Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 dicembre 2019, n. 31521
Soppressione del posto di lavoro, Licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, Ragioni economiche, Impossibilità di una
diversa ricollocazione lavorativa
Fatti di causa
1. Il Tribunale di Parma, con la sentenza n. 145 del
2017, ha respinto l’opposizione proposta dalla società F.lli G. spa avverso
l’ordinanza emessa dal medesimo Tribunale il 22.7.2016, che aveva ritenuto non
fondato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (soppressione del
posto di lavoro) intimato all’ing. S.C., Quadro della predetta società, con
lettera del 10.12.2014. Ha conseguentemente dichiarato risolto il rapporto di
lavoro con effetto dalla data del licenziamento, con condanna della società al
pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva pari a 14 mensilità
della retribuzione globale di fatto.
2. La Corte di appello di Bologna, con la pronuncia
n. 1191 del 2017, decidendo sui reclami hic et inde proposti, ha respinto
quello incidentale presentato dal C. mentre, in accoglimento di quello
principale formulato dalla società, ha dichiarato la legittimità del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui è causa rigettando
l’originario ricorso del lavoratore.
3. Per quello che interessa in questa sede la Corte
territoriale, ritenuto formatosi un giudicato interno in ordine alla
sussistenza delle ragioni economiche allegate a sostegno del licenziamento per
giustificato motivo oggettivo, ha rilevato che, pur volendo dare attuazione pratica
all’orientamento giurisprudenziale di legittimità secondo il quale l’obbligo di
repechage deve essere adempiuto dal datore di lavoro non solo con riferimento
alle cd. mansioni equivalenti ma anche con riguardo a posizioni di lavoro
inferiori, ove rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore e
compatibili con l’assetto organizzativo del datore di lavoro, nel caso in
esame, dall’istruttoria svolta, non era possibile una diversa ricollocazione
lavorativa del C..
4. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto
ricorso per cassazione S.C. affidato ad un motivo, cui ha resistito con
controricorso la F.lli G. spa.
Ragioni della decisione
1. Con
l’unico articolato motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa
applicazione di norme di diritto, in particolare degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del
1966 e degli artt. 2103, 1175, 1375 e 2697 cc, per avere la Corte territoriale ritenuto
assolto l’obbligo di repechage in contrasto con le norme di legge e con i
principi affermati in giurisprudenza secondo cui al lavoratore licenziando
devono essere offerte, in alternativa al licenziamento, non solo posizioni di
lavoro relative a mansioni equivalenti, ma anche quelle riguardanti mansioni
inferiori.
2. Preliminarmente va evidenziato che la mancata
comunicazione, per l’odierna udienza, per intervenuto decesso del Procuratore
domiciliatario della controricorrente, cui però è seguita quella all’altro
co-difensore, non produce alcun effetto, anche ai fini della regolarità
dell’avviso, avendo la società nominato due difensori con mandato disgiunto, di
talché la automatica inefficacia dell’elezione di domicilio comporta che le
comunicazioni e le notifiche debbano essere effettuate al Procuratore rimasto
in vita (in termini Cass. n. 22542 del 2007; Cass. n. 6781 del 2016).
3. Ciò premesso, osserva il Collegio che il motivo non
è fondato.
4. L’obbligo di repechage, ossia l’onere di non
potere ragionevolmente utilizzare il dipendente interessato dal recesso in
altre mansioni diverse da quelle che svolgeva, costituisce una creazione
giurisprudenziale (tratta dalla esegesi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966,
formante indiscutibilmente parte del diritto vivente.
5. E’ unanimamente riconosciuto che esso appartenga
alla tematica del giustificato motivo oggettivo del licenziamento e che
richieda la prova datoriale ex articolo
5 della legge n. 604 del 1966 (cfr. per tutte Cass.
2.5.2018 n. 10435).
6. La finalità dell’istituto è quella di garantire,
attraverso un contemperamento tra l’interesse del datore di lavoro a perseguire
una organizzazione produttiva ed efficiente e quello del lavoratore diretto
alla stabilità del posto, che il recesso datoriale rappresenti l’extrema ratio
cui ricorrere (in termini cfr. Cass n. 23698 del
2015).
7. La regola del repechage, che non è applicabile a
tutte le tipologie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, viene
sicuramente in rilievo nella fattispecie in esame ove la causale del recesso
intimato al C. è stata individuata nella soppressione della sua posizione
lavorativa.
