Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 novembre 2019, n. 31012

Svolgimento mansioni diverse e relative all’attività
amministrativa, Riconoscimento di differenze retributive, lmprocedibilità
dell’appello, Notifica del gravame

Fatti di causa

 

1. Con il ricorso per cassazione l’I.N.P.S., quale
successore ex lege dell’I.N.P.D.A.P., ha esposto che alcuni dipendenti
dell’Istituto, per quanto qui ancora interessa, avevano agito davanti al
Tribunale di Roma nei confronti dell’ente, al fine di ottenere il
riconoscimento di differenze retributive, per i titoli di cui infra, maturate
dopo l’1.7.1998.

Il Tribunale denegava la propria giurisdizione, ma
la sentenza veniva gravata da alcuni dei dipendenti e ne seguiva la riforma da
parte della Corte d’Appello di Roma, con pronuncia poi confermata in sede di
legittimità.

In esito alla predetta sentenza di appello, i
dipendenti, ivi compresi – ha ancora precisato il ricorrente – cinque di essi
che non avevano impugnato la declinatoria di giurisdizione resa in primo grado,
riassumevano il processo di merito ancora presso il Tribunale di Roma che
accoglieva in favore di tutti la domanda dispiegata.

Proposto appello avverso tale sentenza, la Corte
d’Appello di Roma ha dichiarato improcedibile l’appello proposto dall’I.N.P.S.
(quale successore di I.N.P.D.A.P.) nei confronti dei predetti cinque
dipendenti, respingendo viceversa nel merito il gravame proposto verso gli
altri.

2. L’I.N.P.S. ha quindi proposto ricorso per
cassazione sulla base di tre motivi, resistiti da controricorso congiunto di
uno dei predetti cinque dipendenti e degli altri addetti in cui favore vi era
stata pronuncia favorevole di merito in appello. L’I.N.P.S. ha altresì
depositato memoria illustrativa sia per la fase camerale, cui la controversia
era stata originariamente avviata, sia per la successiva trattazione in udienza
pubblica.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo l’I.N.P.S. afferma, ai sensi
dell’art. 360 n. 4 c.p.c., la nullità della
sentenza impugnata con riferimento alla parte della pronuncia con cui è stata
dichiarata l’improcedibilità dell’appello verso alcuni dei lavoratori (P. P.,
M. D., G. D., V. L. e G. L.).

1.1 In fatto è accaduto che la Corte d’Appello ha
dapprima ritenuto che la notifica del gravame ai predetti fosse stata
erroneamente eseguita presso il procuratore dei lavoratori indicato nella
sentenza di primo grado, disponendone la rinnovazione entro un termine
contestualmente fissato.

La rinnovazione tuttavia non veniva eseguita e, in esito
alla mancata comparizione delle parti, la causa veniva cancellata dal ruolo.

L’I.N.P.S. provvedeva quindi alla riassunzione della
stessa, eseguendo la notifica anche ai lavoratori nei cui confronti era stata
disposta la rinnovazione, ma la Corte territoriale, prendendo atto della
violazione del termine originariamente concesso, ritenuto perentorio,
dichiarava in parte qua improcedibile l’appello.

1.2 L’ente previdenziale, con il motivo in esame,
sostiene, da un primo punto di vista, che la Corte di merito avrebbe
ingiustificatamente disposto la rinnovazione della prima notifica dell’atto di
appello nei riguardi dei lavoratori in questione, in quanto la stessa essa era
stata eseguita presso il procuratore indicato nella sentenza di primo grado
come domiciliatario dei medesimi.

In proposito la Corte territoriale, sul presupposto
che i predetti lavoratori non fossero più parti del giudizio in quanto essi non
avevano partecipato all’impugnativa della pronuncia declinatoria della
giurisdizione originariamente emessa dal Tribunale di Roma e poi riformata, ha
ritenuto che i difensori indicati nella sentenza «non potevano avere e di fatto
non avevano procura alcuna per quei cinque lavoratori».

Per contrastare tale affermazione non è sufficiente
il richiamo che fa il ricorrente all’intestazione della sentenza di primo
grado, -in quanto piuttosto l’I.N.P.S. avrebbe affermare che la procura in
questione vi fosse e dimostrarlo mediante produzione di copia dell’atto; ma in
atti manca sia tale affermazione, sia la conseguente dimostrazione.

1.3 In ordine logico l’I.N.P.S. sostiene poi che la
Corte avrebbe erroneamente ritenuto che la notifica in rinnovazione rispetto
alla successiva udienza fissata potesse avere corso.

