Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 novembre 2019, n. 29889

Incorporazione società, Licenziamento intimato in conseguenza
di un appalto illecito di manodopera, Impugnazione, Artt. 18 della legge n. 300/1970
e 1, comma 47, della legge n.
92/2012

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 3803 del 12.7.2017 la Corte di
Appello di Roma ha respinto il reclamo proposto dalle società BNL-Banca
nazionale del lavoro s.p.a. e B.P.I. s.c.p.a. (successivamente fusa per
incorporazione nella prima società) e, confermando la sentenza emessa, ex art. 1, comma 57, della legge n. 92
del 2012 del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato la sussistenza di
un rapporto di lavoro subordinato tra le società e i lavoratori G.B., D.B.,
I.P., L.R., con illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro
meramente formale in conseguenza di un appalto illecito di manodopera.

2. La Corte territoriale ha preliminarmente ritenuto
condivisibile la decisione del Tribunale di considerare applicabile lo speciale
rito di cui all’art. 1, commi 47 e
ss. della legge n. 92 del 2012 anche alle impugnazioni di licenziamento in
cui si controverta dell’esatta identificazione del datore di lavoro. Nel
merito, valutato il materiale istruttorio concernente l’appalto endoaziendale
(consistente nell’affidamento all’appaltatore di servizi di facchinaggio,
ricerca e trattamento di documentazione), ha confermato la decisione del
giudice di primo grado che aveva ravvisato nella specie un fenomeno di
interposizione illecita di manodopera non afferendo, i rapporti di lavoro degli
originari ricorrenti, ai contratti di appalto prodotti dalle società.

3. Per la cassazione di tale sentenza la Banca
nazionale del lavoro s.p.a. ha proposto ricorso affidato a undici motivi,
illustrati da memoria. I lavoratori hanno resistito con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

4. Con i primi quattro motivi le parti ricorrenti
denunziano violazione o falsa applicazione degli artt. 18 della legge n. 300 del
1970 e 1, comma 47, della
legge n. 92 del 2012, nonché nullità della sentenza (ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, cod.proc.civ.)
avendo, la Corte distrettuale, errato nel ritenere operante il rito c.d.
Fornero anche la fattispecie aventi ad oggetto la titolarità di un rapporto di
lavoro in capo a soggetto diverso dal formale datore di lavoro avendo confuso
la qualificazione con l’imputazione del rapporto di lavoro, non essendo
intervenuto alcun licenziamento riferibile all’effettivo datore di lavoro ma
semmai un licenziamento inesistente e quindi escluso dalla sfera di
applicazione dell’art. 18
della legge n. 300 citata. La Corte distrettuale ha, inoltre, trascurato la
domanda, riproposta in sede di reclamo, di separazione della domanda avente ad
oggetto l’accertamento dell’asserita illiceità dell’appalto e di sospensione
del giudizio avente ad oggetto il licenziamento.

5. Con il quinto motivo il ricorrente denunzia
violazione e falsa applicazione degli artt. 18 della legge n. 300 del
1970, 27, comma 2, e 29 del d.lgs. n. 276 del 2003 (ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3
cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente accolto la
domanda dei lavoratori ex art.
18 della legge citata a fronte della inesistenza di un licenziamento da
parte delle società ricorrenti.

6. Con il sesto motivo il ricorrente denunzia
violazione o falsa applicazione degli artt. 29 del d.lgs. 276 del 2003
e 1655 cod.civ. (ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ.) avendo,
la Corte distrettuale, trascurato di accertare il punto decisivo per scrutinare
la genuinità o liceità dell’appalto, ossia l’esercizio effettivo del potere
direttivo da parte dell’appaltatore, elemento sufficiente per la qualificazione
del rapporto in termini di appalto genuino.

7. Con il settimo e l’ottavo motivo il ricorrente
deduce vizio di motivazione (ai sensi dell’art.
360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale,
trascurato il valore confessorio delle dichiarazioni dei ricorrenti nel ricorso
introduttivo del giudizio, ove – come la stessa Corte distrettuale afferma –
era dato per presupposta la sussistenza di contratti di appalto tra la banca e
le società formali datrici di lavoro degli originari ricorrenti per i servizi
di facchinaggio, archivio, conservazione e trasporto documenti e le attuali
ricorrenti, appaltanti, avevano dato atto che l’appalto dei servizi si era
svolto “nel tempo”.

