Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 dicembre 2019, n. 31620
Tributi, IRPEF, Redditi di lavoro dipendente,
Determinazione, Stock option, Diritti di opzione per l’acquisto di azioni,
Rivalutazione, Cessione, Valore da assoggettare a tassazione, Determinazione
– Condizioni
Ritenuto in fatto
1. Nel corso dell’anno 2004 a M.M., dipendente della
A. s.p.a., venivano attribuiti i diritti di opzione per l’acquisto di azioni
della A.I. s.a., controllante di A. s.p.a., ad un prezzo pari al valore delle
azioni al momento dell’offerta, per € 74.375,00. Nell’anno 2005 il contribuente
provvedeva, avvalendosi della riapertura dei termini per la rivalutazione di
titoli, quote e diritti non negoziati, ai sensi dell’art. 11 quaterdecies comma 4 del d.l.
203/2005, alla rivalutazione dei diritti di opzione, fissandone il costo in
€ 101.346,00, a seguito di una apposita perizia di stima, con versamento della
imposta sostitutiva del 4 %. Tale opzione veniva esercitata in data 15-12-2006
dal M., il quale contestualmente rivendeva le azioni ottenute per un importo di
€ 432.284,39. Ai sensi dell’art. 51,
comma 2, lettera g bis del Tuir, il datore di lavoro, senza tenere conto
della “rivalutazione dei diritti di opzione effettuata nel 2005”,
assoggettava tali somme a ritenuta Irpef calcolata dalla differenza (€
357.909,39) tra il prezzo di vendita delle azioni (€ 432.284,39) ed il prezzo
di esercizio dei diritti di opzione nel 2004 (€ 74.375,00). Il contribuente
riteneva che le somme percepite dovevano essere assoggettate a tassazione in
base alla disciplina vigente al momento della “assegnazione” delle
“stock options”, e non a quella in vigore al momento della
“assegnazione” delle “azioni”, mentre il datore di lavoro,
in sede di calcolo della ritenuta, avrebbe dovuto tenere conto della
rivalutazione dei diritti di opzione effettuata. Il M. presentava istanza di
rimborso, rilevando che lo stesso era pari alla differenza tra l’Irpef e le
addizionali pagate (sul differenziale tra prezzo di vendita e prezzo di
esercizio delle azioni) e l’imposta sostitutiva del 12,50 % applicabile sulla
plusvalenza determinata come differenza tra il prezzo di vendita ed il prezzo
di esercizio delle opzioni, aumentato del valore fiscalmente riconosciuto
derivante dalla rivalutazione.
In via subordinata, il contribuente chiedeva il
rimborso della maggiore somma riscossa, pari ad € 45.301,70, pari alla
differenza tra l’Irpef pagata sul differenziale “prezzo di vendita-prezzo
di esercizio delle opzioni” e l’Irpef dovuta sul differenziale
“prezzo di vendita-prezzo di esercizio delle opzioni”, aumentato del
valore fiscalmente riconosciuto derivante dalla rivalutazione.
2. L’Agenzia delle entrate nei novanta giorni
successivi non adottava alcun provvedimento, con la conseguente formazione del
silenzio-rifiuto.
3. La Commissione tributaria provinciale rigettava
la domanda principale ed accoglieva la domanda subordinata, ritenendo, da un
lato, che doveva essere applicata la disciplina vigente al 15-12-2006 (quindi
con le ulteriori condizioni aggiunte all’art. 51 comma 2 lettera g bis d.p.r.
917/1986), quando vi era stato l’esercizio del diritto di opzione, ma
dall’altro, che doveva tenersi conto della rivalutazione dei diritti di
opzione, operata dal ricorrente nel 2005, in quanto, seppure trattavasi di
reddito da lavoro dipendente, tuttavia, nel momento in cui il contribuente
aveva provveduto alla rivalutazione non poteva sapere che successivamente gli
importi sarebbero stati ascritti a redditi diversi, con conseguente relativa
tassazione. Inoltre, la Commissione provinciale riteneva che dalla somma
relativa alla vendita delle azioni, dopo l’esercizio del diritto di opzione,
dovevano detrarsi sia il costo sostenuto per l’acquisto delle azioni (€
74.375.00), sia il valore della rivalutazione dei diritti di opzione (€
101.346.00).