Infatti, afferma il ricorrente, la data dell’udienza
di prosecuzione dattiloscritta nel provvedimento e rispetto alla quale la
notifica avrebbe dovuto essere eseguita, era quella del 1.12.2012, mentre poi
vi era stata correzione a penna di essa in quella del 1.2.2012.

L’ente sostiene quindi di avere scadenzato la
rinotifica rispetto alla data del 1.12.2012, salvo poi accorgersi di quanto
verificatosi, allorquando non era però più possibile procedere alla notifica
per l’udienza del 1.2, sicché era stato solo con la riassunzione della causa
dopo la cancellazione che la notifica aveva infine avuto corso.

La Corte territoriale, sul punto, ha respinto le
difese dell’ente, sostenendo che, anche a voler ritenere che il medesimo avesse
erroneamente inteso l’udienza del 1.2.2012 quale udienza del 1.12.2012,
comunque non aveva fornito prova di avere operato la notifica nel termine quale
calcolato a ritroso dall’udienza del 1.12.2012, atteso che anche la notifica
attuata con il ricorso in riassunzione era comunque successiva.

In altre parole, il senso della pronuncia della
Corte d’Appello è quello per cui anche a voler ritenere, in via di ipotesi, che
l’I.N.P.S. fosse caduto incolpevolmente in errore, il termine calcolato tenuto
conto dell’errore commesso non sarebbe stato comunque rispettato.

Da ciò deriva però che l’ente, nel proporre ricorso
per cassazione ed al fine di assicurare la dovuta concretezza dello stesso,
avrebbe dovuto fornire elementi idonei a comprovare l’effettiva incolpevolezza
dell’errore, ovverosia che la correzione a penna della data di rinvio fosse tale
appunto, per le circostanze in cui essa era avvenuta, da determinare il
predetto errore.

Nulla è però detto in ricorso su quali siano state
le circostanze in cui tale correzione sarebbe avvenuta, ovverosia se a causa di
un errore di scrittura originario (a fronte di un’ordinanza pronunciata in
udienza – come afferma lo stesso ricorso dell’ente l’ordinanza fu emessa «alla
udienza del 10/11/10» – con la data esatta del 1.2.2012) oppure se l’errore fu
del giudice d’appello e fu poi corretto, precisandosi quando e come. E’ dunque
impossibile qualsivoglia apprezzamento sulle circostanze esatte in cui si
inquadra l’omesso adempimento dell’incombente rispetto all’udienza di rinvio
del 1.2.2012 e ciò è assorbente, in quanto la violazione di un termine che, come
si dirà, ha natura perentoria, comporta di per sé, ove non si provi
l’incolpevolezza, l’effetto decadenziale

1.4 Infine l’I.N.P.S. sostiene che rispetto
all’appello nel rito del lavoro non troverebbe applicazione l’art. 291 c.p.c. e quindi il termine per la
rinnovazione della notificazione non potrebbe dirsi perentorio.

Si tratta di assunto che è in contrasto con quanto
ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 3 aprile 2013, n. 8125),
consolidatasi nel senso che una tale vicenda resta regolata dall’art. 291 c.p.c. (Cass. 17 aprile 2018, n. 9404;
Cass. 28 agosto 2013, n. 19818), ma comunque orientata a ritenere perentorio il
termine anche sulla base del più risalente indirizzo che ravvisava il
fondamento della sua concessione nell’art. 421
c.p.c. (Cass. 1 marzo 2006, n. 4543; Cass. 7 giugno 1999, n. 5585).

1.5 In definitiva il ricorso avverso la pronuncia di
improcedibilità del gravame proposto dall’I.N.P.S. nei riguardi di P. P., M.
D., G. D., V. L. e G. L. va respinto.

Il che ovviamente non esclude che, se l’indicazione
dei predetti nella sentenza di primo grado fosse stata frutto di errore
materiale – come la Corte di Cassazione non può verificare, non essendo
competente in proposito – esso possa ancora oggetto di correzione, ma nella
sede prevista dal codice di rito (art. 287 c.p.c.).

2. Il secondo ed il terzo motivo sono destinati
dall’I.N.P.S. alla censura della restante parte di pronuncia con la quale la
Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado che aveva accolto la
domanda dei lavoratori.

