Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 dicembre 2019, n. 33133

Operatori ecologici addetti alla raccolta dei rifiuti,
Lavaggio e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale, Obbligo del
datore di lavoro, Nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale,
Risarcimento del danno

 

Rileva che

 

con sentenza n. 419 in data 9 novembre 2016 – 4
gennaio 2017, la Corte d’Appello di Cagliari, in accoglimento dell’impugnazione
proposta da D.V.T. S.p.a. e in riforma della sentenza di primo grado (in data 9
luglio 2015, che aveva accolto per quanto di ragione le domande degli attori
S.A. e L.E., loro riconoscendo a titolo di risarcimento danni per il lavaggio
degli abiti da lavoro la somma di euro 4872,318 in relazione al periodo
settembre 2000 / agosto 2007) rigettava le domande di cui ai ricorsi
introduttivi dei giudizi, poi riuniti, depositati il 5 e 10 dicembre 2008, per
i suddetti sigg. S. e L., operatori ecologici addetti alla raccolta dei rifiuti
ed inquadrati rispettivamente nel II e IV livello del c.c.n.I. di settore,
volte ad ottenere la condanna di parte datoriale al risarcimento dei danni da
inadempimento dell’obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di
protezione individuale (D.P.I.), con specifico riferimento all’attività di
lavaggio e di manutenzione degli indumenti indossati durante l’attività di
lavoro (forniti dalla stessa parte datoriale), il cui onere era stato
interamente sostenuto dai medesimi dipendenti, laddove tra l’altro parte
attrice aveva rappresentato che soltanto a seguito di disposizione datoriale in
data primo ottobre 2006, la società convenuta aveva iniziato ad effettuare il
lavaggio e la disinfezione di alcuni capi del suddetto abbigliamento da lavoro,
però con insufficiente frequenza settimanale;

la Corte territoriale, richiamata la definizione di
D.P.I. dettata dall’art. 40
D.lgs. n. 626 del 1994 (“qualsiasi attrezzatura destinata ad essere
indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più
rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro,
nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo. 2. Non sono
dispositivi di protezione individuale … gli indumenti di lavoro ordinari e le
uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del
lavoratore… ” unitamente alle ulteriori precisazioni dettate dal
successivo art. 42 dello
stesso decreto n. 626), nonché le previsioni di cui al D. Lgs. n. 475 del 1992, riteneva come per
dispositivi di protezione individuale dovessero intendersi soltanto quelli
aventi, secondo valutazioni tecnico-scientifiche, la funzionalità tipica di
protezione dai rischi per la salute e la sicurezza e che rispondessero ai
requisiti normativamente dettati per la relativa realizzazione e
commercializzazione; la Corte cagliaritana, quindi, escludeva che i normali
indumenti da lavoro forniti dalla società datoriale potessero qualificarsi
D.P.I., in quanto non destinati a fornire una adeguata protezione dai rischi di
contatto con sostanze nocive o agenti patogeni; come peraltro desumibile dal
c.c.n.I. 30 aprile 2003, secondo cui rientravano nei D.P.I. unicamente gli indumenti,
tali espressamente ivi qualificati, con relativa manutenzione a carico
dell’azienda, finalizzati ad evitare il contatto con sostanze nocive, tossiche
e corrosive. Infatti, il documento di valutazione dei rischi (D.V.R.), redatto
dalla medesima società, contemplava uno specifico corredo antinfortunistico per
le mansioni di raccoglitore (protezione delle mani: guanti contro le
aggressioni meccaniche e chimiche; protezione dei piedi: calzature di sicurezza
con dotazione di lamina antiforo e suola antisdrucciolo; protezione della
persona: dispositivi di alta visibilità applicati sugli indumenti; protezione
contro gli agenti atmosferici: impermeabile con dispositivi ad alta
visibilità), che non includeva altri capi di abbigliamento. Pertanto, non risultava
inadeguata la contestata scelta datoriale, anche alla luce del verbale
ispettivo dell’A.S.L. n. 8 in data 12 maggio 2006, che aveva ritenuto di
difficile quantificazione il livello di pericolosità del servizio di raccolta
rifiuti. Il rischio di infezione o di malattia evidenziato dagli ispettori
sanitari riguardava, tuttavia soltanto alcune categorie di lavoratori, mentre
nel caso di specie i due lavoratori erano adibiti all’incarico di
“aggancini”, occupandosi prevalentemente della movimentazione dei cassonetti
e della pulizia delle relative piazzole, sicché doveva escludersi che
rientrassero nel mansionario degli appellati le attività che secondo il verbale
ispettivo potevano comportare un rischio di esposizione ad agenti avverso la
sentenza di appello i suddetti lavoratori proponevano ricorso per cassazione,
affidato a otto motivi, cui resisteva D.V.T. S.p.a. con controricorso;

