Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 dicembre 2019, n. 31660

Società, Amministratore di società di capitali, Revoca
dell’incarico, Condotta discriminatoria della società, Disciplina speciale ex
art. 28, del D.Lgs. n. 150 del
2011, Risarcimento del danno e reintegrazione nella carica

 

Fatti di causa

 

Con sentenza del 23 giugno 2015, la Corte d’appello
di Milano ha riformato sul punto la decisione di primo grado ed ha condannato
E. s.p.a. al risarcimento del danno in favore dell’odierno controricorrente,
già vicepresidente del c.d.a., per averlo revocato da tale specifica carica
ponendo in essere una condotta discriminatoria, danno liquidato in € 80.000,00,
oltre agli interessi legali dal 15 dicembre 2011, condannandola, altresì, alla
pubblicazione della sentenza, a propria cura e spese, per estratto una sola
volta su tre quotidiani a diffusione nazionale ed in forma integrale per un
anno sul proprio sito internet.

La corte territoriale ha affermato, per quanto
ancora rileva, che la banca aveva, in precedenza, attuato una condotta
discriminatoria nei confronti di un dipendente e che il B., avendo preso le
difese del predetto, per tale ragione fu esonerato dalla carica di
vicepresidente del consiglio di amministrazione della società, con il
conseguente diritto al ripristino della situazione quo ante – peraltro non più
possibile, attese le dimissioni dalla carica di consigliere nel frattempo
presentate dal B. – ed al risarcimento del danno, patrimoniale e non
patrimoniale, nel complesso come sopra liquidato.

Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per
cassazione da E. s.p.a., affidato ad otto motivi.

Si difende l’intimato con controricorso.

Le parti hanno depositato anche la memoria di cui all’art. 380 – bis.1 c.p.c.

 

Ragioni della decisione

 

1. – Il motivi di ricorso possono essere così
riassunti:

1) violazione dell’art.
2697 c.c., motivazione assente e violazione delle regole del processo, per
avere la corte del merito fondato il proprio convincimento circa la condotta
discriminatoria della banca verso un suo dipendente sull’ordinanza resa dal
giudice del lavoro di Milano, quando essa, quale prova atipica, avrebbe potuto
essere posta a fondamento dell’accertamento reso solo unitamente ad altri
elementi probatori;

2) omesso esame di fatto decisivo oggetto di
discussione tra le parti, consistente nella pronta risposta data dal consiglio
di amministrazione alla richiesta del B. di discutere la condotta
discriminatoria del dipendente, denunziata dal medesimo vicepresidente, avendo,
al contrario, la corte d’appello ravvisato una “rigida chiusura” alla
domanda di trattare l’argomento, e, di conseguenza, reputato legittimo l’invio
diretto di una lettera a titolo personale ad alcuni soci (avvenuto il 2
novembre 2011) da parte del B., conclusione raggiunta per non avere essa
esaminato i fatti decisivi accaduti, riportati nei verbali del c.d.a. del 13
ottobre 2011 e del 10 novembre 2011: allorché, già in esito al primo, l’intero
consiglio di amministrazione aveva invitato l’amministratore delegato a fornire
ulteriori approfondimenti sulla vicenda nella successiva riunione consiliare;
mentre nella riunione consiliare del 10 novembre era seguita l’articolata
relazione dell’amministratore delegato, che aveva toccato l’intero svolgimento
del rapporto di lavoro del dipendente stesso, ivi compresi i privilegi di cui,
in verità, aveva goduto;

3) omesso esame di fatto decisivo, consistente nel
pieno avallo dato dal vicepresidente, all’esito del c.d.a. del 10 novembre
2011, al mandato conferito al presidente della società di resistere alle
pretese del dipendente, onde la corte del merito ha infondatamente ritenuto
integrata la fattispecie dell’art.
4-bis d.lgs. n. 215 del 2003, quanto alla pretesa attività del B. di
«ottenere la parità di trattamento»;