2.1 I predetti lavoratori avevano agito deducendo di
essere dipendenti I.N.P.D.A.P. con rapporto di lavoro privatistico disciplinato
dal C.C.N.L. per i portieri dipendenti da proprietari di fabbricati

Essi, sostenendo di essere stati tuttavia addetti
non alle ordinarie mansioni di portierato, ma alle attività proprie
dell’ausiliario di amministrazione, insistevano per il riconoscimento in loro
favore del trattamento previsto dalla contrattazione collettiva recepita dal
d.p.r. 285/1988 per i dipendenti I.N.P.D.A.P., con domanda rispetto alla quale
la Corte d’Appello di Roma, nella sentenza inter partes n. 2501/1994, poi
confermata dalla S.C., riteneva la giurisdizione ordinaria con riferimento al
periodo successivo al 1.7.1998.

2.2 La Corte territoriale, nel rigettare l’appello
avverso la pronuncia di primo grado di accoglimento della predetta domanda, ha
ritenuto che il risalire delle mansioni in concreto svolte dai ricorrenti non
ad edifici di uso abitativo, cui si applicava il C.C.N.L. per i proprietari di
stabili, ma ad edifici ad uso ufficio e per mansioni funzionali alle attività
organizzative e produttive dell’ente, impedisse l’applicazione del predetto
contratto collettivo di natura privatistica. Non poteva pertanto che trovare
applicazione la disciplina comune ai restanti dipendenti addetti a mansioni
proprie delle attività istituzionali dell’I.N.P.D.A.P. e quindi, il d.p.r.
285/1988.

2.3 L’I.N.P.S., con il secondo motivo lamenta il
fatto che la Corte territoriale avesse ritenuto i motivi di gravame privi di
specificità ed a tal fine riproduce il proprio ricorso in appello, denunciando
l’omessa pronuncia su di essi.

Con il terzo motivo, viceversa, avendo la Corte
territoriale manifestato, nei termini sopra detti, il convincimento, anche
giuridico, rispetto alla fondatezza della domanda dispiegata, l’ente censura la
sentenza impugnata sostenendo la violazione degli artt.
1362 e ss. c.c. e dunque l’erronea interpretazione della contrattazione
collettiva attinenti ai portieri di fabbricato, nonché la violazione della L. 70/1975, del d.p.r. 411/1976 e del d.p.r.
285/1988, nonché dell’art. 434 c.p.c.,
assumendo in sostanza che il menzionato C.C.N.L. di diritto privato troverebbe
comunque applicazione ai portieri, seppure non addetti a fabbricati utilizzati
da terzi e restando tale contratto collettivo salvaguardato, nella propria
applicazione, dalle previsioni del d.p.r. 411/1976.

2.4 Tali motivi, risultando tra loro connessi, vanno
trattati congiuntamente.

3. In proposito, è consolidato l’orientamento di
questa Corte secondo cui, pur dopo la privatizzazione del pubblico impiego, non
è impedita la stipula di contratti di lavoro con la P.A destinati ad essere
regolati dalla sola disciplina privatistica e non dalla normativa generale, da
ultimo contenuta nel d. Igs. 165/2001.

Ciò è ammesso quando vi sia una norma che lo preveda
(v. Cass., S.U., 15 aprile 2010, n. 8985) ipotesi che anzi, ove sussistente,
anche dopo la contrattualizzazione dell’impiego pubblico non consente una
diversa qualificazione del rapporto stesso, in ipotesi sviluppata valorizzando
la natura del datore di lavoro e lo stabile inserimento nell’organizzazione
amministrativa dell’ente, perché risulta essere prevalente, rispetto a detti
criteri, la definizione normativa (da ultimo Cass. 22 novembre 2018, n. 30271;
in precedenza, Cass., S.U., 8985/2010 cit.; Cass., S.U., 24 novembre 2009, n.
24670).

Al contempo si è altresì precisato che la disciplina
generale sulla privatizzazione del pubblico impiego (qui da riferire al d. Igs. 29/1993 ed al d.
Igs. 165/2001) può non essere applicata allorquando i rapporti di lavoro –
ritenuti afferire a casi «marginali e sostanzialmente anomali» – siano
intrattenuti per ragioni non riconducibili alle specifiche finalità
istituzionali dell’ente interessato (Cass. 27 giugno 2007 n. 14809).