entrambe le parti hanno depositato memorie
illustrative con riferimento all’adunanza in camera di consiglio fissata per il
3 aprile 2019;

 

Considerato che

 

con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., è stata denunciata la
nullità dell’impugnata sentenza, per violazione degli artt. 132 dello stesso codice di rito e 36 del d.l. vo n. 546/1992,
atteso il difetto di motivazione, risultando l’impugnata pronuncia
caratterizzata da motivazione apparente, laddove erano state recepite
pedissequamente, senza alcuna autonoma valutazione, le argomentazioni addotte
da parte appellante e comunque in difetto di una benché minima esplicitazione
delle ragioni della totale adesione alle tesi della società, senza peraltro
prendere in considerazione quelle contrapposte degli appellati;

col secondo motivo i ricorrenti hanno censurato la
sentenza de qua, per violazione e falsa applicazione del D.L.gs. n. 626 del 1994 e dell’art. 216, T.U. n. 1265 del 1934,
per aver escluso che la D.V.T. S.p.a. fosse classificabile come impresa
insalubre di prima classe;

col terzo motivo i lavoratori istanti hanno dedotto
(ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.),
violazione e falsa applicazione degli artt. 2087
c.c., 40 D. Lgs. n. 626
del 1994, 1 co. 2 D. Lgs. n.
475 del 1992, 379 del
D.P.R. n. 547 del 1955 e 43,
comma 4, D.lgs. n. 626 del 1994, per avere la sentenza impugnata affermato
che gli indumenti forniti ai lavoratori per lo svolgimento della prestazione
non avessero alcuna funzione protettiva e quindi non fossero classificabili
come D.P.I.;

col quarto motivo di ricorso è stata denunciata la
violazione e falsa applicazione degli artt. 116
c.p.c., 4 e 43 co. 4° d.l.vo n. 696/1994 nonché 67 co. II lett. A del c.c.n.I.
30-04-2003. Inoltre, con la medesima censura è stato lamentato l’omesso
esame di un punto decisivo della controversia ex art.
360 n. 5 c.p.c., per avere la Corte territoriale erroneamente escluso il
rischio alla salute, avuto riguardo ai rilievi della ASL in data 12 maggio 2006
e dell’ISPESL, richiamando altresì l’analisi e lo studio eseguito dalla ASL di
Milano (non si precisa se risalente al 2008 ovvero al periodo 1986 / 1990);

col quinto motivo è stata dedotta l’erronea
valutazione degli artt. 4,
comma 2, e 42 del D.lgs.
n. 626 del 1994, ai sensi dell’art. 360, comma
1, n. 3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata considerato attendibile il
piano di valutazione dei rischi elaborato da parte datoriale;

col sesto motivo di ricorso l’impugnata decisione è
stata censurata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c., 4 D.lgs. n. 626 del 1994, 67, comma 2, lett. a) c.c.n.I.
30.4.2003, in relazione all’art. 360, comma 1,
n. 3 c.p.c., per avere la Corte d’appello escluso che gli indumenti da
lavoro forniti ai dipendenti costituissero D.P.I., in quanto non menzionati nel
piano di valutazione rischi aziendale; col settimo motivo i ricorrenti hanno
denunciato violazione e falsa applicazione degli artt.
115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., avendo la Corte
d’Appello erroneamente disatteso che tra gli indumenti forniti dall’azienda ai
lavoratori fossero ricompresi i guanti, le scarpe e la pettina alta visibilità,
classificati D.P.I. dal D.V.R. aziendale;