4. Avverso tale sentenza proponeva appello l’Agenzia
delle entrate, evidenziando la contraddittorietà della decisione di prime cure,
in quanto i Giudici, da un lato, avevano ritenuto che le plusvalenze dovevano
rientrare tra i redditi da lavoro dipendente, e dall’altro, avevano consentito
di ridurre la base imponibile sottraendo anche il valore della rivalutazione,
benché l’art. 5 comma 1 legge
448/2001 si riferiva soltanto alle persone fisiche “che realizzano
redditi diversi di natura finanziaria ai sensi dell’art. 81 del TUIR”, con un
ragionamento di carattere equitativo privo di aggancio normativo. La
rivalutazione dei diritti di opzione riguardava, infatti, solo
“titoli” specifici indicati dall’art. 81 d.p.r. 917/1986.
5.Il contribuente proponeva appello incidentale, in
relazione al rigetto della domanda principale, tesa ad ottenere l’applicazione
della normativa anteriore al d.l. 4-7-2006, convertito in legge 248/2006, come al successivo d.l. 262/2006, convertito in legge 286/2006.
6. La Commissione tributaria regionale accoglieva
l’appello principale proposto dalla Agenzia delle entrate e rigettava l’appello
incidentale del contribuente, evidenziando che le azioni erano entrate nel
patrimonio del contribuente solo con l’esercizio del diritto di opzione, in
data 15-12-2006, quindi con applicazione della normativa sopravvenuta, a
decorrere dal 3-10-2006, data di entrata in vigore del d.l. 262/2006, convertito in legge 286/2006, senza alcuna violazione dell’art. 3 della legge 212/000, in
quanto non vi era stata una modifica dell’Irpef, ma solo un adeguamento
normativo volto a ricondurre fra i redditi da lavoro dipendente gli incrementi
ricavati dall’esercizio del diritto di opzione, tassabile, quindi, in base al
regime fiscale vigente in quel momento. L’appello principale della Agenzia era
fondato, in quanto non si poteva accogliere la domanda subordinata del
ricorrente solo perchè lo stesso all’epoca della rivalutazione (anno 2005) era
convinto di poter fruire della tassazione da capitai gain al 12,5 %.
7. Avverso tale sentenza propone ricorso per
cassazione il contribuente, depositando memoria scritta.
8. Resiste con controricorso l’Agenzia delle
entrate.
9. Con ordinanza in data 20-3-2019 la Corte ha
disposto l’acquisizione del fascicolo d’ufficio dei giudizi di merito, al fine
di verificare la tempestività della costituzione della appellante Agenzia delle
entrate.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo di impugnazione il
contribuente deduce “violazione e/o falsa applicazione , ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 22, comma 3, d.lgs. 546/1992,
siccome richiamato, per il giudizio di appello, dall’art. 53, comma 2, del medesimo
decreto”, in quanto l’Agenzia delle entrate, dopo aver notificato
l’appello in data 26-9-2011, non ha provveduto al deposito della ricevuta di
spedizione della raccomandata nel termine di trenta giorni dalla notificazione,
mentre ha depositato tale ricevuta solo il 31-8-2012, quindi a distanza di
oltre 11 mesi dalla notificazione dell’appello.
1.1. Tale motivo è infondato.
Invero, il termine di trenta giorni per la
costituzione in giudizio del ricorrente (o dell’appellante), che si avvalga per
la notificazione del servizio postale universale, decorre non dalla data della
spedizione diretta del ricorso a mezzo di raccomandata con avviso di
ricevimento, ma dal giorno della ricezione del plico da parte del destinatario
(Cass., Sez.Un., 29 maggio 2017, n. 13452). L’art. 22, comma 1, d.lgs. 546/1992,
richiamato per l’appello dall’art.
53 comma 2, del medesimo d.lgs., prevede che “il ricorrente, entro
trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità,
deposita, nella segreteria della commissione tributaria adita…l’originale del
ricorso notificato…ovvero copia del ricorso consegnato o spedito per posta,
con fotocopia della ricevuta di spedizione o della spedizione per raccomandata
a mezzo del servizio postale”.
