Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 dicembre 2019, n. 31391

Licenziamento collettivo, Accertamento sussistenza rapporto
di lavoro subordinato, Unico centro di imputazione giuridica sul fronte
datoriale

Fatti di causa

 

1. Con sentenza n. 116/2015 il Tribunale di Varese,
in funzione del giudice del lavoro, respingeva le domande formulate da M.R.
che, licenziato in data 8 maggio 2008 dalla società T. C. s.p.a. nel quadro di
una procedura di licenziamento collettivo, chiedeva di accertare la sussistenza,
all’atto dell’apertura della procedura ai sensi della legge n. 223 del 1991, di
un rapporto di lavoro subordinato con la società T. s.p.a. nonché
l’intervenuto, in tesi, trasferimento di azienda da quest’ultima alla società —
C.D.A. s.r.l., quindi l’illegittimità del licenziamento intimatogli e la
condanna di entrambe le società alle conseguenze risarcitorie e reintegratorie
di cui all’art. 18 della legge
n. 300 del 1970 nel testo applicabile ratione temporis.

2. Contro la predetta sentenza il lavoratore
proponeva appello dinanzi alla Corte di appello di Milano. Le due società
appellate resistevano all’appello di M. R. e formulavano appello incidentale
riproponendo diverse eccezioni preliminari che erano state disattese dal
Tribunale. La società C.D.A. a r.l. proponeva appello incidentale anche sul
regolamento delle spese operato dal giudice di prime cure.

3. La Corte di appello di Milano, con sentenza
pubblicata il 1.2.2018, respingeva l’appello principale e quelli incidentali,
compensando le spese del grado in ragione della reciproca soccombenza delle
parti.

4. Sulla questione oggetto dell’appello principale,
per quanto qui interessa, la Corte di appello osservava, quanto alla società T.
s.p.a., che non era accoglibile la tesi del lavoratore secondo la quale
quest’ultima impresa costituirebbe, insieme alla T. C. Alimentari s.r.l., un
unico centro di imputazione per cui in tesi il rapporto di lavoro, formalmente
intestato alla T. C. Alimentari s.r.l., in realtà si sarebbe dovuto ricondurre
alla congiunta titolarità delle due società. Quanto alla società C.D.A. a r.l.
la Corte di appello osservava che, una volta esclusa la sussistenza di un
rapporto di lavoro subordinato tra M. R. e T. s.p.a., era irrilevante
l’accertamento di un eventuale trasferimento di azienda da T. s.p.a. a C.D.A.
s.r.l. perché tale accertamento non avrebbe comunque spiegato effetti sulla
posizione del lavoratore.

5. Contro la sentenza della Corte milanese M. R.
propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi. Le società T. s.p.a. e
C.D.A. a. r.l. resistono con separati controricorsi. La C.D.A. s.r.l. ha
depositato memoria.

 

Ragioni della decisione

 

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

2. Con il primo motivo il ricorrente deduce la
nullità della sentenza impugnata, ai sensi dell’art.
360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., per omessa pronuncia sulla domanda
di reintegrazione nel posto di lavoro formulata nei confronti del dissimulato
cessionario C.D.A. s.r.l. cui era stato trasferito il magazzino commerciale nel
quale il lavoratore prestava la propria opera.

3. Con il secondo motivo si lamenta, sotto il
profilo dell’error in iudicando, della violazione e della falsa applicazione
degli art. 2112, 1344
e 1345 cod.civ., nonché degli art. 4 e 5 legge n. 223 del 1991,
dell’art. 18 della legge n.
300 del 1970 e dell’art. 116 cod.proc.civ.
per avere la Corte territoriale ritenuto non sussistere un unitario centro di
imputazione giuridica sul fronte datoriale tra T. s.p.a. e T.C. Alimentari
s.r.l. e non sussistere il trasferimento dell’azienda alla C.D.A.