Tutti i casi predetti possono essere riportati al
pubblico impiego (v., proprio con riferimento ai portieri degli enti
previdenziali, ai fini del riparto di giurisdizione a favore del giudice
amministrativo secondo le regole dell’epoca, tra le molte, Cass., S.U., 28
novembre 1990, n. 11459), ma si caratterizzano per l’eccezionale destinazione
ad un regolamento negoziale di stampo esclusivamente privatistico (v., sempre
rispetto ai portieri, Cass. 22 aprile 2010, n.
9555, che ha ritenuto il rapporto a tempo determinato di pubblico impiego
ma soggetto a disciplina secondo le regole del rapporto privato, tra cui la
conversione a tempo indeterminato).

La vicenda oggetto di causa si inserisce
coerentemente in tale quadro di fondo, in quanto la sottrazione della
disciplina a quella propria dei rapporti di lavoro con l’ente pubblico di
riferimento fu ab origine impostata dall’art. 51 d.p.r. 411/1976, secondo cui
la disciplina del rapporto di lavoro pubblico, nell’ambito qui interessato del
c.d. parastato, non si applicava «ai dipendenti con rapporto di lavoro regolato
da contratti collettivi di diritto privato e instaurato per lo svolgimento di
attività privatistiche dell’ente o per servizi di istituto del tutto
peculiari».

3.1 Vi è però necessità di definire che cosa accada,
rispetto ai rapporti di lavoro così instaurati, se, dopo l’assunzione, segua
(fin dall’inizio o in corso di rapporto) l’adibizione a mansioni diverse da
quelle per le quali vi fu l’eccezionale instaurazione in forme privatistiche ed
in particolare se vi sia assegnazione a compiti inerenti all’attività
amministrativa tipica dell’ente pubblico considerato.

In proposito va intanto detto che il rapporto di
pubblico impiego privatizzato, di cui al d. Igs.
29/1993 e 165/2001, sorge in stretta
relazione tra una dotazione organica (art. 4 d. Igs. 165/2001,
già art. 6 d. Igs. 29/1993) e
lo svolgimento di procedure concorsuali o selettive (art. 35 d. Igs. 165/2001,
già art. 36 d. Igs. 29/1993),
secondo una dinamica indirizzata al perseguimento degli scopi istituzionali dei
diversi enti e quindi tendenzialmente destinata a rimanere estranea alle
ipotesi eccezionali qui in esame.

Affinché un rapporto instaurato nelle forme
esclusivamente privatistiche possa evolversi in un rapporto tipico di pubblico
impiego privatizzato, non è dunque sufficiente che, di fatto, vi sia
svolgimento di mansioni inerenti all’attività amministrativa propria dell’ente
di riferimento, occorrendo quanto meno una previsione normativa che disponga in
tal senso, anche in ragione dell’eventuale assenza di un originario concorso o
selezione pubblica ed in linea con la previsione dell’art. 97, u.c. ultima parte Cost.

3.2 Nel caso dei contratti di diritto privato di chi
sia stato assunto come portiere di un ente previdenziale, tale previsione
normativa, peraltro destinata a riguardare il periodo successivo
all’introduzione del ricorso di primo grado (che è del 1999) è da ravvisare
nell’art. 43, co. 19, L. 388/2000,
secondo cui «/ lavoratori, già dipendenti degli enti previdenziali, addetti al
servizio di portierato o di custodia e vigilanza degli immobili che vengono
dismessi, di proprietà degli enti previdenziali, restano alle dipendenze
dell’ente medesimo».

3.3 Tale norma, prevedendo la prosecuzione dei
rapporti di lavoro instaurati in forme esclusivamente privatistiche, pur con
l’adibizione a mansioni diverse e dunque attinenti all’attività amministrativa
propria dell’ente datore di lavoro, comporta il fuoriuscire dei rapporti stessi
dall’ambito di quel riferimento ad attività «privatistiche dell’ente o servizi
di istituto del tutto peculiari» che, come detto, ai sensi dell’art. 51 d.p.r.
411/1976, caratterizzava le eccezionali ipotesi di contratti di caratura
esclusivamente civilistica.

Poiché non vi è dubbio che la disciplina del lavoro
pubblico privatizzato, di cui al d.lgs. 29/1993
ed al d. Igs. 165/2001, costituisca /ex
generalis, l’effetto dell’assegnazione ex lege a mansioni proprie dell’attività
amministrativa tipica dell’ente di riferimento porta naturalmente con sé la
corrispondente trasformazione del rapporto di lavoro, che resta dunque
ricondotto alle forme comuni dell’impiego pubblico privatizzato.