8. Con il nono, il decimo e l’undicesimo motivo il
ricorrente denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 cod.civ. e 1, comma 47, della legge n. 92 del
2012 (ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn.
3 e 4 cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che – a
fronte delle dichiarazioni confessorie contenute nel ricorso introduttivo del
giudizio (che davano per presupposto la sussistenza di contratti di appalto per
i servizi enunciati) – le società appaltanti non avevano alcun onere di
contro-allegare o di contestare circostanze non dedotte dalla controparte e la
sentenza impugnata ha accolto una domanda avente causa petendi diversa da
quella introdotta, con conseguente integrazione di un motivo di nullità.

9. I primi quattro motivi (attinenti alla scelta del
rito con cui è stato celebrato il processo) non sono fondati.

Questa Corte, con statuizione a cui il collegio
ritiene di dare continuità, ha già affermato che rientra nell’ambito di
applicazione di cui all’art. 1,
comma 47, della legge n. 92 del 2012 anche la domanda proposta nei
confronti di un soggetto diverso dal formale datore di lavoro, di cui si chiede
di accertare la effettiva titolarità del rapporto, dovendo il giudice
individuare la fattispecie secondo il canone della prospettazione, con il solo
limite di quelle artificiose, sicché, una volta azionata dal lavoratore una
impugnativa di licenziamento postulando l’applicabilità delle tutele previste
dall’art. 18 della legge n.
300 del 1970, il procedimento speciale deve trovare ingresso a prescindere
dalla fondatezza delle allegazioni, senza che la veste formale assunta dalle
relazioni giuridiche tra le parti ne possa precludere l’accesso (Cass. n. 12094 del 2016, Cass. n. 17775 del 2016,
Cass. n. 2303 del 2018). Ai fini dell’individuazione del rito da applicare è,
dunque, necessario che sia dedotta l’esistenza di un rapporto di lavoro
qualificabile come subordinato a tempo indeterminato e di un licenziamento che
lo risolva in modo illegittimo e che sia invocata la tutela prevista dall’art. 18 della legge n. 18 del 1970.

Dunque – salvo il limite di prospettazioni
artificiose, teso a scongiurare condotte processuali obliquamente finalizzate
al solo scopo di percorrere la corsia accelerata del rito speciale – vale
ribadire che la contestazione sulla veridicità dei fatti che radicano
l’invocata tutela non è dirimente, ai fini del rito. Infatti la questione di
rito deve essere delibata in base alla domanda dell’attore a nulla contando né
le contestazioni del convenuto sugli elementi posti a fondamento della domanda,
né l’indagine di merito che il giudice deve compiere per la decisione, poiché
tale attività non assume rilievo in ordine alla risoluzione delle questioni di
rito. La natura giuridica del rapporto di lavoro così come l’individuazione del
soggetto che si assume essere datore di lavoro e destinatario dei provvedimenti
di tutela ex art. 18 I. n. 300/70 risultano
tra le questioni che il giudice dovrà affrontare e risolvere nel percorso per
giungere alla decisione di merito sulla domanda su cui può statuire, che è
appunto la domanda concernente la legittimità o meno del licenziamento.

10. Tutti i residuali motivi di ricorso, attinenti
al merito della causa, non sono fondati.

Va, preliminarmente, ricordato che la fattispecie in
esame dell’interposizione di manodopera è regolata dall’art. 29 del d.Lgs. n. 276 del 2003
(come modificato dalla L. 27
dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 911) che – pur nella ridefinizione dei
confini del divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro (che,
originariamente previsto ex art. 2127 cod.civ.,
soltanto per i lavori a cottimo, era stato poi esteso ad ogni attività di
lavoro subordinato dall’art. 1
della legge n. 1369 del 1960, disciplina poi abrogata dal d.Lgs. n. 276 del 2003, art. 85,
comma 1, lett. c) in quanto interamente ridisciplinata – ha ribadito la
sostanza del divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni
di lavoro, dettando la disciplina degli strumenti leciti all’interno della
vicenda interpositoria (appalti, somministrazione, distacco), nonché quella
sanzionatoria nelle ipotesi di somministrazione irregolare e appalto non
genuino.

La dissociazione tra datore di lavoro ed effettivo
utilizzatore della prestazione è stata, dunque, storicamente contenuta dal
legislatore e consentita solamente per ipotesi tipizzate al fine di trovare un
contemperamento tra esigenze di flessibilità dell’organizzazione
imprenditoriale e garanzie di tutela dei lavoratori. In particolare, il d. lgs. n. 276 del 2003 non ha eliminato la figura
della somministrazione irregolare di manodopera già vietata dall’art. 1 legge n. 1369/60, in
armonia con la permanenza di principi di rango costituzionale volti a collegare
al rapporto di lavoro subordinato e soltanto ad esso una serie di posizioni di
vantaggio (Cass., S.U., n. 22910 del 2006, che
si riferisce, in motivazione, appunto alla disciplina introdotta nel 2003). Né
il legislatore avrebbe comunque potuto farlo, considerato che tra i criteri
fissati dalla legge delega n. 30/03 vi era
anche quello della “…6) conferma del regime sanzionatone civilistico e
penalistico previsto per i casi di violazione della disciplina della mediazione
privata nei rapporti di lavoro, prevedendo altresì specifiche sanzioni penali
per le ipotesi di esercizio abusivo di intermediazione privata nonché un regime
sanzionatorio più incisivo nel caso di sfruttamento del lavoro minorile” (Cass. n. 3795 del 2013 e, quanto alla
giurisprudenza penale, Cass. n. 27866 del 2015).