Per questa Corte, a Sezioni Unite (13452/2017), nel
processo tributario, non costituisce motivo d’inammissibilità del ricorso (o
dell’appello), che sia stato notificato direttamente a mezzo del servizio
postale universale, il fatto che il ricorrente (o l’appellante), al momento
della costituzione entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della
raccomandata da parte del destinatario, depositi l’avviso di ricevimento del
plico e non la ricevuta di spedizione, purché nell’avviso di ricevimento
medesimo la data di spedizione sia asseverata dall’ufficio postale con
stampigliatura meccanografica ovvero con proprio timbro datario. Solo in tal
caso, infatti, l’avviso di ricevimento è idoneo ad assolvere la medesima
funzione probatoria che la legge assegna alla ricevuta in loro mancanza, la non
idoneità della mera scritturazione manuale o comunemente dattilografica della
data di spedizione sull’avviso di ricevimento può essere superata, ai fini
della tempestività della notifica del ricorso (o dell’appello), unicamente se
la ricezione del plico sia certificata dall’agente postale come avvenuta entro
il termine di decadenza per l’impugnazione dell’atto (o della sentenza).
Nella specie, secondo il ricorrente, l’Agenzia delle
entrate ha depositato la fotocopia della spedizione per raccomandata a mezzo
del servizio postale in data 31-8-2012, solo 11 mesi dopo la notificazione
dell’appello alla controparte in data 26-9-2011, con conseguente
inammissibilità dell’appello.
Per questa Corte, infatti, la prova della
tempestività della costituzione in giudizio del ricorrente (o dell’appellante)
entro trenta giorni dalla spedizione dell’atto introduttivo a mezzo del servizio
postale deve essere fornita contestualmente a detta costituzione, al fine di
consentire la verifica officiosa delle condizioni di ammissibilità del
procedimento – in applicazione del principio, la S.C. ha confermato la
decisione impugnata che aveva ritenuto inammissibile il gravame proposto
dall’Agenzia delle entrate che aveva depositato la distinta attestante la data
di spedizione della raccomandata soltanto all’udienza – (Cass., 11 giugno 2018, n. 15182).
La sanzione della inammissibilità va rilevata anche
d’ufficio dal giudice e non può essere sanata dalla costituzione della
controparte (cass., 9 agosto 2016, n. 16758).
Tuttavia, nella specie, dai documenti acquisiti,
relativi ai fascicoli di merito, risulta che l’appello è stato redatto dalla
Agenzia delle entrate il 26-9-2011, è stato spedito il 26-9-2011 ed è stato
ricevuto, con espressa certificazione dell’agente postale, il 28-9-2011, con
successivo deposito in segreteria il 24-10-2011, quindi entro i trenta giorni
dalla ricezione dell’appello.
Pertanto, l’avviso di ricevimento, depositato
tempestivamente, contiene la valida indicazione della data di spedizione
dell’appello.
2. Con il secondo motivo di impugnazione il
ricorrente deduce “violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 3, comma 1, secondo periodo,
legge 212/2000, in relazione all’art.
51, comma 2, lettera g-bis, d.p.r. 917/1986 nella formulazione ratione
temporis applicabile”, in quanto nel 2004, al momento della attribuzione
dei diritti di opzione, ai sensi dell’art.
51 comma 2 lettera g bis d.p.r. 917/1986, l’incremento di valore delle
azioni era imponibile solo nella misura del 12,5 %, con il rispetto di due
condizioni (entrambe rispettate dal contribuente), mentre successivamente vi
sono state tre modifiche normative nel 2006, con l’aggiunta di tre ulteriori
condizioni (mantenimento, nei cinque anni successivi alla data di assegnazione,
di un investimento nella azioni ricevute almeno pari alla differenza tra il
valore normale delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare
corrisposto dal beneficiario; l’esercitabilità dell’opzione non prima che siano
scaduti tre anni dalla sua attribuzione; la quotazione delle azioni oggetto
delle stock option quando l’opzione diviene esercitarle).
