Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 novembre 2019, n. 31007
Attività lavorativa subordinata, Addette alla vendita presso
esercizi di centri commerciali, Contratti di associazione in partecipazione,
Diversa qualificazione del rapporto, Omissioni contributive
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza
del 18 luglio 2013, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva
respinto i ricorsi riuniti proposti dalla S. srl volti ad impugnare la cartella
esattoriale notificata da ETR Equitalia Spa, quale concessionaria del servizio
di riscossione, per conto dell’Inps, con la quale era stato richiesto il
pagamento della somma di euro 533.832,80 per omissioni contributive;
2. la Corte di Appello ha condiviso l’assunto del
Tribunale secondo il quale le lavoratrici di cui al verbale redatto all’esito
di attività ispettiva congiunta di funzionari dell’INPS e di ispettori del
lavoro di Catanzaro svolgevano, in favore della società, attività lavorativa
subordinata quali addette alla vendita presso esercizi di centri commerciali,
nonostante tra le parti fossero stati stipulati contratti di associazione in
partecipazione;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso la società soccombente con 3 motivi, cui hanno resistito l’INPS, anche
quale mandatario della SCCI Spa, ed il Ministero del Lavoro e della Previdenza
Sociale con distinti controricorsi; non ha svolto attività difensiva ETR
Equitalia Spa; la ricorrente ha comunicato memoria;
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso si denuncia:
“violazione e falsa applicazione dell’art.
2697 c.c., in relazione all’art. 2094 c.c.
(art. 360 n. 3 c.p.c.)”, sostenendo che i
giudici del merito non avrebbero “effettivamente accertato, in concreto,
la sussistenza della subordinazione, posizione per posizione”, delle
singole lavoratrici, ma avrebbero dato per scontata la diversa qualificazione
del rapporto sull’assunto indimostrato della natura simulata del contratto di
associazione in partecipazione;
2. il motivo non può trovare accoglimento;
con esso, infatti, si evoca la violazione dell’art. 2697 c.c., che è censurabile per cassazione
ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c.,
soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad
una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di
scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi
ed eccezioni e non invece ove oggetto di censura sia la valutazione che il
giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013;
Cass. n. 13395 del 2018), come nella specie laddove parte ricorrente critica
l’apprezzamento operato concordemente dai giudici del merito circa la
fittizietà dei contratti di associazione in partecipazione che mascheravano una
attuazione del rapporto nelle forme tipiche della subordinazione, opponendo una
diversa valutazione che non può essere svolta in questa sede di legittimità;
3. il secondo motivo denuncia “Violazione e
falsa applicazione, sotto altro profilo, degli artt.
2607 (così nel testo) e 2094 (art. 360 n. 3, c.p.c.). Omesso esame delle
risultanze istruttorie concernenti le modalità di svolgimento del rapporto di
lavoro e rilevanti ai fini dell’accertamento del vincolo della subordinazione (art. 360 n. 5 c.p.c.)”, per avere la sentenza
impugnata ritenuto l’esistenza della subordinazione prescindendo “del
tutto dalle risultanze istruttorie e in radicale contrasto con esse”;
4. il motivo non è accoglibile;
come noto, le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno
espresso sul punto n. 5) dell’art. 360, co.1, c.p.c.,
nella versione di testo applicabile al caso che ci occupa, introdotta dall’art. 54, co. 1, lett. b), d.l. n. 83
del 2012, conv. con modificazioni in I. n. 134
del 2012, i seguenti principi di diritto (principi costantemente ribaditi
dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del
2015, oltre che dalle Sezioni semplici): a) la disposizione deve essere
interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 disp. prel. c.c., come riduzione al minimo
costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di
legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di
legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé,
come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le
risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del
difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi
sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione
apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni
inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”; b) il nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio
specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia
carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito
diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non
integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto
storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal
giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze
istruttorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto
delle previsioni di cui agli artt. 366, primo
comma, n. 6), c. p. c. e 369, secondo comma, n.
