internazionale” sono
alla base di regimi giuridici distinti.
9.4. – La locuzione “conflitto armato”
nella legislazione dell’Unione deve essere interpretata in conformità ai suo
significato nel “linguaggio corrente”, di modo che essa include
situazioni in cui ci siano scontri tra le forze di sicurezza dello Stato e uno
o più gruppi armati, o dove gli scontri siano tra due o più gruppi armati
(Corte giust. in causa C-254/12, punto 27).
9.5. – Se ne ricava che la protezione sussidiaria ha
per presupposto e condizione gli scontri che rappresentino una minaccia
personale grave alla vita o all’integrità fisica del ricorrente. Quanto più il
ricorrente è in grado di dimostrare di essere esposto a rischi, tanto minore è
il livello dì violenza indiscriminata richiesto per il riconoscimento della
protezione sussidiaria.
9.6. – La giurisprudenza di questa Corte ha già dato
puntuale applicazione ai principi fissati da quella unionale: si è così
stabilito (tra varie, Cass. 21 luglio 2017, n. 18130; 29 ottobre 2018, n.
27338; 15 maggio 2019, n. 13079 e 17 maggio 2019, n. 13454) che, ai fini del
riconoscimento della protezione sussidiaria, il grado di violenza
indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere
che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe,
per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta
minaccia. Il conflitto armato interno rileva quindi soltanto se,
eccezionalmente, si possa ritenere che gli scontri tra le forze governative di
uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano
all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente
la protezione sussidiaria.
9.7. – L’identificazione dei presupposti delle
protezioni maggiori esclude il rischio di improprie sovrapposizioni paventato
in ordinanza.
10. – Quanto ai presupposti utili a ottenere la
protezione umanitaria, non si può trascurare la necessità di collegare la norma
che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano.
Gli interessi protetti non possono restare
ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità
di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali;
sicché, ha puntualizzato questa Corte, l’apertura e la residualità della tutela
non consentono tipizzazioni (tra varie, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e
13096).
Le basi normative non sono, allora, affatto fragili,
ma a compasso largo: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col
sostegno dell’art. 8 della Cedu,
promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a
clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne
l’attuazione.
10.1. – Va quindi condiviso l’approccio scelto
dall’orientamento di questa Corte (Inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n.
4455, seguita, tra varie, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n.
12082/19, cit., nonché, a quanto consta, dalla preponderante giurisprudenza di
merito) che assegna rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado
d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e
oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il
rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei
diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità
personale.
10.2. – Non può, peraltro, essere riconosciuto al
cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari
considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di Integrazione In
Italia, né il diritto può essere affermato In considerazione del contesto di
generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in
relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072). Si
prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del
singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del
tutto generali ed astratti, di per sé inidonea al riconoscimento della
protezione umanitaria (Cass. 3 aprile 2019, n. 9304).
11. – In applicazione dei principi così dettati, il
ricorso proposto dal Ministero dev’essere accolto, in quanto la decisione del
giudice d’appello si è fondata sul solo elemento dell’attività di studio in
Italia e sull’apodittica affermazione, con formulazione generica, che il
migrante «coltiva i suoi principali legami sociali» e non svolge alcuna
concreta valutazione comparativa, limitandosi ad affermare che «in Gambia non
ha rapporti familiari di rilievo».
12. – In accoglimento del ricorso, la sentenza va
quindi cassata, con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di
Trieste, in diversa composizione, affinché rivaluti la questione alla luce dei
seguenti principi di diritto:
“In tema di successione delle leggi nel tempo
in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di
quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in
condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani
fondamentali e fa domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il
regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il d.l. n. 113 del 2018, convertito con l. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha
modificato la preesistente disciplina contemplata dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286
del 1998 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione
in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi
umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova
legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base della normativa
esistente al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi,
l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del
permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti
prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113 del
2018, convertito nella I. n. 132 del 2018,
comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per “casi speciali”
previsto dall’art. 1, comma 9,
del suddetto decreto legge”.
“In tema di protezione umanitaria,
l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento
della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione
soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in
raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di
accoglienza”.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e
rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Trieste in diversa
composizione.