4) omesso esame di fatto decisivo, ossia che il vero
scopo del B. nell’ambito del consiglio di amministrazione del 13 ottobre 2011
non era stato quello di assumere le difese del citato dipendente, ma unicamente
di ottenere l’estromissione dell’ing. R. dalle proprie cariche, in quanto
ritenuto responsabile del deterioramento del clima dentro la società;

5) violazione e falsa applicazione dell’art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150 del
2011, in quanto nel giudizio di appello l’onere di provare l’esistenza
della condotta discriminatoria verso il dipendente era in capo al B., una volta
che il giudice di primo grado l’aveva ritenuta indimostrata, senza alcuna
possibilità, quindi, di inversione dell’onere della prova, dato che
l’appellante deve proporre singole censure avverso la sentenza appellata e
dimostrarne il fondamento;

6) violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., in quanto, ove pure potesse in
appello farsi applicazione del principio di inversione dell’onere della prova
ex art. 28 cit., sarebbe
stato comunque necessario che controparte dimostrasse almeno quegli elementi,
atti a fondare la presunzione dell’esistenza della discriminazione verso il
dipendente: laddove, al contrario, la banca aveva provato la propria incontestabile
condotta di favor proprio verso gli stranieri;

7) omesso esame di fatto decisivo, consistente nella
pretesa mancata prova dell’assenza di politiche discriminatorie da parte della
ricorrente, invece raggiunta attraverso numerose testimonianze;

8) nullità parziale della sentenza per
ultrapetizione, avendo chiesto controparte la pubblicazione della sentenza solo
su di un quotidiano, laddove la corte del merito l’ha disposta su tre.

2. – Il primo motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha reso, invero, ampia
motivazione, né ha violato nessuna disposizione processuale, laddove ha
esaminato e valutato, quale elemento di convincimento, l’ordinanza resa dal
giudice del lavoro di Milano, insieme agli altri elementi in atti.

3. – Il secondo motivo è fondato.

3.1. – La sentenza impugnata ha ritenuto posta in
essere da parte del controricorrente I’«attività diretta ad ottenere la parità
di trattamento», prevista dall’art.
4-bis d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215, sulla Parità di trattamento
indipendentemente da razza e origine etnica, in quanto integrata dalle
iniziative da lui assunte contro la discriminazione di cui era stato vittima un
dipendente della banca.

In particolare, la corte d’appello ha ritenuto
integrata tale attività dalla lettera inviata in data 2 novembre 2011 ad alcuni
soci di E. s.p.a., in cui il B. aveva esposto il suo personale punto di vista
sulla vicenda del dipendente e, più in generale, sulla mancata valorizzazione
delle risorse straniere all’interno della banca.

Ha altresì affermato che l’invio della lettera in
questione, pur avente i contenuti ed i possibili effetti nocivi per la società,
si giustificava in ragione della «rigida chiusura» del c.d.a. del 13 ottobre
2011 alla richiesta di occuparsi della questione relativa alla discriminazione
del dipendente straniero: tesi, questa della completa pretermissione della
propria richiesta di esame della vicenda, perorata dall’odierno
controricorrente.

Di conseguenza, essa ha ritenuto che la revoca dalla
carica di vicepresidente del consiglio di amministrazione, decisa dal c.d.a.
del 15 dicembre 2011, integrasse a sua volta condotta discriminatoria vietata.

Afferma la ricorrente, inoltre, sulla base del
verbale consiliare del 15 dicembre 2011, che l’invio della citata lettera del 2
novembre 2011 fu stigmatizzato dal presidente e dall’intero consiglio,
rilevando essi come il luogo idoneo ad ogni discussione al riguardo sarebbe
stato il consiglio di amministrazione; mentre, del pari, fu ivi rilevato che l’iniziativa
dell’inoltro di una lettera personale era stata assunta senza informarne gli
altri consiglieri (neppure alla vicina riunione del 10 novembre), che la
lettera non fu inviata a tutti i soci ma soltanto ad alcuni in modo mirato, ed,
inoltre, che essa era idonea a suscitare un ingiustificato allarme e provocare
danni alla società, nel delicato momento in cui era stato da poco deciso un
aumento di capitale per € 8,4 milioni, da completare entro l’anno successivo.