infine, con l’ottavo motivo è stata denunciata la
violazione e falsa applicazione degli artt. 115
e 116 c.p.c. nonché 2697
c.c., in relazione all’art. 360 co. I n. 5
c.p.c., avendo la Corte d’Appello erroneamente disatteso le prove assunte e
ritenuto che non era stato dimostrato sufficientemente lo svolgimento delle
mansioni di essi lavoratori istanti;

tanto premesso, il terzo, il quarto ed il sesto
motivo di ricorso, che possono esaminarsi congiuntamente, attesa la loro
connessione, ed in via prioritaria per ragioni di ordine logico, sono fondati
nei limiti di seguito esposti;

ancor prima, tuttavia, va disattesa la prima
doglianza, non ravvisandosi gli estremi dell’error in procedendo ivi denunciato,
atteso che le argomentazioni poste a sostegno della sentenza impugnata non
integrano la violazione del c.d. minimo costituzionale richiesto a norma degli artt. 111
Cost., 132
n. 4 c.p.c.e 118 disp. att. dello stesso codice di rito, in
quanto dalle anzidette motivazioni risulta sufficientemente esplicitata la
ratio decidendi in base alla quale la Corte di merito, nell’ambito delle sue
autonome valutazioni (ancorché opinabili, comunque errate in diritto nei limiti
di cui alle seguenti considerazioni consentite in questa sede di legittimità)
ha ritenuto infondate le azionate pretese risarcitone (cfr. Cass. III civ. n.
23940 del 12/10/2017: in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012,
conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012,
non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di
contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito
impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta
circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo
costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma
6, Cost., individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione
dell’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e danno
luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale
requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di
“motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile
contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od
incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può
essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia
formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una
diversa soluzione della controversia. V. parimenti, tra le altre, Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014.
Cfr., altresì, Cass. sez. 6 – 3, n. 22598 del 25/09/2018, secondo cui in
seguito alla suddetta riformulazione dell’art. 360,
comma 1, n. 5, c.p.c., non è più deducibile quale vizio di legittimità il
semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti
giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via
generale dall’art. 111, sesto comma, Cost. e,
nel processo civile, dall’art. 132, secondo comma,
n. 4, c.p.c.. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente
mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad
assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione –
per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile – e,
in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di
legittimità ai sensi dell’art. 360, primo comma, n.
4, c.p.c.. Cfr. pure Cass. lav. n. 12096 del
17/05/2018: in seguito alla riformulazione dell’art.
360, comma 1, n. 5), c.p.c., è denunciabile in cassazione l’anomalia
motivazionale che si concretizza nel “contrasto irriducibile tra
affermazioni inconciliabili”, quale ipotesi che non rende percepibile
l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, di conseguenza,
non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del
ragionamento del giudice); d’altro canto, non è di ostacolo all’accoglimento
del terzo motivo l’impropria invocazione degli artt.
115 e 116 c.p.c., posto che, secondo il
costante indirizzo di questa Corte, ove si possa identificare il contenuto
delle censure attraverso le ragioni prospettate da parte ricorrente, il profilo
sostanziale dell’atto deve prevalere su quello formale, sicché l’omessa o
l’erronea indicazione degli articoli di legge viene a perdere ogni rilevanza
(Cass. n. 4923 del 1995; n. 302 del 1996; n. 1430 del 1999; n. 15713 del 2002);

nella specie, invero, dalle argomentazioni poste a
base delle censure risulta evidente la denuncia di violazione dell’art. 2087 c.c., con riguardo all’affermata
esclusione del rischio alla salute per il lavoratore di cui si tratta, in contrasto
con quanto affermato nelle relazioni dell’AsI in sede di ispezione;

il profilo di censura riferito all’art. 360, n. 5, c.p.c. (formulato nel quarto) è da
considerare inammissibile, perché il vizio prospettato attiene alla
qualificazione e valutazione giuridica di fatti, quindi concernente parti della
motivazione in diritto e non l’omesso esame di fatti veri e propri, principali
o secondari, come richiesto dal vigente testo del medesimo articolo, laddove
peraltro appropriata e pertinente valutazione andrà all’uopo rinnovata in sede
di rinvio alla stregua dei principi di diritto qui affermati in relazione alle
riconosciute violazioni di legge;

ciò posto, deve essere, in primo luogo, ricordato
che, ai sensi dell’art. 40,
D.lgs. n. 626 del 1994, recante attuazione delle direttive
89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE e 90/679/CEE, riguardanti il
miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di
lavoro, “i. Si intende per dispositivo di protezione individuale qualsiasi
attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo
di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza
o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a
tale scopo. 2. Non sono dispositivi di protezione individuale: a) gli indumenti
di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la
sicurezza e la salute del lavoratore;…”)

tale previsione si pone in continuità con quelle di
cui al D.P.R. n. 547 del 1955 (ai sensi dell’art. 377, relativo a
“Mezzi personali di protezione”, “il datore di lavoro, fermo
restando quanto specificatamente previsto in altri articoli del presente
decreto, deve mettere a disposizione dei lavoratori mezzi personali di
protezione appropriati ai rischi inerenti alle lavorazioni ed operazioni
effettuate, qualora manchino o siano insufficienti i mezzi tecnici di
protezione. – I detti mezzi personali di protezione devono possedere i
necessari requisiti di resistenza e di idoneità nonché essere mantenuti in
buono stato di conservazione”. Secondo l’art. 379, relativo agli
“Indumenti di protezione”, “Il datore di lavoro deve, quando si
è in presenza di lavorazioni, o di operazioni o di condizioni ambientali che
presentano pericoli particolari non previsti dalle disposizioni del Capo 3^ del
presente Titolo – art. 366
ss.-, mettere a disposizione dei lavoratori idonei indumenti di
protezione”);

l’art.
40 cit. è stato poi sostituito dall’art. 74, D.lgs. n. 81 del 2008,
che ne ricalca interamente il testo;

il D.lgs.
n. 626 del 1994, all’art. 4, comma 5, prevede che “il datore di lavoro
adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori e, in
particolare…lett. d) fornisce ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi
di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione
e protezione”;

l’interpretazione nella specie fornita dalla Corte
di merito al citato art. 40,
volta a far coincidere i D.P.I. con le attrezzature formalmente qualificate
come tali in ragione della conformità a specifiche caratteristiche tecniche di
realizzazione e commercializzazione, non tiene adeguatamente conto del tenore
letterale delle disposizioni richiamate e, soprattutto, della finalità delle
stesse, di tutela della salute quale diritto fondamentale (art. 32 Cost.);

l’espressione adoperata dall’art. 40 cit., che fa
riferimento a “qualsiasi attrezzatura” nonché ad “ogni
complemento o accessorio” destinati al fine di proteggere il lavoratore
“contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza e la
salute durante il lavoro”, deve essere intesa nella più ampia accezione
proprio in funzione della connessione teleologica a tutela del bene primario
della salute e dell’ampiezza della protezione garantita dall’ordinamento
attraverso non solo disposizioni che pongono specifici obblighi di prevenzione
e protezione a carico del datore di lavoro, ma anche tramite la norma di
chiusura di cui all’art. 2087 c.c.;

lo stesso D.lgs. 81 del
2008 (seppure non applicabile ratione temporis) prevede nell’allegato VIII
un “Elenco”, espressamente definito “indicativo e non esauriente
delle attrezzature di protezione individuale”, che costituisce la conferma
del contenuto necessariamente aperto della categoria dei mezzi di protezione e,
quindi, della correttezza della sola interpretazione in grado di salvaguardare
l’ampiezza dell’obbligo di tutela posto anche dalle disposizioni in esame;

da tali premesse discende come la previsione dell’art. 43, commi 3 e 4, D.lgs. n.
626 del 1994 [“3. Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori i DPI
(dispositivi di protezione individuale) conformi ai requisiti previsti dall’art. 42 e dal decreto di cui
all’art. 45, comma 2″;
4. Il datore di lavoro: – a) mantiene in efficienza i DPI (dispositivi di
protezione individuale) e ne assicura le condizioni d’igiene, mediante la
manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie (…)”], non
possa essere letta in senso limitativo del contenuto e del novero dei suddetti
dispositivi o presidii, secondo quanto invece diversamente opinato dalla Corte
territoriale, bensì quale previsione di un ulteriore obbligo di carattere
generale, posto a carico del datore di lavoro, di adeguatezza dei D.P.I. e di
manutenzione dei medesimi;

