Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 03 dicembre 2019, n. 31532
Appropriazione in più occasioni di somme ricevute in contanti
dagli utenti, Condotte plurime, Licenziamento disciplinare, Giudizio di
proporzionalità tra sanzione e addebito contestato, devoluto al giudice di
merito, Valutazione non censurabile in sede di legittimità
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Roma, con sentenza
pubblicata in data 2 maggio 2018, in riforma della pronuncia di primo grado, ha
respinto l’impugnazione della destituzione dal servizio per ragioni
disciplinari proposta da E.C. nei confronti della Azienda Servizi Municipali
Rieti Spa.
2. La Corte romana ha ritenuto provati gli addebiti
contestati al dipendente, addetto a mansioni di conducente di autobus, per essersi
appropriato in più occasioni di somme ricevute in contanti da utenti, con
conseguente sottrazione alle casse aziendali, il tutto aggravato dalla
contestata recidiva specifica infraannuale.
Ravvisata “la ricorrenza dell’elemento volitivo
dell’autore con riguardo alle plurime condotte addebitate, anzi risultando esso
di elevata intensità alla luce della reiterazione dei fatti posti in essere con
analoghe e spregiudicate modalità”, e considerato anche il “danno
patrimoniale e non patrimoniale causato all’Azienda”, la Corte ha ritenuto
“la legittimità, anche con riguardo alla proporzione, della sanzione
espulsiva”.
Quanto poi all’eccepita possibilità dell’Azienda di
venire a conoscenza anteriormente dei fatti poi contestati, la Corte di Appello
ha richiamato il principio della giurisprudenza di legittimità secondo cui il
lasso temporale tra i fatti e la contestazione, ai fini dell’immediatezza del
provvedimento espulsivo, deve decorrere dall’avvenuta conoscenza del datore di
lavoro e non dall’astratta percepibilità o conoscibilità dei fatti stessi.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso il C. con 3 motivi, cui ha resistito con controricorso la società.
Il ricorrente ha altresì depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Ragioni della decisione
1. I motivi di ricorso possono essere come di
seguito sintetizzati.
1.1. Con il primo si denuncia, ai sensi del n. 3
dell’art. 360 c.p.c., “violazione o falsa
applicazione di norme di diritto — art. 5 I. n. 604/66 – art. 2697 c.c. – art.
2727 c.c. – art. 101, 112, 113 e 115 c.p.c. – art. 24
e 111 Cost. – CEDU, in particolare art.
6”, per avere la Corte territoriale “ritenuto che la parte datoriale
abbia fornito la prova della sussistenza dei presupposti giustificativi del
licenziamento comminato per giusta causa”.
1.2. Con il secondo mezzo si denuncia la violazione
e la falsa applicazione dell’art.
7 della I. n. 300 del 1970, oltre che delle norme del codice di rito, della
Costituzione e della CEDU di cui al primo motivo, per avere la sentenza
impugnata “ritenuto tempestive le contestazioni disciplinari al
lavoratore, benché avvenute in epoca risalente rispetto alle contestazioni
stesse”.
1.3. Con il terzo motivo si lamenta “violazione
o falsa applicazione delle norme di diritto – art.
37, numeri da 1 a 5, R.D. n. 148/31 in relazione all’art. 2119 c.c.”, censurando la sentenza
impugnata nella parte in cui ha ritenuto proporzionata la sanzione del
licenziamento in relazione alla condotta ascritta al lavoratore.
2. Il primo motivo è inammissibile innanzitutto perché
contiene promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di plurime
disposizioni di legge, sostanziale e processuale, oltre all’invocazione della
Costituzione e della CEDU, senza alcuna specifica indicazione di quale errore,
tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere
riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell’art. 360 c.p.c., così non consentendo una adeguata
identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno
al medesimo motivo di ricorso, “di censure caratterizzate da irredimibile
eterogeneità” (Cass. SS.UU. n. 26242 del 2014; cfr anche Cass. SS.UU. n.
17931 del 2013; conf. Cass. n. 14317 del 2016; tra le più recenti v. Cass. n.
3141 del 2019, Cass. n. 13657 del 2019; Cass.
n. 18558 del 2019; Cass. n. 18560 del 2019).
Inoltre, nonostante la veste solo formale di una denuncia di pretesi errores in
iudicando, nella sostanza parte ricorrente critica la sentenza impugnata per
aver ritenuto provati gli addebiti contestati al C., il che attiene evidentemente all’accertamento dì merito,
devoluto ai giudici cui compete, risultando estraneo al giudizio di
legittimità.
3. Parimenti non può trovare accoglimento il secondo
motivo di ricorso che pure soffre nell’articolazione della censura la medesima
promiscuità già evidenziata per il primo mezzo, non supportata da una adeguata
illustrazione del come la vasta congerie di vizi denunciati sia decifrabile al
punto da consentirne l’identificazione.
Inoltre l’accertamento della violazione del
principio della tempestività della contestazione disciplinare spetta al giudice
di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato
(cfr., ex plurimis, Cass. n. 1247 del 2015, Cass. n. 25070 del 2013, Cass. n.
29480 del 2008, Cass. n. 22066 del 2007, Cass. n.
14115 del 2006).
In particolare rileva l’avvenuta conoscenza da parte
del datore di lavoro della situazione contestata e non l’astratta
percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi (Cass. n. 23739 del 2008; Cass.
n. 21546 del 2007). Parte ricorrente neanche si confronta adeguatamente con
tale orientamento della giurisprudenza di legittimità, nonostante esso sia
espressamente richiamato nella sentenza impugnata, così violando pure l’art. 360 bis, n. 1, c.p.c..
4. Infine insuscettibile di accoglimento anche il
terzo mezzo di impugnazione.
Questa Corte insegna che il giudizio di
proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto
al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di
legittimità, ove sorretta – come nella specie – da motivazione sufficiente e non
contraddittoria (ex pluribus: Cass. n. 8293 del
2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n.
24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n.
444 del 2003).
Orbene la Corte dì Appello ha evidenziato, per
sostanziare il giudizio di proporzionalità esplicitamente espresso, sia la
reiterazione della condotta, sia l’elevata intensità dell’elemento volitivo,
sia la spregiudicatezza delle modalità attuative, sia il danno patrimoniale e
non patrimoniale inferto all’azienda. Trattandosi di un apprezzamento che è il
frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi la parte
ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata, non può
limitarsi ad invocare una diversa combinazione di altri elementi ovvero un
diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare
l’omesso esame di un fatto, ai fini del giudizio di proporzionalità, avente
valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un
diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera
probabilità; invece l’istante si limita ad invocare che per 25 anni di servizio
non era incorso in alcuna sanzione disciplinare – oltre a ribadire, inconferentemente
circa il motivo in esame, l’insufficienza della prova degli addebiti – ma detta
illibatezza disciplinare, peraltro contrastata dall’accertata recidiva, non può
ritenersi autonomamente decisiva nel senso sopra specificato, sicché le
doglianze in proposito nella sostanza prospettano una generica rivisitazione
del merito, evidentemente non consentita in questa sede, perché questa Corte
può sindacare ma non sostituire il giudizio di fatto correttamente espresso dai
giudici al cui dominio è istituzionalmente riservato.
5. Conclusivamente il ricorso va respinto, con spese
liquidate secondo soccombenza come da dispositivo.
Occorre altresì dare atto della sussistenza dei
presupposti processuali di cui all’art.
13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al
pagamento delle spese liquidate in euro 4.500,00, oltre euro 200,00 per
esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1
bis dello stesso art. 13, se
dovuto.