Per il ricorrente, in assenza di una disciplina
transitoria, la normativa sopravvenuta nel 2006 (d.l.
262/2006, convertito in legge 286/2006) è
applicabile ai diritti di opzione esercitati dopo la data di entrata in vigore
del decreto legge (3 ottobre 2006), ma a partire dal periodo di imposta 2007,
quindi successivo a quello in corso al momento di entrata in vigore delle
modifiche, ai sensi dell’art. 3,
comma 1, seconda parte della legge 212/2000.
2.1. Tale motivo è infondato.
Invero, a seguito del d.l.
262/2006, entrato in vigore il 3-10-2006, la disciplina impositiva sulle
stock options è stata profondamente modificata, con l’inserimento di ulteriori
tre condizioni in aggiunta alle prime due.
L’art. 51
comma 2 lettera g bis del d.p.r. 917/1986 (determinazione del reddito di
lavoro dipendente), quindi prevede, dopo il 2-10-2006, che “Non concorrono
a formare il reddito :….g-bis) la differenza tra il valore delle azioni al
momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal dipendente, a
condizione che il predetto ammontare sia almeno pari al valore delle azioni
stesse alla data dell’offerta; se le partecipazioni, i titoli…posseduti dal
dipendente rappresentano una percentuale di diritti di voto esercitabili
nell’assemblea ordinaria o di partecipazione al capitale o al patrimonio
superiore al 10 per cento, la predetta differenza concorre in ogni caso a
formare il reddito”.
La disciplina precedente, dunque, fondata sulla
esenzione fiscale, era volta a stimolare i dipendenti al miglioramento
dell’azienda, collegando, mediante le stock options, parte della retribuzione
ad una componente variabile che si incrementava con la crescita di valore della
azienda stessa, e trovando causa nel maggior impegno profuso dal dipendente,
incentivato dalla prospettiva di maggiori guadagni (Cass.,
18917/2018; Cass., 24 febbraio 2017, n. 4774).
Con le modifiche introdotte nel 2006, invece, le
finalità perseguite dal legislatore sono mutate, identificandosi nella
“fidelizzazione” del dipendente (Cass.,
18917/2018).
L’art. 51
comma 2 bis, poi, stabilisce, nella versione all’epoca vigente, che
“la disposizione di cui alla lettera g-bis del comma 2 si rende
applicabile esclusivamente quando ricorrano congiuntamente le seguenti
condizioni:a)che l’opzione sia esercitabile non prima che siano scaduti tre
anni dalla sua attribuzione; b) che, al momento in cui l’opzione è
esercitabile, la società risulti quotata in mercati regolamentati; c) che il
beneficiario mantenga per almeno i cinque anni successivi all’esercizio
dell’opzione un investimento nei titoli oggetto di opzione non inferiore alla
differenza tra il valore delle azioni al momento dell’assegnazione e
l’ammontare corrisposto dal dipendente”. Costituisce, però, principio
consolidato di questa Corte, cui si intende aderire, quello per cui, in tema di
determinazione del reddito di lavoro dipendente, la disciplina di tassazione
applicabile “ratione temporis” alle cosiddette “stock
options” va individuata in quella vigente al momento dell’esercizio del
diritto di opzione da parte del dipendente, indipendentemente dal momento in
cui l’opzione sia stata offerta, atteso che l’operazione cui consegue la
tassazione non va identificata nell’attribuzione gratuita del diritto di
opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo
esercizio di tale diritto mediante l’acquisto delle azioni, che costituisce il
presupposto dell’imposizione commisurata proprio sul prezzo delle stesse e che
è rimesso alla libera scelta del beneficiato (Cass.,
18917/2018; Cass.Civ., 12 aprile 2017, n. 9465;
in termini analoghi Cass.Civ., 20 maggio 2011, n.
11214; Cass.Civ., 13088/2012; Cass.Civ.,
11413/2015).
Nella specie il diritto di opzione, con l’acquisto
delle azioni, è stato esercitato il 15-12-2006, quando era già in vigore il d.l. 262/2006.