parimenti non rilevante è la circostanza della
previsione o meno degli specifici D.P.I. nell’ambito del documento di
valutazione dei rischi, atteso che l’obbligo posto dall’art. 4, comma 5, del D.L.gs. n.
626 del 1994, di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di
protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è
tenuto a conformarsi a prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia
specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi, redatto dal
medesimo datore di lavoro (in tal senso, con riferimento alla omologa
previsione di cui all’art. 18,
lett. d), D.lgs. n. 81 del 2008, cfr. Cass. pen. n. 13096 del 2017);

la categoria dei D.P.I. deve essere, quindi,
definita in ragione della concreta finalizzazione delle attrezzature, degli
indumenti e dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai
rischi per la salute e la sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte, a
prescindere dalla espressa qualificazione in tal senso da parte del documento
di valutazione dei rischi e dagli obblighi di fornitura e manutenzione
contemplati nel contratto collettivo;

da questo punto di vista appare coerente la
distinzione che l’art. 40
cit. pone tra ciò che integra un D.P.I. e ciò che non è tale. In particolare,
la lett. a) del comma 2 esclude che costituiscano D.P.I. “gli indumenti di
lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la
sicurezza e la salute del lavoratore”, vale a dire gli indumenti che in
nessun modo risultino correlati alla finalità di protezione da un rischio per
la salute, e che assolvano unicamente alla funzione di uniforme aziendale o di
preservare gli abiti civili;

in tal senso si è espressa la circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 1999
(che non costituisce fonte del diritto, ma presupposto chiarificatore della
posizione espressa dall’Amministrazione su un determinato oggetto – cfr. Cass.
n. 7889 del 2011, n. 23042 del 2012, n. 1577 del 2014 e n. 280 del 2016), la quale ha elencato le diverse
funzioni a cui possono assolvere gli indumenti di lavoro, in particolare: a)
elemento distintivo di appartenenza aziendale, ad esempio uniformi o divise; b)
mera preservazione degli abiti civili dalla ordinaria usura connessa
all’espletamento dell’attività lavorativa; c) protezione da rischi per la
salute e la sicurezza. La circolare ha specificato che “in quest’ultimo
caso gli indumenti rientrano nei dispositivi di sicurezza che assolvono alla
funzione di protezione dai rischi, ai sensi dell’art. 40 del Decreto Legislativo
19 settembre 1994 n. 626. Rientrano, ad esempio, tra i D.P.I. … gli
indumenti per evitare il contatto con sostanze nocive, tossiche, corrosive o
con agenti biologici ecc.”;

questa Corte ha più volte affermato, anche sotto il
vigore del D.lgs. n. 626 del 1994, come in tema
di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, ed in
particolare di fornitura ai lavoratori di indumenti, alla stregua della
finalità della disciplina normativa apprestata dal legislatore, per
“indumenti di lavoro specifici” si debbono intendere le divise o gli
abiti aventi la funzione di tutelare l’integrità fisica del lavoratore nonché
quegli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari
funzioni, volti ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi ad esse connessi
(come la tuta ignifuga del vigile del fuoco), oppure a migliorare le condizioni
igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento delle sue
incombenze, onde scongiurare il rischio potenziale di contrarre malattie, come
appunto deve reputarsi per la divisa dell’operatore ecologico (cfr. Cass. n. 11071 del 2008; nello stesso senso Cass.
n. 23314 del 2010);

