Il licenziamento intimato successivamente alla legittima richiesta del lavoratore di ricevere la retribuzione per tutte le ore di lavoro svolto è ritorsivo e, dunque, nullo.
Nota a Trib. Milano 23 agosto 2019, n. 1936
Sonia Gioia
Il licenziamento intimato in ragione della richiesta di retribuzioni arretrate ha carattere ritorsivo.
Come noto, infatti, “il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta che questa sia, è un licenziamento nullo quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l’unico determinante dello stesso” ai sensi degli artt. 1418, co. 2; 1345 e 1324 c.c. Esso costituisce ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (motivo diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (motivo indiretto) che “attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta…” (così, Cass. n. 17087/2011).
In altri termini, è configurabile la nullità dell’atto espulsivo “solo se l’intento di rappresaglia sia stato l’unico a determinare la decisione del datore di lavoro di interrompere la collaborazione lavorativa con il dipendente (in tal senso, Cass. n. 6282/2011, n. 5555/2011 e n. 18283/2010).
L’onere di dimostrare che alla base della volontà datoriale ha avuto “efficacia determinativa esclusiva” (anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione della giusta causa o del giustificato motivo di recesso) l’intento discriminatorio e di rappresaglia per l’attività svolta è a carico del lavoratore (cfr. Cass. n. 3986/2015).
Lo afferma il Tribunale di Milano 23 agosto 2019, n. 1936, con riferimento al ricorso di un lavoratore (avverso una società cooperativa) il quale assumeva che il suo licenziamento era conseguenza delle richieste formulate al fine di ottenere l’integrale e corretto pagamento delle ore di lavoro svolte, ivi comprese le maggiorazioni dovute in base al contratto collettivo applicato al rapporto.
A sostegno della sua domanda, il lavoratore produceva in giudizio le conversazioni Whatsapp precedenti il licenziamento in cui richiedeva, all’addetta dell’ufficio paghe, l’integrale e corretto pagamento di tutte le ore di lavoro svolte.
In base a tale contesto fattuale e temporale, il Tribunale di Milano ha ritenuto ingiusta la reazione datoriale ad una pretesa legittima del lavoratore e dichiarato la natura ritorsiva con conseguente nullità del licenziamento.
Legenda
Art. 2, D.LGS. 4 marzo 2015, n. 23 (“Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”).
- Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al comma 3. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.
- Con la pronuncia di cui al comma 1, il giudice condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità e l’inefficacia, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.