Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 dicembre 2019, n. 31529

Licenziamento, Illegittimità, Indennità risarcitoria,
Addebiti disciplinari, lngiustificato rifiuto del trasporto di un pacco e
abbandono del posto di lavoro, Proporzione della sanzione

 

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 1151 depositata il 18.6.2018, la
Corte d’appello di Milano, in parziale riforma della decisione del Tribunale di
Como, ha dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato il 17.12.2015
dalla società T. F.lli s.r.l. ad A.M.R.A., con conseguente risoluzione del
rapporto di lavoro e condanna al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a
15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (pari a euro 23.501,10),
ex art. 18, comma 5, della
legge n. 300 del 1970 come novellata dalla legge
n. 92 del 2012.

2. La Corte territoriale, per quel che interessa, ha
ritenuto realizzati dal lavoratore due dei tre addebiti disciplinari contestati
dalla società (nella specie, l’ingiustificato rifiuto del trasporto di un pacco
e l’abbandono del posto di lavoro per circa un’ora) ma, in assenza di
ripercussioni sull’andamento aziendale e a fronte del contesto di elevata
conflittualità in cui i comportamenti si sono innestati, ha ritenuto
sproporzionato l’atto di recesso.

3. Per la cassazione della sentenza il lavoratore ha
proposto ricorso, affidato a quattro motivi, cui ha resistito la società con
controricorso, proponendo, altresì, tre motivi di ricorso incidentale.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso principale si
denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4 e 5, della legge
n. 300 del 1970 (in relazione all’art. 360,
primo comma, n. 3 cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato
che le due infrazioni disciplinari commesse dal lavoratore non integravano – a
fronte dell’esclusione dell’addebito più grave, consistente nella minaccia di
morte nei confronti del datore di lavoro, condotta non accertata – un nucleo
minimo di condotta astrattamente idoneo a giustificare la sanzione espulsiva,
con conseguente applicabilità della tutela reale di cui al comma 4 dell’art. 18 della legge
n. 300 del 1970, anche considerate le clausole del C.C.N.L. Gomma Plastica
che ricollegano sanzioni conservative alle infrazioni concernenti l’abbandono
del posto di lavoro e la “trascuranza” nell’adempimento delle
mansioni assegnate.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 2087
cod.civ., 15, comma 1, lett.
c), e), f), 20, comma 1,
lett. e), 168, commi 1 e 2
del d.lgs. n. 81 del 2008, 18,
commi 4 e 5, della legge n. 300 del 1970 (in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.)
avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il comportamento del datore di
lavoro che ha impedito al lavoratore di utilizzare il carrello disponibile in
reparto per movimentare dei carichi seppur inferiori ai 25 kg deve ritenersi
illegittimo.

3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 1460,
2087 cod.civ., 18, commi 4 e 5, della legge n.
300 del 1970 (in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 3 cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il
lavoratore aveva diritto di sottrarsi alle plateali provocazioni poste in
essere a suo danno dal datore di lavoro allontanandosi dal posto di lavoro.

4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia
violazione e falsa applicazione degli artt. 91
cod.proc.civ., 2233 cod.civ., 4 del d.m. n. 55 del 2014 (in
relazione all’art. 360, primo comma, n. 3
cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, liquidato le spese di lite al
di sotto dei minimi legali, trattandosi di causa con valore indeterminabile.

5. Con i primi due motivi di ricorso incidentale si
denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 7 della legge n. 300 del
1970, 1175, 1227
e 1375 cod.civ., 2,
3 e 24 Cost.
(in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4
cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, ritenuta facoltativa la
possibilità di presentare giustificazioni, da parte del lavoratore, nell’ambito
del procedimento disciplinare, con conseguente abuso del diritto e grave danno
per il datore di lavoro a fronte del possesso di una registrazione fonografica
di cui la società era completamente ignara. Secondo una interpretazione
estensiva ed evolutiva dell’art. 1227, comma 2,
cod.civ., in una logica di solidarietà, le parti debbono comportarsi
secondo criteri di buona fede e correttezza, dai quali promanano obblighi di
protezione delle rispettive sfere giuridiche; la decisione del lavoratore di
non far conoscere, in occasione del procedimento disciplinare, il contenuto
delle registrazioni è senz’altro contrario a detti principi.

6. Con il terzo motivo di ricorso incidentale si
denuncia violazione dell’art. 116 cod.proc.civ.
(in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4
cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, attribuito rilevanza
probatoria ad una registrazione che appariva incompleta, discontinua,
frammentaria oltre che oggetto di possibile ed abile manipolazione secondo gli
interessi propri del soggetto che ha effettuato la registrazione.

7. Il primo motivo di ricorso non è fondato.

Il giudice del reclamo è pervenuto all’accertamento
del difetto di proporzionalità del recesso datoriale sulla base di una
complessiva considerazione delle circostanze concrete alla stregua delle quali
ha ritenuto non giustificata la sanzione espulsiva. In particolare, accertata
l’integrazione di due degli addebiti contestati dal datore di lavoro (abbandono
del posto di lavoro e rifiuto di eseguire una disposizione impartita dal
superiore gerarchico), ha sottolineato la non particolare intensità
dell’elemento soggettivo, configurandosi la condotta del lavoratore frutto del
contesto di elevata conflittualità fra le parti, e l’assenza, da un punto di
vista oggettivo, di ripercussioni dannose a carico della società.

La Corte di appello ha, dunque, ritenuto
sussistenti, nella loro materialità, alcuni dei fatti contestati e giudicato
gli stessi rilevanti, in via astratta, sul piano disciplinare, in quanto
condotte integranti violazioni di disposizioni contrattuali; tuttavia, in
concreto, ha escluso l’idoneità dell’inadempimento a configurare giusta causa o
giustificato motivo soggettivo e, dunque, ha escluso la proporzionalità tra
licenziamento e condotta così come effettivamente realizzata (Cass. nr. 21017 del 2015); conseguentemente, e
correttamente, ha perciò applicato il sistema sanzionatorio della legge n. 300 del 1970, art. 18,
comma 5, piuttosto che quello reintegratorio stabilito dal precedente comma
4.

L’arresto di questa Corte, richiamato dal ricorrente
(Cass. n. 14192 del 2018), è fuorviante,
avendo trattato la diversa ipotesi della contestazione disciplinare di
un’unica, articolata, condotta tenuta dal lavoratore dimostrata solo in parte
in sede giudiziale e le sue conseguenze in ordine alla scelta del regime
sanzionatorio (in specie, art.
18, commi 4 e 5, della legge n. 300 del 1970), a differenza dal caso di
specie ove la contestazione aveva ad oggetto una pluralità di distinti ed
autonomi comportamenti. In ogni caso, in coerenza con il principio di diritto
affermato dalla pronuncia innanzi richiamata, deve ritenersi che in caso di
contestazione di pluralità di addebiti disciplinari, la “insussistenza del
fatto” si configuri solamente qualora – sul piano fattuale – possa
escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano
astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, oppure,
specularmente, secondo quanto già ritenuto, qualora si realizzi l’ipotesi dei
fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità (Cass. n. 18418 del 2016).

Come evidenziato, la Corte territoriale ha ritenuto
sussistenti, nella loro materialità, due delle tre condotte contestate e ha
giudicato le stesse rilevanti, in via astratta, sul piano disciplinare, in
quanto condotte integranti inadempimento degli obblighi legali e contrattuali
incombenti sul lavoratore; ritenuta, peraltro, sproporzionata la reazione adottata
dal datore di lavoro, ha escluso la ricorrenza di una giustificazione della
sanzione espulsiva.