con particolare riferimento agli operatori
ecologici, comunque addetti alla raccolta dei rifiuti, questa Corte ha sempre
affermato l’obbligo datoriale di manutenzione e lavaggio degli indumenti da
lavoro sul presupposto, fattuale e logico, della qualificazione degli indumenti
medesimi come dispositivi di protezione individuale. In particolare, è stato
precisato che “l’idoneità degli indumenti di protezione – che il datore di
lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori a norma del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 379
fino alla data di entrata in vigore del D.lgs. n.
626 del 1994, e ai sensi dell’art. 40, art. 43, commi 3 e 4, di tale
decreto, per il periodo successivo – deve sussistere non solo nel momento della
consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l’intero periodo di
esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti,
finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario
assoluto (ex art. 32 Cost.), solo nel suddetto
modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è
quello di prevenire l’insorgenza e il diffondersi d’infezioni. Ne consegue che,
essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di
efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale
destinatario dell’obbligo previsto dalle citate disposizioni (cfr. Cass. n.
11139 del 1998, n. 22929 del 2005, n. 14712 e n. 22049 del 2006, n. 18573 del 2007,
n. 11729 del 2009, n. 16495 del 2014, n. 8585 del
2015); con la sentenza n. 18674 del 2015,
questa Corte, nel confermare la pronuncia di appello che aveva qualificato come
D.P.I. gli indumenti usati da una lavoratrice addetta alla pulizia delle
carrozze dei treni, attività comportante la raccolta di rifiuti, lo svuotamento
di cestini e portacenere e l’inevitabile contatto con sostanze nocive o
patogene, come la polvere, la sporcizia, residui organici, ha affermato che
“per i lavori di pulizia di ambienti, treni, ecc. la semplice tuta di
cotone può considerarsi un (seppur minimo) mezzo o dispositivo di protezione
individuale, e non solo strumento identificativo dell’azienda per cui si
lavora, e come tale essa deve essere fornita dal datore di lavoro e tenuta in
stato idoneo”. La medesima pronuncia ha ritenuto come l’inclusione degli
indumenti tra i D.P.I. in ragione della funzione protettiva svolta dovesse
prescindere dalla loro qualificazione o meno in tal senso da parte delle fonti
contrattuali collettive e, deve aggiungersi, anche da parte del documento di
valutazione dei rischi;

sulla base del quadro normativo in materia di
protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di rilievo
costituzionale nonché attuativo delle direttive europee (a partire dalla direttiva quadro 89/391/CE) e delle convenzioni
internazionali, incentrato sull’obbligo di prevenzione quale insieme di
“disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell’attività
lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della
salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno” (art. 2, lett. g), D.lgs. n. 626
del 1994), la giurisprudenza di legittimità ha collegato l’obbligo di
fornitura e manutenzione dei D.P.I. alla idoneità, seppur minima, dei medesimi
di ridurre i rischi legati allo svolgimento dell’attività lavorativa,
costituendo specifico obbligo datoriale quello di porre in essere tutte le
misure necessarie per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori e quindi
per prevenire, con specifico riferimento agli operatori ecologici, l’insorgere
e la diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro familiari, a cui
il rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti da lavoro in
ambito domestico;

nessun rilievo può attribuirsi alle pronunce di
legittimità (Cass. nn. 2625, 5176, 13745 del 2014),
in quanto relative a lavoratori non addetti alla raccolta dei rifiuti, bensì a
mansioni di giardiniere;

neppure paiono significativi i precedenti di questa
Corte (sentenze Sez. 6, nn. 13931 – 13936, 13707, 14033 – 14035, tutte
pronunciate all’udienza del 15.4.2014), laddove veniva precisato come fosse
estraneo al giudizio trattato il thema decidendum “della tutela della
salute, della conformità degli indumenti forniti alla normativa vigente e,
quindi, della violazione dell’art. 2087 c.c.,
dell’art. 35, punti 1 e 3 (b e
c), art. 4 (c) e D.Lgs. n.
626 del 1994, art. 40…”
(peraltro, nelle fattispecie decise con le anzidette pronunce del 2014 non
risulta che l’azienda avesse accettato di farsi carico del lavaggio settimanale
degli indumenti da lavoro, come invece avvenuto da parte della società attuale
controricorrente, a seguito delle prescrizioni contenute nel verbale ispettivo
dell’AsI);

la sentenza impugnata ha dato atto dell’esito del
sopralluogo effettuato dall’AsI, che aveva individuato l’esistenza, nel settore
della raccolta dei rifiuti svolta dalla società, del maggior pericolo di
infortuni a rischio infettivo, più esattamente di un rischio da contatto con
sostanze tossiche, nocive ed agenti biologici;

