Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 novembre 2019, n. 30646
Licenziamento del dirigente, Promiscua utilizzazione della
prestazione lavorativa da parte di più imprese del gruppo, Stretta
integrazione tra le attività esercitate dal gruppo, Stato di crisi aziendale
dedotto esclusivamente con riguardo ad una sola delle imprese, Codatorialità
genuina, Rapporto di lavoro che vede nella posizione del lavoratore un’unica
persona e nella posizione del datore di lavoro più persone, Solidale obbligazione
del datore di lavoro
Rilevato che
La Corte d’appello di Roma, con sentenza pubblicata
il 2/3/2017, in parziale riforma della sentenza resa dal Tribunale di Roma,
dopo aver confermato il giudizio già espresso dal Tribunale circa la
illegittimità del licenziamento intimato in data 22/2/2013 da A.P.I. S.r.l.
(oggi S.P.I. S.r.l.) e dalla Farmaceutici C. s.p.a., ha riconosciuto al
dirigente licenziato A.S.S., a titolo di indennità supplementare, l’importo di
€: 60.586,45, pari a sei mensilità, inferiore rispetto a quanto riconosciuto
dal tribunale (€: 134.004,96, pari a diciotto mensilità), oltre accessori di
legge;
la Corte d’appello, pur ritenendo specifiche le
ragioni poste a fondamento del licenziamento – e costituite «dall’abbandono del
progetto di A.P.I. S.r.l.», nonché dal «fallimento del modello aziendale» in
relazione alla «attività di promozione svolta principalmente nell’ambito e
verso il medico di medicina generale» -, ha nondimeno ritenuto illegittimo il
licenziamento perché, a fronte dell’esistenza di un gruppo di imprese con
comunanza di interessi e di organizzazione, in particolare con la C. S.r.l., la
posizione lavorativa del dirigente andava valutata con riferimento all’intero
complesso societario, ma tanto la lettera di licenziamento quanto la memoria di
costituzione in giudizio delle società non offrivano alcun elemento di
valutazione sia con riferimento allo stato di crisi aziendale della C. s.r.l.,
sia con riferimento alla posizione del lavoratore all’interno del più ampio
contesto aziendale, sicché sotto questo profilo il recesso doveva ritenersi
illegittimo;
contro la sentenza propongono ricorso per cassazione
la S.P.I. S.r.l. e la Farmaceutici C. s.r.l., articolando due motivi; lo S.S.
non svolge attività difensiva, nonostante la ritualità della notificazione del
ricorso per cassazione;
la proposta del relatore ex art. 380 bis cod.proc.civ. è stata comunicata alle
parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale;
le società ricorrenti hanno depositato memoria.
Considerato che
1.- con il primo motivo di ricorso le società
denunciano l’omessa pronuncia da parte della Corte d’appello sulla domanda
avente ad oggetto la restituzione delle somme versate in esecuzione della
sentenza di primo grado, in relazione all’art. 360,
n. 4, cod.proc.civ.; assumono di aver formulato questa richiesta nel
ricorso in appello, per il caso in cui la sentenza del tribunale fosse stata
riformata con la rideterminazione dell’indennità supplementare, e di aver
reiterato la domanda all’udienza del 14/7/2016, in cui avevano comprovato il
pagamento di un importo) risultato poi superiore alla somma per cui la corte
territoriale le ha alla fine condannate;
1.1.- il motivo è fondato;
la domanda di restituzione è stata formulata nel
ricorso in appello (pagine 67 e 68) e all’udienza del 14/7/2016 le ricorrenti
hanno dato atto di aver versato allo S.S., in esecuzione della sentenza di
primo grado, la somma di 72.492,51, documentando la circostanza attraverso il
deposito della distinta bancaria; della attuale collocazione di tali documenti
le ricorrenti hanno fornito precisa indicazione (doc. A fascicolo di secondo
grado), sicché il motivo si presenta dotato della specificità necessaria;
la sentenza di appello ha riformato la sentenza del
tribunale con riferimento alle somme dovute al lavoratore, sicché avrebbe
dovuto pronunciarsi sulla domanda di restituzione ex art.