La sentenza impugnata, inoltre, dà conto del fatto
che la decisione di esautorare il soggetto dalla carica di vicepresidente fu
assunta con voto unanime del consiglio di amministrazione, mentre allo stesso
B. fu permesso di votare ed egli votò contro.

3.2. – Gli artt. 4 e 4-bis d.lgs. n. 215 del
2003, in combinato disposto con l’art. 28 d.lgs. 1° settembre 2011, n.
150, prevedono che il giudice, quando accerti un comportamento
discriminatorio, possa condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche
non patrimoniale, ed ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole,
adottando ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti; e tale
tutela spetta anche a coloro che abbiano subito il comportamento
pregiudizievole «quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere
la parità di trattamento».

L’attività di difesa della regola di “parità di
trattamento”, che l’art.
4-bis cit. ha ritenuto meritevole di tutela civilistica contro il soggetto
autore della discriminazione, il quale abbia, in tal modo, reagito alla
predetta attività, non è esentata dal rispetto delle regole comuni della buona
fede e della correttezza, previste dagli artt. 1175
e 1375 c.c., nonché degli artt. 1218 ss. e 2043
ss. c.c.

La fattispecie dell’art. 4-bis cit. ha, dunque, come
presupposto che l’attività in questione non sia stata a sua volta posta in
essere in violazione dei fondamentali doveri di buona fede e correttezza, o,
comunque, non sia per altro verso illecita.

Prevede, inoltre, l’art. 28, comma 4, d.lgs. n. 150 del
2011 che, in presenza di indizi forniti dal ricorrente, anche desunti da
dati statistici, i quali integrino la prova presuntiva dell’esistenza di fatti
discriminatori, grava sul convenuto l’onere di provare l’insussistenza della
discriminazione.

Infine, nel caso in cui, come quello di specie, a
dolersi della condotta discriminatoria sia un amministratore di società di
capitali, le disposizioni menzionate devono coordinarsi con la specifica
disciplina di settore, atteso il concorso di norme.

3.3. – Le attribuzioni ed i doveri del presidente
del consiglio di amministrazione di una società azionaria e del suo vice
presidente riguardano compiti specifici di tipo organizzativo.

Il sistema precedente alla riforma del 2003 si
occupava della figura del presidente del consiglio d’amministrazione soltanto
nell’ultimo comma dell’art. 2380 c.c.,
trasfuso, poi, dalla riforma nell’art. 2380-bis,
comma 5, c.c.: il consiglio di amministrazione sceglie fra i suoi membri il
presidente, se questi non è designato dall’assemblea; esso è l’organo cui più è
consentita, come pure richiesta, l’attività di auto-organizzazione (v., invece,
l’art. 2398 c.c.).

Il presidente del consiglio di amministrazione è ora
menzionato nella rubrica e nel primo comma dell’art.
2381 c.c., che richiama peraltro compiti organizzativi propri della
presidenza di qualsiasi collegio: il cui contenuto tipico, cioè, sta nello
svolgimento di adempimenti di natura neutrale, volti alla direzione e al
coordinamento dell’organo consiliare, onde ne emerge il carattere sovente super
partes; ed ivi il principale valore precettivo risiede nell’imporre specifici
compiti informativi.

Ne deriva l’attribuzione non solo di poteri
ordinatori delegati dallo stesso consiglio, ma di poteri decisori propri; la
scelta operata nel prevedere una figura “forte” di presidente ne fa
un organo a sé stante, dimostrando l’accentuato interesse della riforma al buon
funzionamento dell’intero consiglio.

I poteri del presidente del consiglio di
amministrazione costituiscono, peraltro, altrettanti obblighi, data la spiccata
la natura funzionale del ruolo, cui è affidato l’efficiente funzionamento
dell’organo collegiale.