Come già affermato da questa Corte (Cass. n. 12365 del 2019), il giudice di merito –
esclusa la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva – ha
correttamente svolto, al fine di individuare la tutela applicabile, l’ulteriore
disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dal comma 4 dell’art. 18 della legge
n. 300 del 1970 per accedere alla tutela reintegratoria
(“insussistenza del fatto contestato” ovvero fatto rientrante
“tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle
previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari
applicabili”), in quanto, in assenza di tali requisiti, va applicato il
regime dettato dal comma 5, “da ritenersi espressione della volontà del
legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di
carattere generale” (Cass. SS.UU. n. 30985
del 2017).

La nozione di “insussistenza del fatto
contestato”, di cui all’art.
18, comma 4, della legge n. 300 del 1970, comprende l’ipotesi del fatto
sussistente ma privo del carattere di illiceità; ne consegue che, ove il fatto,
connotato da antigiuridicità, risulti accertato senza che la condotta sia
punita dal c.c.n.I. con una sanzione meramente conservativa, non è
configurabile la fattispecie di cui al citato comma 4, esulando da tale ambito
la valutazione sulla proporzionalità della misura adottata.

Premesso che non vi è traccia nella sentenza
impugnata dell’ulteriore questione relativa all’eventuale sussunzione delle
infrazioni disciplinari poste in essere dal lavoratore nelle previsioni, di
natura conservativa, di cui agli artt. 53 e 54 del c.c.n.I. applicato in
azienda (ne il ricorrente indica in alcun modo se, con quale atto e in che
termini la questione stessa sia stata eventualmente riproposta in sede di
reclamo), va rilevato che questa Corte ha affermato che l’accesso alla tutela
reale di cui all’art. 18,
comma 4, della legge n. 300 del 1970, divenuta eccezionale a seguito della
modifica introdotta dalla legge n. 92 del 2012,
presuppone una valutazione di proporzionalità fra sanzione conservativa e fatto
in addebito tipizzata dalla contrattazione collettiva, mentre, laddove il
c.c.n.I. rimetta al giudice la valutazione dell’esistenza di un simile rapporto
di proporzione in relazione al contesto, al lavoratore spetta la tutela
indennitaria di cui all’art.
18, comma 5, della legge n. 300 del 1970, non ravvisandosi in tale
disciplina una disparità di trattamento – connessa alla tipizzazione o meno
operata dalle parti collettive delle condotte di rilievo disciplinare – bensì
l’espressione di una libera scelta del legislatore, fondata sulla valorizzazione
dell’autonomia collettiva in materia (Cass. n.
26013 del 2018; Cass. n. 13533 del 2019).

Come sottolineato dalla controparte, l’accertato
rifiuto di eseguire un ordine impartito dal superiore gerarchico non può ritenersi
sussumibile nell’ipotesi, tipizzata dal c.c.n.I., della “trascuranza
dell’adempimento degli obblighi contrattuali e di regolamento interno”, ed
il giudizio di proporzionalità tra infrazione e sanzione è stato, pertanto,
affidato alla valutazione del giudice.

Insomma, qualora vi sia sproporzione tra sanzione e
infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta in addebito
non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi
ovvero i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa;
in tal caso il difetto di proporzionalità ricade, difatti, tra le “altre
ipotesi” di cui all’art.
18, comma 5, st.lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, della I. n. 92 del
2012, in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o
della giusta causa di licenziamento ed è accordata la tutela indennitaria c.d.
forte (Cass. n. 23669 del 2014; Cass. n. 13178
del 2017; Cass. n. 25534 del 2018, Cass. n.
18823 del 2018).

8. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, nonché
il terzo motivo del ricorso incidentale, sono inammissibili.

In linea generale, va osservato che, nonostante il
formale richiamo alla violazione di norme di legge (o di nullità del
procedimento) contenuto nella rubrica di ciascun motivo di ricorso, tutte le
censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza
impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini
della ricostruzione dei fatti.