Inoltre, in tal caso, l’applicazione del d.l. 262/2006 non determina una applicazione
retroattiva della norma tributaria, poiché l’operazione alla quale consegue la
tassazione non va individuata nell’attribuzione gratuita del diritto di
opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo
esercizio del diritto di opzione mediante l’acquisto delle azioni, e che è
rimesso alla libera scelta del beneficiato, il quale può esercitarlo o meno
secondo le modalità ed i tempi che riterrà opportuni, alla stregua delle
proprie insindacabili valutazioni (Cass.Civ., 12
aprile 2017, n. 9465).
Inoltre, si rileva che le disposizioni dello statuto
del contribuente, che costituiscono meri criteri guida per il giudice, in sede
di applicazione ed interpretazione delle norme tributarie, anche anteriormente
vigenti, per risolvere eventuali dubbi ermeneutici, non hanno, nella gerarchia
delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria, con la conseguenza che esse
non possono fungere da norme parametro di costituzionalità, né consentire la
disapplicazione della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse (Cass.Civ., 6 settembre 2017, n. 20812).
Peraltro, si è anche osservato che deve escludersi,
non solo che l’applicazione della disciplina in vigore dal 3 ottobre 2006 abbia
violato il principio di non retroattività della norma tributaria, ma anche che
il contribuente possa avere fatto affidamento sulla cristallizzazione di una
disciplina agevolativa, in quanto non vi era certezza nell’incremento di valore
delle azioni al momento della offerta del diritto di opzione (Cass.,
19817/2018; vedi anche Corte Cost., n. 149 del
2017, per la quale il valore del legittimo affidamento non esclude che il
legislatore possa adottate disposizioni che modifichino la disciplina dei
rapporti giuridici, in senso sfavorevole agli interessati, purché tali
disposizioni non trasmodino in un regolamento irrazionale).
Del resto, l’art. 36 comma 25 del d.l. 223 del
4-7-2006, convertito in legge 248/2006,
laddove modifica l’art. 51 comma 2
bis del d.p.r. 917/1986, si applica, ai sensi del comma 26 dell’art. 36 “alle
azioni la cui assegnazione ai dipendenti si effettua successivamente alla data
di entrata in vigore del presente decreto”.
Non si può, quindi, condividere la tesi del
controricorrente, fatta propria dalla Commissione regionale, per cui il d.l. 262/2006, pur essendo entrato in vigore il 3
ottobre 2006, tuttavia ha acquisito concreta efficacia solo a partire dal 1
gennaio 2007, quindi dall’anno di imposta successivo all’entrata in vigore,
come previsto dall’art. 3, comma
1, ultimo periodo, della legge 212/2000 (cfr. pagina 23 del controricorso).
Infatti, anche nel precedente di legittimità
richiamato (Cass.Civ., 12 aprile 2017, n. 9465),
si trattava proprio di una richiesta di rimborso del contribuente di un credito
Irpef relativo all’anno 2006, con l’acquisto delle azioni in data 14-11-2006,
sicché le due ipotesi concrete sono perfettamente sovrapponibili. Inoltre, per
questa Corte (Cass., 1 marzo 2019, n. 6118) la
disposizione agevolativa che esclude l’imputazione della plusvalenza per le cd.
“stock options” ai sensi dell’art. 51, comma 2, lett. g-bis), del
d.P.R. n. 917 del 1986, nella formulazione introdotta dal d.l. n. 262 del 2006, conv. in I. n. 286 del 2006, non soggiace all’applicazione
dell’art. 3, comma 1, della I. n.
212 del 2000, relativo ai soli tributi periodici destinati a durare nel
tempo. Rientrano tra i tributi “periodici” solo quelli il cui
presupposto è destinato a durare nel tempo ed il cui pagamento è dovuto per
anno solare di riferimento. I tributi erariali Ires (o Iva) non sono tributi periodici,
qualifica questa riferibile solo a determinati tributi locali caratterizzati da
causa debendi di tipo continuativo, in cui la prestazione erogata dell’ente
impositore si protrae nel tempo (Cass., 4283/2010;
Cass., 2941/2007).
3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente
deduce “violazione, ex art. 360 n. 3 c.p.c.,
dell’art. 163 del d.p.r. 917/1986
in combinato disposto con l’art. 53 Cost., e
conseguente falsa applicazione dell’art.