8. La problematica specifica sottesa al motivo,
circa la inutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni anche inferiori,
coinvolge una serie di questioni – di cui è opportuno fare cenno- riguardanti
sia l’obbligo di prospettazione che incombe sul datore di lavoro in ordine
all’utile tentativo di reimpiego del lavoratore anche in mansioni inferiori,
sia il contenuto dell’obbligo datoriale in relazione alla individuazione delle
mansioni stesse cui potenzialmente adibire il destinatario del recesso.
9. La relativa analisi deve essere svolta avendo
riguardo alla normativa antecedente alla modifica dell’art. 2103 cc, come modificato dall’art. 3 del D.Igs. n. 81 del 2015,
applicabile ratione temporis al caso di specie.
10. Orbene, quanto alla prima tematica, occorre
richiamare il principio, statuito in sede di legittimità (Cass 8.3.2016 n. 4509; Cass. 19.11.2015 n. 23698) secondo cui, in
attuazione del principio di buona fede e di correttezza, il datore di lavoro
deve prospettare al dipendente, al fine di ottenerne il consenso, la
possibilità di reimpiego in mansioni inferiori.
11. L’eventuale consenso, a tale prospettazione,
deve essere anteriore o coevo al licenziamento e non può essere successivo ad
esso (cfr. Cass. 18.3.2009 n. 6552).
12. Il consenso, inoltre, deve essere espresso
liberamente, anche in forma tacita, ma attraverso fatti univocamente attestanti
la volontà del lavoratore di aderire alla modifica “in peius” delle
mansioni (cfr. Cass. 26.2.2019 n. 5621; Cass.
7.2.2005 n. 2375).
13. La motivazione dell’eventuale licenziamento,
poi, anche dopo la novellazione dell’art. 2 comma 2 della legge n. 604
del 1966 per opera dell’art. 1
comma 37 della legge n. 92 del 2012, non deve essere dettagliata sul punto,
nel senso di dovere esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di
diritto alla base del provvedimento, ma deve essere in grado di consentire al
lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso (cfr.
Cass. 7.3.2019 n. 6678).
14. Quanto alla seconda questione sopra richiamata,
è pacifico che la possibilità del cd. repechage vada condotta con riferimento a
mansioni equivalenti.
15. La giurisprudenza si è, però, posta il problema
se l’espulsione del lavoratore dal processo produttivo non possa avvenire se
non prima che non sia stato tentato ogni utile tentativo di reimpiego
all’interno dell’azienda, anche in mansioni inferiori.
16. Su tale tema è possibile evidenziare varie
posizioni nell’ambito della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 22798 del 2016).
17. Secondo un risalente orientamento che poneva
come presupposto del proprio argomentare il divieto del “patto di
demansionamento”, sancito dall’art. 2103 cc
nella versione antecedente alla novella legislativa del 2015, l’impossibilità
di adibire il lavoratore a mansioni inferiori, in ottemperanza a tale divieto,
poteva risolversi anche in un pregiudizio per il prestatore stesso, così
escludendo del tutto la possibilità di impiego in mansioni inferiori.
18. Si è poi affermato un altro indirizzo che,
proprio partendo da alcune eccezioni al divieto del patto di demansionamento
previste dal legislatore (per esempio: a) art. 4, comma 11, legge n. 293/91:
nel corso delle procedure di mobilità, quando gli accordi sindacali prevedono
il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori in esubero con
l’assegnazione di mansioni diverse e, più in generale, quando l’accordo
costituisce l’unica alternativa al licenziamento; b) art. 7, comma 5, D.Ivo n. 151/2001:
nel caso della lavoratrice spostata obbligatoriamente ad altre mansioni,
durante il periodo della gestazione e fino a sette mesi dopo il parto, per
evitare pregiudizi alla sua salute e comunque con retribuzione corrispondente
alle mansioni precedentemente svolte; c) art. 4 comma 4, legge n. 68/1999:
per il lavoratore divenuto inabile allo svolgimento delle proprie mansioni in
conseguenza della violazione da parte del datore di lavoro, accertata in sede
giurisdizionale, delle norme in materia di sicurezza e igiene de/lavoro; d) art. 42 Dlvo n. 81/2008: per il
lavoratore giudicato inidoneo alle mansioni specifica ed adibito ad altra
mansione compatibile con il suo stato di salute) ha ritenuto possibile
l’interesse al mantenimento del posto di lavoro rispetto alla estinzione del
rapporto.