Il criterio discretivo per individuare una legittima
dissociazione tra formale datore di lavoro e sostanziale utilizzatore delle
prestazioni lavorative è, dunque, la riconduzione della fattispecie concreta
alle ipotesi normativamente tipizzate. E’ onere del datore di lavoro, sia
quello formale che sostanziale, dimostrare la sussistenza di una genuina
intermediazione di manodopera (che consista in un contratto di appalto di
servizio ovvero in un contratto di somministrazione).

Questa Corte ha, come rilevato dalle società
ricorrenti, osservato che il divieto di intermediazione ed interposizione nelle
prestazioni di lavoro previsto dall’art. 1 della legge 23 ottobre
1960, n. 1369, in riferimento agli appalti “endoaziendali”,
caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività,
ancorché strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del
committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del
committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo
all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del
rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della
continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale
organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo
autonomo (Cass. n. 6343 del 2013). Ha,
inoltre, affermato che, una volta accertata l’estraneità dell’appaltatore alla
organizzazione e direzione dei prestatori di lavoro nell’esecuzione
dell’appalto, è del tutto ultronea qualsiasi questione inerente il rischio
economico e l’autonoma organizzazione del medesimo, né rileva che l’impresa
appaltatrice sia effettivamente operante sul mercato, atteso che, se la
prestazione risulta diretta ed organizzata dal committente, per ciò solo si
deve escludere l’organizzazione del servizio ad opera dell’appaltante (in
questi termini Cass. n. 11720 del 2009; Cass. n. 17444 del 2009; Cass. n. 9624 del 2008).

Tali statuizioni sono, peraltro, state rese in
fattispecie ove era stato accertata la sussistenza dello schermo formale del
contratto di appalto ed era, quale momento logico-giuridico successivo,
necessario verificare, in concreto, la riconducibilità dell’attività lavorativa
allo schema legale tipico.

Nel caso di specie, sulla base delle allegazioni
contenute negli atti introduttivi del giudizio di tutte le parti, i servizi di
facchinaggio, conservazione e gestione dei documenti svolti all’interno della
banca dovevano ricondursi ad una delle ipotesi legislativamente consentite di
dissociazione tra datore di lavoro formale e utilizzatore sostanziale, in
particolare al contratto di appalto. In adesione a tali convergenti deduzioni
(e senza consentire l’ampliamento del thema decidendum all’inesistenza, ab
origine, del contratto commerciale tra committente ed appaltatore), la Corte
distrettuale ha proceduto all’accertamento di tale circostanza con specifico
riferimento a ciascun lavoratore (ossia ai diversi periodi di lavoro prestati e
alle distinte società appaltatrici che avevano proceduto all’assunzione), al
fine di verificare se effettivamente l’attività lavorativa svolta all’interno
della banca rappresentasse l’esecuzione dello schema tipico di un contratto di
appalto. La Corte distrettuale ha ritenuto illegittima la scissione tra datore
di lavoro formale e datore di lavoro effettivo non avendo trovato riscontri
probatori dello schermo legale tipico del contratto di appalto.

La riscontrata assenza di accordi tra le società
ricorrenti, effettive utilizzatrici delle prestazioni dei lavoratori, e le
società intermediarie che hanno proceduto alle assunzioni, ai fini
dell’affidamento della gestione di particolari settori di attività interni al
ciclo produttivo si risolve nella conferma del generale principio di
individuazione del datore di lavoro nel soggetto che utilizza la prestazione
lavorativa in base alla norma inderogabile dettata dall’art. 2094 cod.civ. che si riferisce alla
collaborazione “nell’impresa” alle dipendenze dell’
“imprenditore”, tipicamente individuato in colui che organizza i
fattori della produzione.

11. In sintesi, il ricorso va rigettato e le spese
di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ. Sussistono i presupposti
processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato – se dovuto – previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art.
13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17 (legge di stabilità 2013).

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente
al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano
in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 5.000,00 per compensi professionali,
oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 novembre 2019, n. 29889
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