la Corte di merito, nonostante l’accertamento sulla
esistenza di rischi, specie di natura infettiva, per la salute dei lavoratori
impegnati nell’attività di raccolta dei rifiuti, rischi legati al possibile
contatto con sostanze nocive, tossiche o corrosive, ha escluso la
qualificazione degli indumenti forniti dalla società come D.P.I. sul rilievo
che gli stessi non possedessero una specifica funzionalità protettiva
desumibile da caratteristiche tecniche dettate per la loro realizzazione e
commercializzazione, e ciò nonostante non risultassero adottati altri strumenti
in grado di fronteggiare il rischio pacificamente accertato, cosicché le tute
rappresentavano per gli operatori ecologici l’unico schermo di protezione in
concreto utilizzabile contro il possibile contatto con sostanze nocive per la
salute;

in tal modo la sentenza impugnata è incorsa nel
denunciato vizio di violazione di legge avendo interpretato l’art. 40, comma 1, D.lgs. n. 626
del 1994, e la nozione legale di D.P.I. come limitata alle attrezzature
appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi
alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate; per contro la
disposizione suddetta, atteso l’ampio tenore letterale della previsione ed
avuto riguardo alla precipua finalità di tutela di beni fondamentali del
lavoratore, deve essere letta, in conformità alla giurisprudenza di questa
Corte, nel senso di includere nella categoria dei D.P.I. qualsiasi
attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una
barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio
per la salute e la sicurezza del lavoratore, ai fini dell’adempimento datoriale
all’obbligo, posto dall’art. 4,
comma 5, D.lgs. n. 626 del 1994; raccoglimento del terzo, quarto e sesto
motivo di ricorso, porta a ritenere assorbiti il secondo e il settimo motivo;

risulta, invece, inammissibile il quinto motivo di
ricorso, siccome contenente censure di incompletezza ed inattendibilità del
D.V.R. che non è stato, tuttavia, prodotto né trascritto nelle parti rilevanti,
in violazione quindi degli oneri di allegazione imposti dall’art. 366 co. I (specialmente sub n. 6) c.p.c.;

parimenti appare inammissibile l’ottava doglianza,
laddove invero non risulta individuata alcuna precisa e decisiva circostanza
fattuale il cui esame sia stato pretermesso dalla Corte di merito, mentre in
effetti la doglianza si riduce alla critica delle valutazioni espresse dai
giudici d’appello riguardo alle riportate testimonianze, laddove peraltro anche
con riferimento all’effettivo coinvolgimento degli aggancimi nelle operazioni
di raccolta e smaltimento rifiuti le risultanze istruttorie acquisite andranno
debitamente rivalutate per effetto della cassazione con rinvio in ordine ai
rilevati errori in diritto;

la sentenza impugnata deve essere, pertanto,
cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese del
presente giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Cagliari, in diversa
composizione, che provvederà ad un riesame della fattispecie attenendosi a
tutti i principi sopra enunciati e quindi anche al seguente: “la nozione
legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa
come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la
protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche
certificate, ma, in conformità alla giurisprudenza di legittimità, va riferita
a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto
costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a
qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità
con l’art. 2087 cod. civ., norma di chiusura
del sistema di prevenzione degli infortuni e malattie professionali,
suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo
costituzionale del diritto alla salute, sia dei principi di correttezza e buona
fede, cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro. Nella medesima
ottica il datore di lavoro è tenuto a fornire i suddetti indumenti ai
dipendenti e a garantirne l’idoneità a prevenire l’insorgenza e il diffondersi
di infezioni, provvedendo al relativo lavaggio, che è indispensabile per
mantenere gli indumenti in stato di efficienza e che, pertanto, rientra tra le
misure necessarie “per la sicurezza e la salute dei lavoratori”, che
il datore di lavoro è tenuto ad adottare ai sensi dell’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 626
del 1994 e s.m.i.”;

visto che l’impugnazione risulta accolta, ancorché
in parte, non ricorrono i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n.
115/2002.

 

P.Q.M.

 

Accoglie, nei sensi di cui alla motivazione che
precede, il terzo, il quarto ed il sesto motivo di ricorso, assorbiti il
secondo ed il settimo; rigetta il primo motivo e dichiara inammissibili il
quinto nonché l’ottavo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai
motivi accolti e rinvia alla Corte d’Appello di Cagliari, in diversa
composizione, cui demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di
legittimità. Dichiara insussistenti i presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, D.P.R. n.
115/02 per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato da parte ricorrente.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 16 dicembre 2019, n. 33133
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