In ragione dei ricordati poteri-doveri relativi alla
conduzione e soluzione di questioni strumentali e procedurali, menzionati all’art. 2381, comma 1, c.c., la figura del
presidente, anche al di fuori dell’ipotesi di conferimento di deleghe, acquista
particolare rilevanza, assumendo egli tutte le decisioni relative allo
svolgimento dei lavori in via definitiva ed autonoma, non quale mera
espressione della volontà della maggioranza dei consiglieri, ossia semplici
proposte da essi tacitamente accettate (in tale ultimo caso, in presenza anche
di una sola opposizione, il presidente sarebbe invero tenuto a rimettere la
decisione procedimentale al voto dei presenti), fatto salvo solo il caso di una
sua condotta illegittima, che è tale anche in caso di violazione della regola
di correttezza.

Conseguenza di ciò è che le attribuzioni del
presidente, anche qualora siano puntualizzate nello statuto, non sono mai
esaustive: egli è destinato a svolgere almeno tutte le funzioni necessarie al
proficuo svolgimento dei lavori, all’instaurazione di un ambiente adeguato alla
discussione, all’utile perfezionamento del procedimento collegiale.

Infine, nell’esercizio dei suoi compiti il
presidente è tenuto, accanto al rispetto delle specifiche prescrizioni di legge
o a quelle eventualmente previste nello statuto, ancor prima all’osservanza dei
principi generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.,
il cui mancato rispetto può dunque essere censurato sotto il profilo della
legittimità della sua condotta.

Proprio per la rilevanza del ruolo è sovente
prevista, in via statutaria, come nel caso di specie, la figura del
vicepresidente, soggetto al quale, in caso di impedimento del presidente, siano
affidate le funzioni predette.

3.4. – L’art. 2383 c.c.
prevede il diritto dell’amministratore al risarcimento del danno per il caso di
revoca anticipata dalla carica senza giusta causa.

Al riguardo, i principi di diritto qui di rilievo
affermano che la giusta causa di revoca consiste nell’esistenza di circostanze
sopravvenute, anche non integranti inadempimento, siano o no provocate
dall’amministratore, le quali pregiudicano l’affidamento nel medesimo ai fini
del migliore espletamento dei compiti della carica, dunque nella compromissione
del “rapporto fiduciario” (Cass. 26 gennaio 2018, n. 2037; 23 marzo
2017, n. 7475; 15 ottobre 2013, n. 23381; 14 maggio 2012, n. 7425; 5 agosto 2005, n. 16526;
7 agosto 2004, n. 15322; 21 novembre 1998, n. 11801; 22 giugno 1985, n. 3768).

Ai sensi dell’art. 2697
c.c., grava sulla società l’onere di dimostrare la sussistenza di una
giusta causa di revoca, quale fatto costitutivo della facoltà di recedere senza
conseguenze risarcitorie (Cass. 26 gennaio 2018, n. 2037).

Trattandosi di facoltà di recesso attribuita ex
lege, la società gode così di una tecnica di autotutela privata, potendo
senz’altro porre in essere la deliberazione ad effetto estintivo del rapporto
di amministrazione; il controllo giudiziale è solo successivo ed eventuale, ai
fini della liquidazione dell’eventuale risarcimento.

3.5. – La norma è stata condivisibilmente ritenuta
applicabile anche in ipotesi di revoca delle deleghe interne al consiglio di
amministrazione (Cass. 15 aprile 2016, n. 7587).

In applicazione analogica dell’art. 2383 c.c., la revocabilità dell’incarico di
presidente o di vicepresidente è dunque sempre consentita, anche in mancanza di
giusta causa, intesa come sussistenza di fatti che abbiano compromesso il
rapporto di fiducia a monte del conferimento di tale incarico, salvo il
risarcimento del danno.

Non sarebbero però sufficienti mere divergenze o
attriti con gli altri amministratori, ove si tratti di contrasti rientranti
nella normale dialettica del consiglio di amministrazione, da risolversi
all’interno di tale organo collegiale (Cass. 22 giugno 1985, n. 3768), essendo
dunque necessario che sia compromesso il rapporto di fiducia, in ragione di
fatti contestati integranti un grave inadempimento o una condotta contraria a
correttezza, tali da pregiudicare il pactum fiduciae.