Pertanto, anche la successiva aggiunta apportata
all’art. 43, co. 19, cit. dall’art. 7, co. 4, L. 3/2003, secondo cui «si
applica quanto disposto dagli artt. 33 e 34 del d. Igs. 20
marzo 2001, n. 165», costituisce precisazione normativa di uno sviluppo già
insito nella pregressa disposizione dell’art. 43 nella originaria formulazione.

Il riferimento della norma agli «addetti al servizio
di portierato» ed al fatto della dismissione degli immobili, quale ragione
della permanenza in servizio, non può escludere peraltro che gli effetti così
delineati si verifichino anche rispetto a chi, già all’epoca non più addetto a
quelle mansioni, fosse tuttavia titolare di un rapporto stipulato per il
portierato ed in forme di diritto privato.

Orienta verso tale interpretazione estensiva sia il
fatto che anche in tali casi si è di fronte all’allontanamento delle mansioni
concrete da quelle rispetto alle quali eccezionalmente si è addivenuti
all’utilizzazione del contratto privatistico, sia la comune ratio diretta al
mantenimento in servizio dei titolari di contratti civilistici di portierato in
sé non più utili come tali per la P.A., a fortiori sussistente nei casi di chi
già prima, seppure assunto in quelle forme, fosse stato poi adibito ad altre
mansioni.

I rapporti instaurati con contratti di portierato,
comunque svoltisi nel corso del tempo, a partire dall’entrata in vigore
dell’art. 43, co. 19, cit., sono dunque divenuti a tutti gli effetti rapporti
di pubblico impiego privatizzato, con applicazione consequenziale di ogni
previsione, anche retributiva, ad esso inerente.

4. Nel caso di specie si pone peraltro ratione
temporis l’ulteriore problema di stabilire se lo svolgimento di mansioni
diverse e relative all’attività amministrativa, dopo l’assunzione per
l’attività di portierato e prima della menzionata trasformazione a tutti gli
effetti in rapporti tipici di pubblico impiego privatizzato, comporti viceversa
effetti sotto il profilo del trattamento retributivo rivendicato in causa dalla
odierna ricorrente.

In proposito va detto che l’eccezionaiità di un
impiego pubblico regolato da disciplina esclusivamente privatistica,
giustificato esclusivamente dalla funzionalità rispetto ad attività estranee
alle specifiche finalità istituzionali dell’ente interessato, ha quale
conseguenza l’illegittimità dell’assegnazione di mansioni che siano viceversa
proprie di tali finalità tipiche.

4.1 L’effetto di tale illegittimità è poi quello di
comportare, in parte qua ed in ragione del disposto dell’art. 2126 c.c., l’applicazione, a tutela del
lavoratore, del trattamento retributivo proprio delle mansioni quali
concretamente svolte, secondo la disciplina propria del rapporto entro cui la
corrispondente attività di lavoro dovrebbe trovare inquadramento.

Pertanto, il rapporto, pur proseguendo nella matrice
civilistica sua propria, impone, nei periodi in cui le mansioni svolte siano
quelli proprie dell’attività funzionali alle tipiche finalità istituzionali
dell’ente, il riconoscimento del trattamento retributivo di cui al C.C.N.L. degli
enti pubblici non economici, secondo l’inquadramento corrispondente al lavoro
quale in concreto svolto e secondo la disciplina che, di tempo in tempo, si
riporta al d.p.r. 285/1988, poi gradualmente transitata, attraverso il disposto
dell’art. 72 d.lgs. 29/1993,
nella successiva contrattazione collettiva del rapporto di pubblico impiego
privatizzato.

E’ dunque in questo senso che va corretta la
motivazione di merito sviluppata dalla Corte distrettuale, pur confermandosi
quanto da essa deciso, favorevolmente rispetto alle rivendicazioni retributive
avanzate dai lavoratori.

5. Ne deriva la reiezione del ricorso osservandosi,
quanto al secondo motivo, che comunque la deduzione di un asserito vizio di omessa
pronuncia ex art. 112 c.p.c. sui motivi di
appello non potrebbe trovare accoglimento, stante l’infondatezza, sopra
ampiamente delineata, delle ragioni giuridiche dell’ente afferenti ai motivi di
cui si afferma il mancato esame.

6. Alla reiezione del ricorso segue la regolazione
secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a
rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, che liquida in
euro 5.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in
misura del 15 % ed accessori di legge, con distrazione in favore del difensore
antistatario avv. P. L- P..

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.

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