4. Con il terzo motivo il ricorrente si duole, ai
sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ.,
dell’omesso esame da parte della Corte di appello di diversi fatti, in tesi
oggetto di discussione tra le parti e decisivi, e cioè le deduzioni e le
censure del lavoratore sul fatto di essere “formalmente dipendente
T.”, in ordine alla lamentata fraudolenta simulazione della cessione di
azienda da T. a T.C., e al “dissimulato trasferimento dell’azienda
medesima al C.D.A..

5. A proposito del primo motivo, il ricorrente
sostiene che la soluzione della sentenza impugnata, secondo cui, essendo le
domande di reintegrazione del lavoratore presso la C.D.A. srl conseguenti al
preventivo accertamento del suo rapporto di lavoro con T. spa, esse cadevano in
seguito al mancato accoglimento della domanda relativa a quest’ultimo
accertamento, sarebbe riscontrabile un vizio di omessa pronuncia della sentenza
impugnata perché le sue conclusioni nei gradi di merito sarebbero state mal
interpretate. Ad avviso del ricorrente dal complesso delle argomentazioni nei
gradi di merito si sarebbe dovuto desumere la sostanziale presa di conclusioni
nel senso della prosecuzione del suo rapporto di lavoro con la società C.D.A. a
r.l. Il ricorrente deduce che egli era divenuto ad ogni effetto dipendente
della T. s.p.a. per effetto della fusione per incorporazione del suo originario
datore di lavoro, il N.C.L. Alimentare (NCLA), alla stessa T. s.p.a., mentre
doveva considerarsi simulata la successiva cessione del ramo di azienda da T.
s.p.a. a T. C. s.r.l., che figurava essere il datore di lavoro al momento del
licenziamento, prima in affitto (in realtà, osserva C.D.A., il ramo di azienda
in questione era stato dato in affitto da N.C.L. Alim. a T.C. prima della
fusione per incorporazione della prima società in T. s.p.a.) e poi ceduta in
proprietà (in realtà si trattava di aumento di capitale deliberato da T. C. e
versato da T. spa sotto forma del conferimento di ramo di azienda – per la
somma in tesi chiaramente inadeguata di 10.000 euro.

6. Le società controricorrenti eccepiscono la
formazione di un giudicato interno, perché già il primo giudice aveva interpretato
le domande svolte dal ricorrente come conseguenti al preventivo accertamento
del rapporto di lavoro del  ricorrente
con T. spa e le aveva respinte per effetto del mancato accoglimento della
domanda di accertamento di tale rapporto. Non avendo il lavoratore censurato
questa statuizione del Tribunale di Varese nel suo ricorso in appello, sul
punto si sarebbe formato il giudicato.

7. L’eccezione di giudicato interno non ha
fondamento. L’appello involgeva l’effetto (la pretesa reintegrazione presso
C.D.A.), per cui riapriva anche le questioni di interpretazione della domanda.
La nozione di “parte della sentenza”, alla quale fa riferimento l’art. 329, comma secondo, cod. proc. civ., dettato
in tema di acquiescenza implicita e cui si ricollega la formazione del
giudicato interno, identifica soltanto le “statuizioni minime”,
costituite dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibili di acquisire
autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia. Ne consegue che l’appello,
motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi della suddetta statuizione
minima suscettibile di giudicato, apre il riesame sull’intera questione che
essa identifica, ed espande nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla
e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene coessenziali
alla statuizione impugnata, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in
via implicita, dal motivo di gravarne (Cass. n. 16583 del 2012).

8. Il motivo è però infondato. Il ricorrente è nel
giusto quando invoca il principio secondo il quale “la domanda giudiziale
deve essere interpretata tenendo conto non solo della sua letterale
formulazione, ma anche del contenuto sostanziale delle sottese pretese con
riguardo alle finalità perseguite dalla parte, secondo la natura delle
situazioni dedotte in giudizio”. E’ anche vero però, come
condivisibilmente osserva C.D.A., che il giudice incontra comunque i limiti
“connessi all’esigenza del rispetto del principio della corrispondenza tra
chiesto e pronunciato e al divieto di sostituire officiosamente domande non
esperite e formalmente proposte” (ex multi, Cass. n. 18783 del 2009).