Al riguardo va ricordato che la deduzione con il
ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non
conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della
vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza
giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del
merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una
autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti
il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura
delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito
(vedi, tra le tante: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio
2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37;
Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16
febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

La sentenza in esame (pubblicata dopo l’11.9.2012)
ricade sotto la vigenza della novella legislativa concernente l’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. (d.l. 22 giugno 2012, n. 83 convertito con
modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134).
L’intervento di modifica, come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di
questa Corte (sentenza n. 8053/2014), comporta
una ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di
legittimità, sulla motivazione di fatto, che va circoscritto al “minimo
costituzionale”, ossia al controllo sulla esistenza (sotto il profilo
della assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il
profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità
manifesta)”.

Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la
motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a
giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o
contraddittori.

La Corte ha accertato che “le risultanze
probatorie prevalenti attestano un peso [dello scatolone da trasportare]
inferiore ai 25 kg, smentendo la tesi sostenuta dall’odierno reclamante, il cui
rifiuto allo svolgimento del compito in questione risulta, quindi, privo di
adeguata giustificazione, anche in totale assenza di riscontro in ordine alle
addotte problematiche sanitarie”. … “Inoltre, il lavoratore – come
evidenziato nella contestazione disciplinare e confermato dalle registrazioni –
ha persistito nel rifiuto anche dopo l’offerta del carrello”.

In ordine all’abbandono del posto di lavoro, la
Corte ha accertato che lo stesso risultava privo di giustificazione non
apparendo “in alcun modo legittimato dall’affermata esigenza di sporgere
denuncia ai Carabinieri”, “Esigenza non supportata da idonea
spiegazione, non essendo stato precisato quale fosse l’illecito denunciato, né
– in ogni caso – indifferibile, in mancanza di elementi in base ai quali poter
ritenere l’incombente connotato da urgenza alcuna.” Dunque, al di là della
“elevata conflittualità” riscontrata, in sede di raccolta degli
elementi probatori, dalla Corte territoriale, non risulta alcuna esigenza di
allontanamento (men che mai per le plateali provocazioni ricevute dal
lavoratore).

I motivi sono inammissibili perché la pretesa
violazione di legge ex art. 36, primo comma, n. 3
cod.proc.civ. nella sostanza si traduce in una contestazione della
ricostruzione della vicenda storica quale operata dalla Corte territoriale,
preclusa dall’art. 360, co. 1, n. 5, cod.proc.civ.
Detta valutazione deve essere ribadita altresì per il (terzo) motivo
incidentale concernente la registrazione fonografica, aggiungendosi, altresì,
che trattasi di riproduzione meccanica di cui all’art.
2712 cod. civ. che ha natura di prova ammissibile nel processo civile
(Cass. n. 27424 del 2014) se colui contro il quale la registrazione è prodotta
non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta né che abbia avuto il
tenore risultante dal nastro, e sempre che almeno uno dei soggetti tra cui la
conversazione si svolge sia parte in causa (Cass., ord., n. 1250 del 2018;
Cass. n. 5259 del 2017, Cass. n. 3122 del 2015).

7. Il quarto motivo non è fondato.

La Corte territoriale, riformando il parte la
sentenza del Tribunale di Como, in considerazione del parziale accoglimento
delle domande svolte dal lavoratore reclamato, ha compensato per 1/3 le spese
di lite ed ha condannato la società reclamante al pagamento dei restanti 2/3,
pari a euro 2.000,00 per il primo grado (a fronte di un totale di euro
3.000,00) ed a euro 2.200,00 per il secondo grado (a fronte di un totale di
3.300,00). Il giudice di merito, riformando in parte la sentenza di primo
grado, ha accertato la illegittimità del licenziamento intimato ed ha
condannato il datore di lavoro al pagamento di euro 23.501,10 (pari a 15
mensilità di retribuzione), oltre accessori di legge.

Quando la sentenza di primo grado sia riformata in
appello, il giudice di secondo grado deve di norma provvedere d’ufficio alla
liquidazione delle spese anche del primo grado, dal momento che la relativa
statuizione resta travolta dalla riforma della sentenza impugnata, ai sensi
dell’art. 336 c.p.c..