Invero, come la fiducia fonda il rapporto di
amministrazione con l’assemblea dei soci cui è demandata la nomina dell’organo
gestorio, così quel legame sottende, parimenti, al conferimento di particolari
incarichi interni al consiglio, a partire dalla nomina del presidente e del
vicepresidente. Anzi, proprio la rilevanza dei poteri di cui dispone il
presidente, come il suo vice, presuppone un’alta intensità di tale fiducia, con
lo speculare maggiore spazio ai fatti idonei a scuoterla.

La facoltà di revoca dall’incarico è indiscussa
anche in considerazione della responsabilità dei consiglieri deleganti, ai
sensi dell’art. 2392 c.c., da cui discende che
il consiglio di amministrazione deve poter assumere le decisioni necessarie ed
opportune per eliminare od arginare gli effetti dannosi della condotta posta in
essere dal presidente o dal suo vice: in primis, mediante una deliberazione di
revoca dall’incarico del presidente o vicepresidente che quella condotta abbia
tenuto.

3.6. – Rispetto al quadro ora delineato, profili di
specialità attengono alla revoca dall’incarico gestorio che integri una
condotta discriminatoria, in quanto, in tal caso, la norma speciale contempla –
a differenza della regola generale di cui all’art.
2383 c.c. – il provvedimento giudiziale di annullamento della deliberazione
di revoca e la conseguente reviviscenza della carica (cfr. art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011).

La revoca, pertanto, del pari produrrà
immediatamente il suo effetto estintivo del rapporto di amministrazione, o
dello speciale incarico affidato al consigliere di amministrazione; ma, una
volta impugnata in via giudiziale, sarà possibile ottenerne una pronuncia
caducatoria ed il conseguente ripristino dello status quo ante.

In tal caso, le esigenze proprie della disciplina
societaria, di cui all’art. 2383 c.c., che
opera il bilanciamento degli interessi esclusivamente sul piano patrimoniale,
onde la revoca non può più essere messa in discussione, sono recessive rispetto
alla tutela antidiscriminatoria, secondo il diverso bilanciamento di valori
operato dal legislatore, allorché ha, in termini generali da applicare ad ogni
situazione giuridica, predisposto la tutela reale, di cui all’art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011.

3.7. – A questo punto, la sintesi del sistema
normativo delineato va operata nei seguenti termini: l’amministratore di
società, al quale sia demandato un particolare incarico ed, in particolare, il
vicepresidente dell’organo, può esserne esonerato, in presenza di giusta causa:
che, tuttavia, non sussiste, allorché la revoca costituisca la risposta ad
un’attività di difesa del principio di parità di trattamento, posta in essere
con buona fede e correttezza dal soggetto revocato, con il conseguente diritto
alla reintegra nella carica, oltre al risarcimento del danno, ove provato.

Posto, invero, che la giusta causa di revoca
sussiste ogni qualvolta venga compromesso il rapporto fiduciario, la
fattispecie non è integrata allorché il revocato abbia compiuto una lecita e
corretta «attività diretta ad ottenere parità di trattamento» e, proprio per
tale ragione, sia stato sollevato dall’incarico. Peraltro, quando tale ultima
attività fosse stata realizzata con modalità lesive, in via diretta od
indiretta, degli interessi societari, allora essa stessa non è più meritevole
della tutela accordata dalla legge.

Il presupposto per il riconoscimento della tutela
invocata, dunque, è bensì l’attività diretta ad ottenere la parità di
trattamento: alla condizione, tuttavia, che si tratti di un’attività lecita e
rispettosa, altresì, degli obblighi essenziali della buona fede e correttezza
nei rapporti interprivati.

Ove, pertanto, la condotta del soggetto, che pure
abbia inteso nelle proprie intenzioni favorire un trattamento non discriminatorio,
abbia tuttavia violato i predetti obblighi, allora essa, pur in presenza della
altrui reazione, non sarà tutelata, né potrà sorgere, in particolare, il
diritto al risarcimento del danno ex art. 2383 c.c.