9. Dagli stralci del ricorso di primo grado e di
quello in appello del ricorrente riportati nel ricorso in cassazione emerge in
realtà l’insistenza del lavoratore sulla tesi della simulazione del
trasferimento di azienda da T. spa a C.D.A. s.r.l., ma non una domanda volta
all’accertamento della simulazione o comunque dell’inefficacia di un
trasferimento da T. C., che non era neanche in causa, a C.D.A.

10. Come nota C.D.A., le conclusioni del ricorrente
in appello, riportate nella sentenza impugnata, contenevano in effetti una
modifica rispetto a quelle rassegnate in primo grado, perché veniva richiesto
di accertare e dichiarare che il R. era da ritenere ad ogni effetto di legge
dipendente di T. spa “stante la contestata nullità ed inefficacia dei
simulati e fraudolenti atti di cessione e fitto dell’azienda da T. s.p.a. a T.
C.. Anche questo, però, conferma l’insistenza del ricorrente sulla tesi basata
sull’essere egli dipendente T. s.p.a. come premessa delle domande contro C.D.A.
s.r.l., ed è per questo, non per aver erroneamente ritenuto che il ricorrente
non avesse chiesto di essere reintegrato presso C.D.A., che la Corte di appello
ha considerato irrilevante l’accertamento dell’eventuale inefficacia del
trasferimento di azienda da T. s.p.a. a C.D.A., una volta escluso che il R.
potesse considerarsi dipendente di T. s.p.a.

11. Non sussiste dunque il denunciato vizio di
omessa pronuncia.

12. Relativamente al secondo motivo, a fronte
dell’accertamento della Corte territoriale, che ha ritenuto non sussistere un
unitario centro di imputazione giuridica sul fronte datoriale tra T. s.p.a. e
T.C. Alimentari s.r.l. e non sussistere il trasferimento dell’azienda alla
C.D.A., il ricorrente non individua le affermazioni in diritto della sentenza
impugnata che si porrebbero in contrasto con le diverse disposizioni di legge
che vengono invocate, ma insiste inammissibilmente in questa sede sulla
ricostruzione fattuale secondo la quale dopo l’incorporazione del N.C.L.
Alimentare in T. s.p.a. sarebbero stati simulati sia il contratto di affitto di
ramo di azienda a T. C. sia la successiva cessione alla stessa società dello
stesso ramo, cioè il magazzino nel quale il ricorrente prestava la propria
opera, in proprietà mediante aumento di capitale.

13. Il motivo è quindi inammissibile.

14. Venendo all’esame del terzo motivo, relativo al
denunciato omesso esame di fatti in tesi decisivi, esso è pure inammissibile.
La ricostruzione fattuale della vicenda litigiosa è comune ai due giudici di
merito, che entrambi hanno ritenuto che il ricorrente non fosse dipendente di
T. s.p.a. Si verte dunque in un caso di “doppia conforme” di cui all’art. 348 ter, comma 5, cod.proc.civ., introdotto
dall’art. 54, comma 1, lett. a),
del d.l. 22.6.2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella l. 7.8.2012, n. 134, applicabile ratione
temporis. In questi casi il ricorrente in cassazione, per evitare
l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art.
360 c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione
di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello,
dimostrando che esse sono tra loro diverse, onere che non viene assolto nel
ricorso (ex multis, Cass. n. 20335 del 2017).

15. Alla luce delle considerazioni che precedono, il
ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

16. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate
come in dispositivo.

17. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in
favore di ciascuna società controricorrente in euro 200,00 per esborsi, euro
3.500,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis dello stesso art. 13, se
dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 dicembre 2019, n. 31391
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