La liquidazione delle spese del primo grado, quando
sia compiuta dal giudice d’appello che abbia riformato la sentenza impugnata
dinanzi a lui, deve avvenire in base all’esito complessivo della lite (cfr. ex
multis, Cass., Ord., n. 9064 del 2018; Cass. Ord., n. 1775 del 2017). Il
giudice di secondo grado deve, dunque, prendere in considerazione non già
l’esito del singolo grado di giudizio, ma l’approdo cui il giudizio è pervenuto
all’esito dell’appello, rispetto alla originaria domanda formulata dal
ricorrente.

L’assunto su cui si basa il ricorrente (causa di
valore indeterminato) è, dunque, errato, posto che il valore della controversia
va determinato in base alla somma riconosciuta al lavoratore.

Questa Corte ha affermato che l’art. 5, comma 1, quarto periodo,
della tariffa forense, approvata con d.m. n. 55
del 2014, secondo cui, nei giudizi civili per pagamento di somme di denaro,
la liquidazione degli onorari a carico del soccombente deve effettuarsi avendo
riguardo alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella
domandata, si riferisce all’accoglimento, anche parziale, della domanda
medesima, laddove, nell’ipotesi di rigetto di questa (cui deve assimilarsi ogni
altra ipotesi di diniego della pronuncia di merito), il valore della
controversia è quello corrispondente alla somma domandata dall’attore (Cass. n.
15857 del 2019).

La Corte territoriale ha, dunque, rispettato i
valori minimi delle tariffe forensi che prevedono, per le cause di valore tra i
5.200,00 e i 26.000,00 euro, un totale di compensi e spese pari a 2.694,00
euro.

8. I primi due motivi del ricorso incidentale non
sono fondati.

Ai fini della ritualità dell’irrogazione della
sanzione del licenziamento, è necessario che il dipendente abbia avuto la
possibilità concreta di esporre le proprie ragioni a difesa ma il mancato
esercizio del diritto di difesa non impedisce il pieno diritto di azione in
sede processuale (Cass. n. 19697 del 2016).
Invero, il procedimento regolato dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970
è preordinato all’esercizio del diritto di difesa del lavoratore, che può
essere esercitato nel modo che lo stesso ritiene più consono ai suoi interessi,
non sussistendo una situazione di parità sostanziale tra il lavoratore
destinatario della contestazione e il datore di lavoro che esercita un tipico
potere imprenditoriale, ossia il potere disciplinare, che trova –
nell’ordinamento – dei limiti sostanziali e procedimentali a garanzia
dell’interesse del lavoratore.

D’altra parte, la previsione del termine di cinque
giorni dalla contestazione dell’addebito di cui all’art. 7, comma 5, della legge n.
300 del 1970 per l’adozione del provvedimento disciplinare è chiaro indice
della natura facoltativa della presentazione di giustificazioni da parte del
lavoratore, potendo – il datore di lavoro – adottare la sanzione alla scadenza
del termine.

L’interpretazione dell’art. 7 citato fornita dalla
Corte territoriale è dunque corretta, in quanto la previsione di una preventiva
contestazione e di un’audizione del lavoratore, con la fissazione di un termine
minimo di attesa non è rivelatrice di un obbligo del lavoratore di rendere
delle difese, ma solo di lasciare a quest’ultimo la scelta di esercitare il
proprio diritto di difesa secondo le modalità che ritiene più efficaci.

9. In conclusione, il ricorso principale ed il
ricorso incidentale vanno respinti e le spese di lite sono compensate
interamente tra le parti visto la reciproca soccombenza.

10. Sussistono i presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale,
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art.
13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,
comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il
ricorso, a norma del comma 1-bis
dello stesso art. 13.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso principale ed il ricorso
incidentale e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di
legittimità.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30
maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti
processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e del
ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.

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