4), c. p. c. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso,
il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza,
il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto
sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del
fatto stesso; il motivo in esame risulta irrispettoso di tali enunciati,
pretendendo una diversa valutazione delle risultanze processuali e non
enucleando un singolo fatto storico decisivo, traducendosi piuttosto in un
diverso convincimento della parte soccombente rispetto a quello concordemente
espresso in entrambi i gradi di merito nella valutazione del materiale
probatorio;
5. nella stessa inammissibilità incorre il terzo
motivo di gravame, nella parte in cui ancora denuncia “omesso esame di un
fatto decisivo per il giudizio (360, n. 5, c.p.c.)”,
per avere la sentenza impugnata trascurato di esaminare “le decisive
circostanze cronologiche … che spiegavano perché le associate escusse ex art. 421 c.p.c. avessero riferito dì non avere
ricevuto rendiconti o di averli ricevuti dopo la visita ispettiva”;
infatti la censura, oltre a non incentrarsi su un fatto storico realmente
decisivo, nel senso che, ove non ne fosse stato omesso l’esame, avrebbe
condotto con prognosi di certezza e non di mera probabilità ad una diversa
soluzione della controversia, non tiene conto che, nell’ambito delle
controversie qualificatorie in cui occorre stabilire se certe prestazioni
lavorative siano rese in regime di subordinazione oppure al di fuori del
parametro normativo di cui all’art. 2094 c.c.,
la valutazione delle risultanze processuali che inducono il giudice del merito
ad includere il rapporto controverso nello schema contrattuale del lavoro
subordinato o meno costituisce accertamento di fatto censurabile in Cassazione,
secondo un pluridecennale insegnamento di questa Corte (tra molte, nel corso
del tempo, v. Cass. n. 1598 del 1971; Cass. n. 3011 del 1985; Cass. n. 6469 del
1993; Cass. n. 2622 del 2004; Cass. n. 23455 del
2009; Cass. n. 9808 del 2011), solo per la
determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto,
mentre è insindacabile, se sorretta da motivazione che nel vigore del novellato
n. 5 dell’art. 360 c.p.c. può essere sindacata
negli angusti limiti segnati dalle richiamate Sezioni unite, la scelta degli
elementi di fatto cui attribuire, da soli o in varia combinazione tra loro,
rilevanza qualificatoria (cfr., più di recente, Cass. n. 11646 del 2018 e Cass. n. 13202 del 2019);
6. infondato è poi il terzo motivo nella parte in
cui si deduce la violazione dell’art. 2549 c.c.
per avere considerato che nel contratto di associazione in partecipazione debba
sempre essere prevista la partecipazione alle perdite o che la stessa debba
risultare da atto scritto; premesso che il decisum della Corte territoriale non
si fonda esclusivamente su tale elemento, ma su un complessivo accertamento di
vari elementi che ha indotto il giudice del merito a ravvisare la subordinazione,
la sentenza impugnata è conforme all’orientamento di questa Corte in ordine al
contratto di associazione in partecipazione;
si è così avuto modo di statuire (Cass. n. 1692 del 2015) che “la
riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in
partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato
ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli
utili, esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza,
alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi
che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre
il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza
per l’associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo
vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante di
impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al
potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le scelte di fondo
dell’organizzazione aziendale”; si è, altresì, precisato (Cass. n. 1817 del 2013) che “in tema di
contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione
lavorativa da parte dell’associato, l’elemento differenziale rispetto al
contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d’impresa
risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della
prestazione da parte dell’associato, dovendosi verificare l’autenticità del
rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa,
la partecipazione dell’associato al rischio di impresa e alla distribuzione non
solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una
prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione
aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza ovvero
controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel
rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall’art. 35 Cost., che tutela il lavoro “in tutte
le sue forme ed applicazioni” (successiva conf, Cass. N. 4219 del 2018);
5. conclusivamente il ricorso va respinto, con spese
che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo in favore di ciascuno
dei controricorrenti; nulla per le spese per l’intimata ETR Equitalia Spa che
non ha svolto attività difensiva;
occorre dare atto della sussistenza dei presupposti
processuali di cui all’art. 13, co.
1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012;
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento in favore di – ciascuno dei controricorrenti delle spese liquidate in
euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre euro 200,00 per esborsi,
accessori secondo legge e spese generali al 15% per l’INPS e spese prenotate a
debito per l’Avvocatura dello Stato.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento,
da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello
stesso art. 13, se dovuto.