3.8. – Nella specie, la sentenza impugnata, cui era
demandato il giudizio in questione, ha omesso di esaminare il fatto decisivo,
oggetto di discussione tra le parti e riportato in modo esauriente e specifico
dalla ricorrente nel proprio ricorso (in ossequio all’art. 366 c.p.c.), rappresentato dall’avere
l’intero consiglio di amministrazione di E. s.p.a. – a conclusione della
riunione consiliare del 13 ottobre 2011 – invitato l’amministratore delegato ad
approfondire ogni aspetto della questione, sottoposta al consiglio da parte del
B., il che ben potrebbe palesare che il consiglio abbia preso in adeguata
considerazione la segnalazione del suo vicepresidente.

Mentre, invero, l’ampia relazione offerta
dall’amministratore delegato alla riunione consiliare del 10 novembre 2011,
pure riportata nel motivo in discorso, è successiva all’invio in data 2
novembre 2011 della lettera personale da parte del B. ad alcuni dei soci della
società bancaria, con la quale segnalava fatti presunti di discriminazione
razziale all’interno del personale dell’istituto – tanto da non poter
rappresentare una valida soddisfazione per il predetto, prima che egli
provvedesse all’inoltro della missiva – il mandato espressamente conferito già
in data 13 ottobre 2011 dal consiglio all’amministratore delegato era, invece,
idoneo a favorire la ponderazione, nella giusta sede, della questione da
discutere, nonché ad aprire il necessario dibattito in consiglio: onde solo
alla luce del medesimo – circostanza, invece, trascurata dalla corte d’appello,
che non dimostra in alcun modo di averla esaminata – avrebbe potuto procedersi
al conseguente accertamento circa la correttezza della condotta di inoltro
della lettera de qua da parte del vicepresidente.

La corte territoriale ha invece omesso, dalla sua
valutazione, l’esame dei fatti specifici e decisivi, che, ove esaminati,
avrebbero potuto condurre ad una diversa soluzione della controversia.

Ne deriva che se, nell’ambito dei propri poteri
esclusivi di valutazione del fatto, la corte del merito accerti l’effettiva
esistenza di detto mandato ad opera del consiglio – volto ad approfondire ogni
aspetto delle pretese del dipendente, nonché della contestuale riserva in capo
al consiglio di amministrazione di provvedere, all’esito delle informazioni
assunte, alla valutazione illuminata dei fatti e ad ogni necessaria
determinazione – allora non potrebbe dirsi che la successiva lettera personale
del B., volta a sollecitare individualmente alcuni specifici soci, sia condotta
rispettosa dei suoi doveri di agire lecitamente e con correttezza, ai sensi
degli artt. 1175, 1375
e 1218 ss. c.c., verso la società.

A tale esame è chiamata la corte territoriale a
provvedere, in sede di rinvio.

4. – L’ottavo motivo resta, di conseguenza,
assorbito dall’accoglimento del secondo.

5. – Non sono fondati, riguardando fatti in sé non
decisivi, i motivi terzo e quarto, i quali danno, rispettivamente, rilievo ad
un atto neutrale ed ai motivi soggettivi della condotta del vicepresidente.

6. – Il quinto motivo è, dal suo canto, infondato.

La disciplina dell’onere della prova della
discriminazione, contenuta nell’art.
28, comma 4, d.lgs. n. 150 del 2011, non si pone, invero, in maniera
diversa con riguardo al primo o al secondo grado di giudizio.

7. – Sono inammissibili, anche in quanto implicanti
accertamenti in fatto, i motivi sesto e settimo.

8. – In conclusione, la sentenza impugnata va
cassata, in accoglimento del secondo motivo, con rinvio alla Corte d’appello di
Milano, in diversa composizione, perché provveda, nell’ambito del potere di
accertamento dei fatti ad essa riservato, a verificare l’esistenza e ad esaminare
il fatto decisivo, di cui al punto 2.8, decidendo la causa sulla base delle
conclusioni in fatto raggiunte e dei principi sopra richiamati.

Alla corte territoriale si demanda anche la
liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il secondo motivo, dichiarati inammissibili
il sesto ed il settimo, respinti il primo ed il quinto, assorbito l’ottavo;
cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa innanzi alla Corte d’appello di
Milano, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di
legittimità.

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