345, cod.proc.civ.;
l’omessa pronuncia ha violato il disposto dell’art. 112 c.p.c., e correttamente il ricorso è
stato proposto per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione, all’art. 360 c.p.c., n. 4 (Cass. 31/03/2015, n. 6457),
sicché esso merita raccoglimento;
2.- con il secondo motivo la società denuncia
l’omesso esame di un fatto storico che ha costituito oggetto di discussione tra
le parti e che ha carattere decisivo, costituito dalla mancata considerazione
delle difese ed eccezioni già esposte al tribunale in base alle quali, pur a
voler ammettere che la A.P. e la Farmaceutici C. costituissero un unico centro
di imputazione, le ragioni che avevano indotto al licenziamento da parte della
A. erano legittime, dal momento che ognuna delle società facenti parte del
gruppo aveva un suo fine distinto rispetto alle altre e che occorreva aver
riguardo allo scopo sociale della A.P., costituito dalla promozione dei
farmaci, settore a capo della cui struttura c’era appunto lo S. e del quale era
stato accertato lo stato di crisi finanziaria per sovradimensionamento del
personale;
2.2.- questo motivo è inammissibile;
deve osservarsi che, come emerge dalla sentenza
appellata, il tribunale ha ritenuto l’illegittimità del licenziamento sulla
base di tre concorrenti ragioni: a) la genericità della motivazione del
recesso, contenuta nella lettera del 22/2/2013; b) l’insussistenza di oggettive
esigenze aziendali, atte a giustificare il licenziamento, considerata la
posizione apicale del lavoratore e la necessità del mantenimento della figura
del direttore scientifico, come comprovata dalla nomina di altra persona al suo
posto; c) il collegamento funzionale tra la società A. e altre società del
gruppo (in particolare la C. s.r.l.), che cooperavano per uno scopo comune e in
favore delle quali il lavoratore prestava la sua collaborazione, sicché le
ragioni del recesso andavano esplicitate con riferimento a tutte le società del
gruppo, laddove tanto nella lettera di licenziamento quanto nelle difese
giudiziali non vi alcuna deduzione in proposito;
la Corte d’appello, in dissenso rispetto al primo
giudice, ha ritenuto specifiche le ragioni illustrate nella lettera di recesso
e sussistenti lo stato di crisi aziendale con riferimento alla A., ma ha invece
condiviso la terza ratio decidendi del tribunale, confermando che le società
facevano parte di un’unica realtà aziendale (pag. 9, 10); che lo S. aveva
prestato la sua attività lavorativa indifferentemente in favore dell’una e
dell’altra (pag. 11); che le ragioni del recesso erano state formulate solo con
riferimento alla società formalmente datrice di lavoro, non anche alla C.
S.r.l.; che, peraltro, nessuna difficoltà economica finanziaria era stata
dedotta e provata a carico di quest’ultima società;
in particolare, sotto l’aspetto della prestazione
lavorativa dello S., i giudici del merito hanno accertato una sua promiscua
utilizzazione (talvolta dell’intera struttura da lui diretta) da parte di
entrambe le società (pagg. 11 e 12 della sentenza impugnata), in modo «intenso
e continuativo», attraverso lo svolgimento di attività estranee al compito di
informazione scientifica di A., nonché la sottoposizione del dirigente anche
alla gestione amministrativa della C., così evidenziandosi l’esistenza di una
stretta integrazione tra le attività esercitate dalle varie imprese del gruppo
e di un coordinamento volto a far confluire le attività delle singole imprese
verso un interesse comune, anche attraverso l’utilizzo promiscuo dei
dipendenti;
da queste premesse fattuali e sulla base dell’ulteriore
presupposto che lo stato di crisi aziendale era stato dedotto esclusivamente
con riguardo alla A., – laddove nessuna difficoltà economico-finanziaria era
stata allegata con riferimento alla C., la quale aveva riportato un bilancio in
attivo nel 2011, mentre la perdita di bilancio del 2012 era dovuta alla
svalutazione della sua partecipazione al 100% nel capitale di A., conseguente
alla situazione di crisi della società partecipata-, i giudici del merito hanno
tratto la conseguenza dell’illegittimità del recesso, in conformità ai principi
affermati da questa Corte con riguardo al rapporto di lavoro plurisoggettivo,
caratterizzato cioè dalla cosiddetta codatorialità (v. da ultimo, Cass. 09/01/2019, n. 267; Cass. 09/05/2018, n.
