Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 novembre 2019, n. 29102

Lavoro, Estinzione del rapporto, Licenziamento individuale
per giustificato motivo, Manifesta insussistenza del fatto, Nozione,
Impossibilità del “repechage”

 

Fatti di causa

 

1. La Corte di Appello di Napoli, nell’ambito di un
procedimento ex lege n. 92 del 2012, con
sentenza del 23 gennaio 2018, in riforma della pronuncia di primo grado, ha
annullato il licenziamento per motivo oggettivo intimato il 19 gennaio 2016 a
V. F. da P.I. Spa, condannando la società alla reintegrazione del dipendente ed
al pagamento della retribuzione globale di fatto dal recesso nella misura
massima di 12 mensilità, oltre contributi e accessori.

2. La Corte ha ritenuto viziato il recesso sia per
insussistenza del giustificato motivo indicato dalla società nella
comunicazione del dicembre 2015, atteso che “i motivi del licenziamento
non sono da ricondursi alla inidoneità del V., bensì al calo dei volumi di
corrispondenza”, sia perché la società “non ha neanche provato la
impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra postazione
lavorativa”.

La Corte, in punto di tutela applicabile, ha
affermato che “l’illegittimità del licenziamento – connessa alla mancata
prova sia della residualità e marginalità della prestazione del lavoratore sia
dell’inesistenza di altre mansioni cui adibirlo – comporta l’applicazione dell’art. 18 comma 4 nella sua
formulazione modificata dalla I. n. 92/2012”.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso P.I. Spa con 2 motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito il
lavoratore con controricorso.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio a mente del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., in relazione all’art. 2 della I. n. 604 del 1966,
“per avere la Corte di Appello erroneamente individuato i motivi posti a
base del licenziamento, risultanti dalla lettera di licenziamento”.

Si sostiene che “del tutto illogica, oltre che
distaccata dall’evidenza fattuale, è la conclusione della Corte di Appello, che
non ha tenuto conto che la capacità residuale del lavoratore è divenuta
inservibile a causa del processo di meccanizzazione dello smistamento”.

Si evocano le “affermazioni dei testi” in
base alle quali risulterebbe che “il lavoratore, in relazione alla capacità
lavorativa residua, aveva svolto, al momento del licenziamento, una prestazione
oggettivamente di tipo marginale e non apprezzabile, e quindi, in definitiva,
non suscettibile di fruizione da parte del datore di lavoro”.

Sempre “la prova per testi” avrebbe
dimostrato “che non esistono posizioni lavorative compatibili con le
capacità residue del ricorrente”.

3. La censura è inammissibile.

Innanzitutto perché tende ad una rivalutazione della
quaestio facti – anche concernente l’interpretazione della lettera di
licenziamento che invece “è rimessa, al pari di tutti gli atti di natura
privata, all’apprezzamento del giudice di merito, insindacabile se congruamente
motivato e corretto sotto il profilo logico-giuridico” (tra le altre: Cass. n. 31496 del 2018) – violando, mediante il
riferimento alle risultanze probatorie, gli enunciati posti dalle Sezioni unite
di questa Corte (sent. nn. 8053 e 8054 del
2014) quanto al novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c.;
in secondo luogo perché la declaratoria di illegittimità del licenziamento si
fonda, secondo i giudici d’appello, sia sulla mancanza del giustificato motivo
di recesso indicato dalla società, sia sulla violazione del cd. obbligo di
repechage e quest’ultimo aspetto non viene adeguatamente censurato da parte
ricorrente, se non con riferimento ad una diversa inammissibile valutazione del
materiale istruttorio, per cui l’illegittimità del licenziamento resterebbe comunque
ferma, non consentendo la cassazione della decisione impugnata.

4. Il secondo motivo denuncia “violazione dell’art. 18, commi 4, 5 e 7, della I.
n. 300 del 1970”, perché “la Corte di Appello, all’esito
dell’istruttoria, non avendo ritenuto raggiunta la prova della impossibilità di
ricollocare il lavoratore, non avrebbe potuto concludere che il giustificato
motivo fosse ‘manifestamente’ insussistente, pertanto, una volta accertata
l’illegittimità del licenziamento, avrebbe dovuto comunque dichiarare risolto
il rapporto di lavoro con la corresponsione di un indennizzo al
lavoratore”.

5. Il motivo, come formulato, non può trovare
accoglimento.

Esso è stato prospettato riflettendo la tesi – che
ha avuto ampio riscontro in dottrina – secondo cui la violazione del cd.
obbligo di repechage non consentirebbe l’operatività della tutela
reintegratoria nel regime previsto dall’art. 18 I. n. 300 del 1970
come modificato dalla I. n. 92 del 2012.

Come noto l’assunto non è stato condiviso da questa
Corte che, con la sentenza n. 10435 del 2018,
ha sancito, risolvendo la relativa “questione di particolare rilevanza …
in funzione nomofilattica”, che “la verifica del requisito della
‘manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento’ concerne
entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva,
l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia
l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore”.

Nella specie la Corte territoriale, chiarito in
premessa che “i motivi del licenziamento non sono da ricondursi alla
inidoneità del V., bensì al calo dei volumi di corrispondenza” (e quindi
ad una ragione economica), ha ritenuto che non fosse stata in alcun modo
provata “la impossibilità di ricollocare il lavoratore in altra postazione
lavorativa”: di qui la evidente e facilmente verificabile assenza di uno
dei presupposti che ha condotto la Corte all’applicazione della tutela
reintegratoria.

Secondo l’arresto di questa Corte in precedenza
richiamato l’apprezzamento che, sul piano probatorio, registri l’assenza di uno
dei presupposti giustificativi del licenziamento tale da indurre il
convincimento circa “la chiara pretestuosità del recesso, (è) accertamento
di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di
legittimità” (Cass. n. 10435/2018 cit.;
v. poi Cass. n. 32159 del 2018).

6. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza liquidate come da
dispositivo.

Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti
processuali di cui all’art. 13, co.
1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 11 novembre 2019, n. 29102
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: