Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 dicembre 2019, n. 32381

Cassiere terminalista, Presunto comportamento vessatorio
dirigenti e colleghi, Malattia psicofisica, Richiesta risarcimento danni,
Onere della prova

 

Rileva che

 

come si evince dallo storico di lite della sentenza
qui impugnata, con ricorso al Tribunale di Siracusa in data 23 ottobre 2004
C.G., premesso di lavorare da oltre 25 anni presso la Banca di M.P.S. – Banca
A.P.V. con la qualifica di vice capufficio e con le mansioni di cassiere
terminalista, lamentava di essere stato da diverso tempo oggetto di un
comportamento fortemente vessatorio da parte di dirigenti e di qualche collega
della Banca, in particolare per essere stato scavalcato nella promozione a
capoufficio da colleghi molto più giovani di età e con minore anzianità di
servizio nonché con minore professionalità, nell’essere stato vittima di
continui distacchi e/o brevi trasferimenti e missioni senza alcuna causa
ragione o motivo di natura organizzativa, nell’avere subito vere aggressioni
psicologiche consistite in inutili e futili contestazioni disciplinari, rimaste
però inattuate. Tanto premesso, assumeva che detti comportamenti gli avevano
procurato una malattia psicofisica concretizzatasi in ansia, insonnia e
disturbi depressivi, per cui chiedeva la condanna della società convenuta al
pagamento della somma di euro 60.000 a titolo di risarcimento dei danni fisici,
psichici e morali subiti. Instauratosi il contraddittorio con la costituzione
della società convenuta, che resisteva alle pretese avversarie, il giudice
adito, previo espletamento di prova testimoniale, con sentenza del 12 febbraio
2007 rigettava la domanda. Detta pronuncia veniva quindi appellata dal C. con
ricorso del 3 maggio 2007, cui resisteva la Banca M.P.S. S.p.a. (che aveva
incorporato la Banca A.), la quale proponeva, a sua volta, appello incidentale
avverso la dichiarata compensazione delle spese relative al primo grado del
giudizio;

la Corte di Appello di Catania con sentenza in data
20 novembre – 10 dicembre 2014 rigettava entrambe le anzidette impugnazioni,
compensando altresì le relative spese; tale pronuncia è stata quindi impugnata
dal C. mediante ricorso per cassazione notificato il 4 giugno 2015, affidato ad
un solo articolato motivo, cui ha resistito la Banca M.P.S. S.p.A. mediante
controricorso del 9-10 luglio 2015, in seguito illustrato da memoria;

 

Considerato che

 

il ricorrente ha denunciato, ai sensi dell’articolo 360 n. 3 c.p.c., la violazione dell’articolo 33, n. 5, della legge n.
104 del 1992 e successive modifiche ed integrazioni, nonché degli articoli 2697, 2727
e 2087 c.c. e degli articoli
115 e 116 c.p.c.; al riguardo, il C. ha
evidenziato che sin dall’atto introduttivo del giudizio di primo grado aveva
rappresentato di essere genitore di figlio affetto da sindrome di down, per cui
aveva allegato opportuna documentazione. La circostanza era rimasta
incontestata ed anzi pure riconosciuta nella memoria di costituzione in appello
per la Banca M.P.S. In proposito il C. aveva lamentato il profluvio dimissioni
e di trasferte, con le quali era stato aggredito dalla Banca datrice di lavoro
soprattutto durante il periodo corrente dal dicembre 2001 sino a luglio 2002, a
ridosso cioè della fusione per incorporazione della stessa banca con la Banca
A.V..

Ad una prima lettura del succitato art. 33.5 la norma sembrava
riferirsi solo al caso di veri e propri trasferimenti, ma in realtà secondo il
ricorrente la stessa attribuiva al lavoratore fornitore di assistenza ad un
parente affetto da handicap la facoltà di scelta nella sede più vicina al
proprio domicilio, così che doveva ravvisarsi il diritto del lavoratore
versante in questa situazione negativa a scegliere e quindi a mantenere una
sede di lavoro più vicina, tale da consentirgli di esercitare senza deminutio
da parte datoriale il ruolo assistenziale garantito dalla legge. Sosteneva,
quindi, il ricorrente che nel diritto di scegliere una sede vicina al proprio
domicilio è contenuto anche quello a mantenerla senza elisioni neanche
temporanee e a non essere allontanato da essa neanche per brevi periodi in
quanto luogo di lavoro più vicino al proprio domicilio. La ratio della norma,
infatti, è quella di non allontanare dalla sede di lavoro più vicina al domicilio
del familiare ammalato i genitori onerati dal delicato ruolo assistenziale
tutelato dalla legge, non avendo perciò rilievo se l’allontanamento avvenga per
periodi più o meno brevi, per distanze più o meno lunghe, poiché il diritto
all’assistenza ex L. n. 104 viene comunque leso
dall’allontanamento anche per periodi più o meno brevi e con riferimento a
distanze più o meno ravvicinate. I maggiori tempi di percorrenza necessari per
raggiungere il nuovo luogo di lavoro e per rientrare da esso riducono infatti
il tempo libero dal lavoro da dedicare l’assistenza;

pertanto, ad avviso del ricorrente, la Corte di
merito aveva violato l’anzidetto articolo 33 n. 5, laddove aveva
affermato l’irrilevanza dei distacchi di breve durata in un arco temporale
limitato di sei mesi ed in località vicine;

parimenti, aveva errato la Corte distrettuale
laddove aveva osservato che l’assunto relativo alla carenza di motivi
organizzativi sottostanti alle lamentate trasferte non risultava provato,
essendo l’affermazione rimasta priva di dimostrazione. Infatti, nel caso di
specie era pacifico ed incontestato il titolo del dipendente a fruire della
tutela assicurata dalla legge n. 104/1992.
Quindi, l’obbligo di legge, cui era tenuta la resistente, risultava chiaro e
dedotto in giudizio, nonché da parte datoriale ben conosciuto. Di conseguenza,
ai sensi dell’articolo 2697, comma secondo, c.c.,
spettava alla convenuta eccepire l’inefficacia del titolo derivante al C. ai
sensi del citato articolo 33,
ma parte datoriale nulla aveva eccepito o chiesto di provare al riguardo,
sicché non si era reso neppure necessario operare il bilanciamento tra i
contrapposti interessi. Pertanto, la Corte d’Appello, invertendo
illegittimamente l’onere probatorio e pretermettendo dal suo ragionamento tutte
le prove documentali riprodotte con il ricorso, aveva violato non solo la
previsione di cui al cit. art. 2697, comma due,
ma anche gli articoli 115 e 116 del codice di rito. D’altro canto, la Corte di
merito non aveva considerato che, pur a voler escludere il carattere vessatorio
di ogni altro comportamento di parte datoriale, verso cui il C. aveva espresso
le sue doglianze, sei mesi continuativi di trasferte imposte in località
lontane dalla sede di lavoro ad un genitore con a carico un figlio affetto da
sindrome down in vista della fusione per incorporazione con Banca A. erano
certamente tali da concretizzare l’attacco ripetuto, continuato, sistematico e
duraturo richiesto da Cass. 6 marzo 2006 numero
4774 e 17 febbraio 2009 n. 3785, per poter
configurare il mobbing lesivo, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2087 c.c., della salute del dipendente.
Tale lesività nella specie risultava ampiamente documentata, come da prodotta
certificazione medica. Il nesso di causalità tra la malattia e lo
sballottamento reiterato con trasferte e missioni, nonché con sottrazione, per
i necessari tempi di aumentata percorrenza, di parte del tempo da dedicare al
figlio ammalato, era desumibile da un’ammissione della resistente e da
conseguente semplice presunzione ex articolo 2727
c.c.. Infatti, nella memoria di costituzione in appello della Banca M.P.S.
a pagina 6 era stata richiamata e riportata, integralmente, la memoria di
costituzione in primo grado della Banca A., in cui espressamente vi era stata
menzione della grave malattia del figlio del C.. La presunzione, poi, ex art. 2727 c.c. era data dalla ragionevole
conseguenza che un padre parzialmente deprivato del proprio diritto
all’assistenza del figlio malato venga a subire una grave sofferenza
psicofisica, che inevitabilmente sfoci in danno biologico, ampiamente
documentato e ribadito nei precedenti gradi del giudizio. Peraltro,
l’appellante aveva anche chiesto puntuale visita medico legale, che accertasse
i danni subiti e il nesso di causalità degli stessi con gli illegittimi
comportamenti della Banca datrice di lavoro;

tanto premesso, il ricorso va disatteso alla stregua
di quanto motivatamente accertato dalla Corte di merito in relazione alla
pretesa risarcitoria azionata dal ricorrente, visto che, a prescindere dalla
considerazione circa la breve durata di distacchi effettuati in un arco
temporale limitato di circa sei mesi ed in località vicine, dislocate ad una
distanza chilometrica oscillante all’incirca tra i 20 e i 40 km rispetto alla
sede di lavoro in Siracusa, l’assunto relativo alla carenza dei motivi
organizzativi sottostante a dette trasferte era rimasto meramente labiale.
L’istante non aveva offerto alcun elemento obiettivo da cui poter
ragionevolmente desumere l’intento emulativo perseguito da parte datoriale, non
avendo egli, non solo dimostrato, ma neppure dedotto che il distacco subito non
fosse funzionale alla sostituzione di unità lavorative temporaneamente assenti
o che riguardasse sempre e soltanto lui senza alcuna rotazione tra i colleghi.

Quanto, poi, al mancato avanzamento di carriera,
anche la doglianza sul punto risultava infondata, essendo pienamente
condivisibile l’affermazione del giudice di primo grado sul carattere vago e
generico della deduzione. Il lavoratore non aveva, invero, allegato in modo
circostanziato, né tantomeno provato, che la promozione per mero decorso del
tempo costituiva per prassi aziendale una conseguenza pressoché automatica,
disancorata da valutazioni discrezionali, che, rientrando nel potere
organizzativo del datore, restavano sottratte al sindacato giudiziale.
Parimenti infondato era l’ultimo motivo di appello, mediante il quale era stata
censurata la sentenza gravata per non aver riconosciuto il carattere
pretestuoso e strumentale delle contestazioni disciplinari elevate. Infatti,
dalle risultanze istruttorie acquisite era emerso che tutti i rilievi
disciplinari formalmente contestati al dipendente erano sorretti da un
obiettivo fondamento giustificativo. In particolare, l’episodio dell’ammanco di
un milione di lire alla chiusura della cassa era stato dal lavoratore ammesso
nella lettera di giustificazioni del 21 maggio 2008, laddove lo stesso aveva
dato atto di aver provveduto al ripianamento con danaro proprio, sicché, ad
avviso della Corte catanese, la sanzione applicata del biasimo scritto, la più
lieve tra le misure afflittive, appariva congrua. Analogamente, il successivo
ammanco di 2 milioni, verificatosi su un versamento effettuato da un cliente,
era stato dal C. riconosciuto con lettera di giustificazioni del 20 ottobre
2000, poi ripianato sempre con fondi propri. In tal caso, tenuto conto che la
segnalazione dell’ammanco proveniva dal diente e che ciò aveva indubbiamente
arrecato pregiudizio all’immagine dell’azienda, la sanzione della sospensione
del lavoro e dalla retribuzione di due giorni non poteva ritenersi eccessiva,
né tantomeno vessatoria. La circostanza, poi, che la sanzione non fosse stata
eseguita non era di certo indice di una condotta prevaricatrice, ma al
contrario di un atteggiamento accomodante tenuto dalla Banca in considerazione,
probabilmente, dell’immediata ammissione dei fatti da parte del lavoratore e
della repentina riparazione del danno economico. Riguardo, infine, al diverbio
con un cliente, che aveva formato oggetto di un terzo rilievo disciplinare, lo
stesso teste indicato dal ricorrente aveva riconosciuto la storicità
dell’episodio, di modo che la contestazione datoriale non appariva arbitraria,
mentre il fatto che ad essa non fosse seguita la comminazione di alcuna
sanzione dimostrava l’implicito accoglimento delle giustificazioni addotte dal
dipendente. In definitiva, secondo la Corte distrettuale, proprio la
valutazione complessiva dei fatti caratterizzanti la vicenda in esame, quali
emersi in sede di giudizio, imponeva di ritenere insussistente l’asserito
mobbing, in quanto dei fatti all’uopo addotti a sostegno risultava attestata la
sola reiterata applicazione del distacco per un periodo di sei mesi, avuto
altresì riguardo alla circostanza che non vi era preciso riscontro in atti di
un intento persecutorio o discriminatorio. Infine, la Corte territoriale
riteneva come il mobbing non si esaurisse nella sommatoria di comportamenti già
vietati dalla legge, ma postulasse ed esigesse un elemento psicologico
aggiuntivo, ossia l’animus nocendi, che rende vietati i comportamenti altrimenti
leciti e aggrava il significato giuridico nonché sociale di comportamenti già
vietati e per i quali l’ordinamento già assicura tutela, ossia un complesso di
azioni che, in quanto convergenti verso un fine ultimo vessatorio, ed
organizzate in sequela, oltre ad arrecare un maggior danno, perseguono un
intento di degrado che il singolo atto non sarebbe altrimenti in grado di
conseguire; pertanto, dalla lettura della pronuncia d’appello non risulta che
il C. abbia fondato l’azionata pretesa risarcitoria sulla violazione del cit. art. 33, né che una tale
violazione sia stata dedotta come motivo di appello, laddove per contro il
ricorrente si è limitato a richiamare i precedenti atti (v. in part. l’elenco
degli allegati a pag. 5 del ricorso: l’atto introduttivo del giudizio, il doc.
23 ivi prodotto, la memoria di costituzione per la parte appellata, i documenti
da 8 a 19 versati con il succitato ricorso introduttivo ed i certificati medici
per esso C. già allegati a detto ricorso con i nn. 3, 4 e 5). Di conseguenza,
non sono state chiarite, nei termini specificamente invece occorrenti a norma
dell’art. 366 co. I n. 6 c.p.c., soprattutto le
ragioni di diritto (causae petendi) poste a sostegno della domanda. Parimenti
dicasi per quanto riguarda i motivi d’appello, che risultano invece
distintamente enunciati ai punti 1 (doglianza relativa al non riconoscimento
del preteso comportamento vessatorio), 2 (asserita finalità discriminatorio
desunta dal mancato avanzamento di carriera) e 3 (circa il dedotto carattere
pretestuoso e strumentale di precedenti contestazioni disciplinari, che sarebbe
stato dimostrato, secondo la versione di parte attrice, dall’omessa
applicazione delle sanzioni inflitte) delle ragioni poste a sostegno della
sentenza d’appello; alla luce delle evidenti carenti allegazioni, in violazione
del principio di autosufficienza, deve escludersi che il C. sia in primo che in
secondo grado abbia denunciato la violazione dell’art. 33, co. 5, L. n. 104/95
per sostenere la domanda di risarcimento del danno (non patrimoniale,
quantificata euro 60.000,00), di guisa che in appello (che non è un
“judicium novum”, ma una “revisio prioris instantiae” –
cfr. tra le altre Cass. II civ. n. 4695 del 23/02/2017) correttamente non
risulta essere stata esaminata alcuna questione, in fatto ed in diritto,
inerente al suddetto art. 33,
co. 5, per cui, attesa la novità della censura, la stessa nemmeno è
ritualmente prospettabile in questa sede di legittimità;

analogamente deve osservarsi per quanto concerne l’art. 2087 c.c. (norma di carattere generale, la
quale disciplina la tutela delle condizioni di lavoro), che, ad ogni modo, non
configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità
del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione
degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle
conoscenze sperimentali o tecniche del momento, sicché incombe al lavoratore ex
art. 2697 co. I c.c. – che lamenti di avere
subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute – l’onere
di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di
lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia
fornito tale prova sussiste – ex art. 2697 co. II
– per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele
necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del
dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi (cfr. Cass. lav. n. 24742 in data 8/10/2018 ed altre
conformi);

di conseguenza appaiono inconferenti le denunciate
violazioni di legge, pure con riferimento ai surriferiti artt. 2697, 115 e 116, visto che nell’ambito del gravame devolutole
la Corte di merito ha motivatamente esaminato le doglianze menzionate
nell’impugnata sentenza, disattendendole, sulla scorta altresì delle acquisite
risultanze istruttorie ed evidenziando inoltre, nei limiti delle sue precipue
attribuzioni e dei propri poteri di apprezzamento ed accertamento in fatto,
insindacabili in questa sede di legittimità, l’insussistenza di fondati
elementi di cognizione tali da poter ravvisare in concreto il denunciato
mobbing, in difetto del pur necessario requisito psichico, individuato dalla
stessa Corte nell’animus nocendi, su cui peraltro non risulta alcuna specifica
e pertinente confutazione da parte ricorrente con la censura de qua (cfr. tra
le altre Cass. lav. n. 12437 del 21/05/2018: è
configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento
obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e
quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo.

V. altresì parimenti Cass.
lav. n. 17698 del 06/08/2014: ai fini della configurabilità del mobbing
lavorativo devono ricorrere: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio
– illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – che, con intento
vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente
sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro
o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere
direttivo dei primi; b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della
dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il
pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica e/o nella
propria dignità; d) l’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio
unificante di tutti i comportamenti lesivi. Conformi Cass. lav. n. 3785 del 17/02/2009 e n. 898 del 17/01/2014.

Cfr. inoltre in motivazione Cass. lav. n. 26684/17 in data 23/05 –
10/11/2017: <<l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità
o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li
unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta
vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo
conto di tutte le circostanze del caso concreto>>);

analoghe considerazioni, in termini
d’inammissibilità, possono valere per le doglianze mediante cui in effetti il
ricorrente contesta pure il ragionamento decisorio, peraltro coerente e logico
nella sua esposizione, in forza del quale i giudici di merito hanno ritenuto di
dover rigettare la domanda della parte attrice, che però irritualmente in
questa sede di legittimità tende in concreto a svilirne il fondamento; pretesa
tanto più inammissibile nella specie, laddove operano i limiti maggiormente
rigorosi imposti dall’attuale e vigente formulazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. tra l’altro Cass. III
civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere
di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà
luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo
inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1,
n. 5, c.p.c. – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto
storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della
sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra
le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, né in quello del
precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente
all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge
costituzionalmente rilevante. Ed in senso analogo su quest’ultimo punto, circa
il solo c.d. minimo costituzionale, rilevante ex art.
360 n. 5, v. altresì Cass. sez. un. civ. nn.
8053 e 8054 del 2014); come è noto (cfr., tra le altre, Cass. I civ. n.
16526 del 5/8/2016), in tema di ricorso per cassazione per vizi della
motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice
di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ad.za
02-10-18/r.g. n. 13254-14 ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad
una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si
tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi
probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in
contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità
(v. altresì Cass. sez. 6 – 5, n. 91 del 7/1/2014,
secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo
giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né
porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore
rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del
28/03/2012. Cfr. ancora Cass. Il civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di
valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero
convincimento del giudice, la violazione degli artt.
115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di
ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360, comma 1, numero 5), c.p.c., e deve
emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti
di causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 – 08/05/2017: nel
quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c.,
di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova
legale, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi
probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad
essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori
richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di
legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito,
sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. Cass. III civ. n. 11892 del
10/06/2016: la violazione dell’art. 115 c.p.c.
può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha
dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella
norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma
disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non
anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha
attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre.
Cfr. altresì Cass. Il civ. n. 2707 del 12/02/2004, secondo cui le norme – art. 2697 55 – poste dal Libro VI, Titolo II del
Codice civile regolano le materie: a) dell’onere della prova; b) dell’astratta
idoneità di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione all’assolvimento
di tale onere in relazione a specifiche esigenze; c) della forma che ciascuno
di essi deve assumere; non anche la materia della valutazione dei risultati
ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, che è viceversa disciplinata
dagli artt. 115 e 116
cod. proc. civ., e la cui erroneità ridonda quale vizio ex art. 360, primo comma n. 5, cod. proc. civ.);

pertanto, si appalesa l’inammissibilità delle varie
doglianze al riguardo mosse da parte ricorrente, di modo che il ricorso va
disatteso, con conseguente condanna della parte soccombente al rimborso delle
relative spese;

stante l’esito del tutto negativo dell’impugnazione,
ricorrono, infine, i presupposti processuali di legge per il pagamento
dell’ulteriore contributo unificato.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese, che liquida a favore della parte controricorrente in
euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali ed in euro 200,00
(duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come
per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n.
115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, pari a quello, se dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 dicembre 2019, n. 32381
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