11166, che rinvia a Cass. 24/3/2003, n. 4274; Cass. 14/11/2005, n. 22927; Cass. 10/4/2009, n.
8809; più di recente, Cass. 6/6/2014, n. 12817;
Cass. 6/9/2016, n. 17368; conf. Cass. 26/6/2017, n. 15872);
si è infatti affermato che, anche in caso di
cosiddetta codatorialità genuina, ovvero in presenza di gruppi di imprese
distinte ma fortemente integrate, «è giuridicamente possibile concepire un’impresa
unitaria che alimenta varie attività formalmente affidate a soggetti diversi,
il che non comporta sempre la necessità di superare lo schermo della persona
giuridica, né di negare la pluralità di quei soggetti, ben potendo esistere un
rapporto di lavoro che veda nella posizione del lavoratore un’unica persona e
nella posizione del datore di lavoro più persone, rendendo così solidale
l’obbligazione del datore di lavoro» (cfr. anche Cass.
n. 4274 del 2003);
non può pertanto essere condiviso l’assunto
difensivo delle società ricorrenti, secondo cui le ragioni di crisi aziendale
avrebbero dovuto essere valutate solo con riferimento alla A., così come
irrilevante si appalesa l’indagine volta ad accertare l’assenza di un intento
fraudolento della società attraverso la frammentazione del numero dei
dipendenti tra le varie imprese al fine di escludere la tutela reale ex art. 18 L. n. 300/1970, non
essendo qui in contestazione la genuinità della costituzione del gruppo
aziendale;
alla luce di queste considerazioni, il motivo si
presenta inammissibile, non ravvisandosi alcun fatto storico, oggetto di
discussione tra le parti e avente carattere decisivo, il cui esame sarebbe
stato omesso dal giudice del merito: tale «fatto» non può essere costituito
dall’asserita assenza di motivazione sulle ragioni per le quali la Corte non ha
ritenuto estensibili anche alle altre società i motivi posti dalla A. a base
del licenziamento, e ciò per l’assorbente ragione che la motivazione c’è (come
si è su evidenziato) e che non è più deducibile alla luce del nuovo testo dell’articolo 360, comma 1, n. 5 la sua eventuale
insufficienza;
il motivo del ricorso in esame, invero, non tiene in
adeguato conto la restrizione del sindacato di legittimità in seguito alla
formulazione novellata di detta disposizione, così come rigorosamente
interpretata dalle SS.UU. nelle sentenze nn. 8053
e 8054 del 2014, perché in sostanza sollecita una rivisitazione nel merito
della vicenda e delle risultanze processuali affinché se ne fornisca un diverso
apprezzamento in punto di fatto;
si tratta di operazione non consentita innanzi a
questa Corte ancor più ove si consideri che in tal modo il ricorso finisce con
il riprodurre sostanziali censure ex art. 360 comma
1, n. 5 c.p.c., a monte precluse dall’art.
348-ter; commi 4 e 5, cod. proc. civ., versandosi in una ipotesi di
cosiddetta «doppia conforme» (cfr. Cass. n. 23021
del 2014);
in proposito, non appaiono pertinenti le
osservazioni contenute nella memoria ex art. 380
bis cod.proc.civ., giacché il giudizio sulla illegittimità del recesso è
stato espresso dalla corte territoriale sulla base delle stesse ragioni
inerenti alle questioni di fatto (quale l’esistenza di un unico centro di
imputazione del rapporto di lavoro, la mancanza di allegazioni e prove circa lo
stato di crisi economico-finanziaria con riferimento a tutte le società del
gruppo) poste a base della decisione impugnata, secondo quanto dispone l’art. 348 ter cod.proc.civ.;
né rileva al riguardo che questa ratio decidendi sia
stata enunciata dal Tribunale unitamente ad altre ragioni, rispetto alle quali
sono stati accolti i motivi di appello prospettati dalle ricorrenti, in
considerazione dell’autonomia di ciascuna di esse, ciascuna suscettibile di
passare in giudicato;
il ricorso deve dunque essere accolto solo con
riguardo al primo motivo e la causa deve essere causa rimessa alla Corte
d’appello di Roma, in diversa composizione, affinché provveda sulla domanda di
restituzione proposta dalle ricorrenti nonché sulla regolamentazione delle
spese.
P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara
inammissibile il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo
accolto e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche
per le spese.