5 della legge n. 448/2001, cui rinvia l’art. 11 quaterdecies, comma 4, d.l.
203/2005, convertito con legge 248/2005”,
in quanto avendo provveduto il contribuente alla rivalutazione fiscale a
pagamento, con il versamento dell’imposta sostitutiva, ai sensi dell’art. 5 della legge 448/2001, tale
rivalutazione fiscale doveva essere portata in aumento del costo di acquisto
delle azioni oggetto di opzione. Pertanto, dal valore delle azioni al momento
dell’esercizio del diritto di opzione, con contestuale vendita a terzi, deve
essere detratto non solo il costo di acquisto del diritto di opzione sulle
azioni, relativo al 2004, ma anche il “costo fiscalmente
riconosciuto”, ottenuto con la rivalutazione del diritto di opzione ed il
versamento dell’imposta sostitutiva. Diversamente, si verrebbe a tassare con
Irpef una somma , ossia quella corrispondente al valore della rivalutazione di
cui si nega rilevanza fiscale, che è già stata assoggettata a tassazione
mediante una imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, con conseguente
violazione del divieto di “doppia imposizione” ai sensi dell’art. 163 d..p.r. 917/1986. I
diritti di opzione, a differenza degli altri titoli ammessi a beneficiare della
rivalutazione fiscale a pagamento, scompaiono nel momento stesso del loro
esercizio ed il loro costo fiscale inevitabilmente si trasferisce e si
incorpora nel valore fiscale delle azioni che sono sottoscritte con il loro
esercizio, con conseguente rilevanza del medesimo costo fiscale al momento del
realizzo del reddito imponibile derivante dalla vendite di tali azioni.
3.1. Tale motivo è infondato.
Invero, non è condivisibile l’assunto del
contribuente, non potendosi tenere conto della rivalutazione effettuata nel
2005 in ordine ai diritti di opzione sulle azioni, ai sensi dell’art. 5 della legge 248/2001.
Infatti, l’art. 11 quaterdecies d.l. 203/2005
ha riaperto i termini per procedere alla rivalutazione di titoli, quote e
diritti non negoziati posseduti al 1 gennaio 2005.
L’art. 5
della legge 448 del 2001 dispone che “agli effetti delle plusvalenze e
minusvalenze di cui all’art. 81,
comma 1, lettere c) e c-bis), del testo unico delle imposte sui redditi…per
i titoli, le quote o i diritti non negoziati nei mercati regolamentari,
posseduti alla data del 1 gennaio 2002, può essere assunto, in luogo del costo
o valore di acquisto, il valore a tale data della frazione del patrimonio netto
della società, associazione o ente, determinato sulla base di una perizia
giurata di stima…”
Il costo di acquisto così “rideterminato”
è utilizzabile solo ai fini del calcolo dei redditi “diversi” di
“natura finanziaria” di cui all’art. 81 comma 1, lettere c) e c-bis
d.p.r. 917/1986.
Pertanto, una volta che con il d.l. 262/2006, convertito in legge 286/2006, la plusvalenza, in assenza delle
condizioni introdotte, costituisce reddito di lavoro dipendente, e non reddito
diverso di natura “finanziaria”, non può tenersi conto della
rivalutazione nel frattempo effettuata.
Per questa Corte, infatti, l’art. 5 della legge 448/2001,
destinato a disciplinare la tassazione di plusvalenze derivanti da redditi
diversi di natura finanziaria, non può essere invocata ed applicata ai fini
della tassazione di plusvalenze imputabili a redditi di lavoro dipendente (Cass., 1 marzo 2019, n. 6118).
Nè tale reddito può mutare natura, solo perchè il
contribuente, nel momento in cui, nel 2005, ha provveduto alla rivalutazione
del diritto di opzione, confidava nella circostanza che non vi sarebbero stati
mutamenti normativi, con conseguente futura tassazione in regime di “redditi
diversi”.
4. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste
a carico del ricorrente, per il principio della soccombenza, e si liquidano
come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore
dell’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si
liquidano in complessivi € 4.000,00, oltre spese prenotate al debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.