La trasmissione a terzi di materiale riservato di proprietà del datore di lavoro costituisce giusta causa di licenziamento per violazione del dovere di fedeltà (art. 2105 c.c.), come integrato dai canoni di correttezza e buona fede (artt.1175 e 1375 c.c.).
Nota a Cass. 15 ottobre 2019, n. 26023
Sonia Gioia
Nello svolgimento di un rapporto di lavoro, il dovere di fedeltà (art. 2105 c.c.), letto in relazione ai generali doveri di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), impone al prestatore una condotta leale. Il lavoratore deve, cioè, astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dalla disposizione codicistica (e, cioè, “non deve trattare affari (…) in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione, o farne uso in modo da arrecare ad essa pregiudizio”), “ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto” (in merito, l’orientamento della giurisprudenza è consolidato, v., ex multis, Cass. n. 6957/2005).
Lo ha affermato la Corte di Cassazione (15 ottobre 2019, n. 26023), confermando la pronuncia di merito (App. L’Aquila n. 228/2018) che aveva dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una dipendente bancaria per avere la stessa consegnato, clandestinamente, all’ex direttore generale, coinvolto in un procedimento penale, documentazione riservata di proprietà della società datrice cui, peraltro, non aveva ragione di accedere.
Al riguardo, la Corte ha precisato che, qualora venga impugnato un recesso per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il giudice di merito deve verificare che la condotta contestata costituisca grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, tenendo conto della portata oggettiva e soggettiva dei comportamenti addebitati.
In relazione alla prima, la valutazione “deve essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente”.
Quanto alla seconda, l’organo giudicante deve verificare i motivi che hanno determinato il comportamento contestato, l’intensità dell’elemento volitivo nonché “ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto” (Cass. n. 1475/2004; Cass. n. 6609/2003).
Con riguardo al settore del credito, ove il vincolo fiduciario è più intenso, l’accertamento in ordine all’esistenza di una causa che impedisca la prosecuzione del rapporto di lavoro deve essere operato “con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro”.
In attuazione di tali principi, la Cassazione ha ritenuto “particolarmente grave” la condotta addebitata alla dipendente (illecito impossessamento e divulgazione di una perizia estimativa di un immobile di proprietà di terzi), tale da non consentire la prosecuzione, anche temporanea, del rapporto di lavoro e adeguata la sanzione espulsiva. Ciò, in ragione “degli obblighi di fedeltà e riservatezza imposti in linea generale a tutti i dipendenti” di un istituto di credito e a nulla rilevando che il comportamento in questione non avesse, in concreto, arrecato alcun danno alla datrice di lavoro.