19. In particolare, nell’ipotesi di sopravvenuta
infermità permanente, con conseguente impossibilità della prestazione lavorativa,
è stato, infatti, affermato il principio con il quale si è valorizzata
l’assegnazione a mansioni inferiori del lavoratore divenuto fisicamente
inidoneo, costituendo tale possibilità un adeguamento del contratto alla nuova
situazione di fatto: adeguamento che deve essere sorretto, oltre che
dall’interesse, anche dal consenso del prestatore (cfr. Cass. n. 7755 del 1998; Cass. n. 15500 del 2009; Cass. n. 18535 del 2013).
20. In tal caso le esigenze di tutela del diritto
alla conservazione del posto di lavoro sono state considerate prevalenti su
quelle della salvaguardia della professionalità del lavoratore.
21. Nel licenziamento per giustificato motivo
oggettivo, la giurisprudenza di legittimità ha operato una sintesi dei due
orientamenti affermando sì la possibilità di un reimpiego del lavoratore in
mansioni inferiori, purché queste rientrino nel bagaglio professionale dello
stesso (Cass. 8.3.2016 n. 4509; Cass. n. 21579 del 2008).
22. A tal proposito si è anche precisato che,
qualora il lavoratore svolga ordinariamente in modo promiscuo mansioni
inferiori, oltre quelle soppresse, a carico del datore di lavoro sussiste
l’obbligo di repechage anche in ordine alle mansioni inferiori (Cass. n. 13379 del 2017).
23. In tale ricostruzione vanno tenuti,
naturalmente, pur sempre in considerazione, per l’operatività dell’istituto, i
due limiti rappresentati dalla ragionevolezza dell’operazione che non deve
comportare rilevanti modifiche organizzative ovvero comportanti ampliamenti di
organico o innovazioni strutturali (Cass. n. 239
del 2005; Cass. n. 11427/2000) e dal
rispetto della dignità del lavoratore (Cass. n. 16305 del 2004), oltre alla
necessità del consenso di questi.
24. Delineato in tal modo il quadro giuridico, nel
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, può ritenersi che non vengono
in rilievo, ai fini dell’obbligo del repechage, tutte le mansioni inferiori
dell’organigramma aziendale, ma solo quelle che siano compatibili con il
bagaglio professionale del prestatore (cioè che non siano disomogenee e
incoerenti con la sua competenza) ovvero quelle che siano state effettivamente
già svolte, contestualmente o in precedenza.
25. Ciò è possibile affermare, ai fini del
bilanciamento di interessi di cui sopra, in un’ottica di compatibilità e di non
ingerenza nella determinazione dell’assetto aziendale, non essendo previsto un
obbligo del datore di lavoro, secondo la precedente versione dell’art. 2103 cc, di fornire un’ulteriore o diversa
formazione del prestatore per la salvaguardia del posto di lavoro (cfr. in
motivazione Cass. n. 5963 del 2013).
26. Resta fermo, comunque, che grava sul datore di
lavoro l’obbligo di provare -in base a circostanze oggettivamente riscontrabili-
che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la
diversa posizione libera in azienda, altrimenti il rispetto dell’obbligo di
repechage risulterebbe sostanzialmente affidato ad una mera valutazione
discrezionale dell’imprenditore (cfr. Cass. n.
23340 del 2018).
27. Venendo, quindi, all’esame del motivo, va
osservato che la censura, fondata sull’assunto che la possibilità del cd.
“repechage” debba essere condotta con riferimento anche a tutte le
mansioni inferiori, va respinta atteso che la gravata sentenza risulta essere
conforme agli orientamenti sopra esposti, cui si intende dare seguito, in tema
di violazione dell’obbligo di reimpiego, in relazione al quale, con un
accertamento in fatto, non sindacabile perché logicamente ed adeguatamente
motivato, è stato accertato che l’inquadramento formale dei due lavoratori C. e
G. (rispettivamente impiegato tecnico di III livello ed operaio di III livello)
era ben inferiore a quello del C. ed i ruoli rivestiti non erano comparabili
con quella dell’Ing. C., unico ad essere inquadrato come “Quadro”,
così come quello degli altri due lavoratori B. e D., che con riguardo alla
tipologia dei contratti di assunzione da essi stipulati e alle attività svolte,
così escludendo ogni possibilità di ricollocazione dell’odierno ricorrente.
28. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
29. Al rigetto del ricorso segue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si
liquidano come da dispositivo.
30. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.
115/02, nel testo risultante dalla legge
24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti
processuali, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di
legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie della misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro
200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del DPR n.
115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.