Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 dicembre 2019, n. 50919

Impianto di videosorveglianza, Controllo accesso al locale,
Controllo lavoratori nell’espletamento delle loro mansioni, Assenza di un
preventivo accordo sindacale o della autorizzazione della sede locale
dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Liberatoria sottoscritta dai dipendenti

Ritenuto in fatto

 

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 14 gennaio
2019, ha condannato B.R., previa concessione in suo favore delle circostanze attenuanti
generiche, alla pena di euro 1.000,00 di ammenda, avendolo riconosciuto
responsabile della violazione degli artt.
114 e 171 del dlgs n. 196 del
2006 (recte: 2003) e degli artt.
4, comma 2 (recte: comma 1), e 38 della legge n. 300 del 1970,
per avere installato all’interno della propria azienda n. 16 telecamere di un
impianto di videosorveglianza – al dichiarato scopo di controllare l’accesso al
locale e fungere da deterrente per eventi criminosi, ma – in grado di
controllare i lavoratori nell’atto di espletare le loro mansioni, in assenza di
un preventivo accordo sindacale ovvero della autorizzazione della sede locale
dell’Ispettorato nazionale del lavoro.

Il Tribunale, nell’affermare la responsabilità del
prevenuto ha rilevato che questi, sebbene avesse rimosso l’impianto in
questione una volta che la sua istallazione gli era stata contestata, non aveva
provveduto al pagamento della somma determinata a titolo di oblazione
amministrativa, ritenendo che il fatto da lui compiuto non fosse penalmente
rilevante.

Ha, altresì, considerato che il B. aveva chiesto
agli organi periferici dell’Ispettorato competente il rilascio della
autorizzazione ma, prima del suo conseguimento, aveva installato i predetti
apparecchi.

A nulla, ad avviso del Tribunale, poteva valere la
circostanza che l’imputato avesse depositato una liberatoria sottoscritta da
tutti i propri dipendenti, e precedentemente inviata al detto Ispettorato,
posto che il documento in questione non solo era stato formato successivamente
alla materiale realizzazione della condotta a lui ascritta ed alla
constatazione della sua esistenza, ma, in ogni caso, alla luce dei più recenti
orientamenti giurisprudenziali di questa Corte, esso non poteva fungere da
sostituto o della esistenza dell’accordo sindacale ovvero della autorizzazione
rilasciata dall’organo pubblico.

Avverso la predetta sentenza ha interposto ricorso
in appello il B., lamentando la manifesta illogicità della motivazione della
sentenza impugnata, non avendo considerato il Tribunale il tipo di attività
svolta dall’imputato, gestione di un locale pubblico, tale da giustificare,
nell’interesse stesso delle maestranze, una forma di controllo volto ad evitare
il verificarsi di possibili eventi avversi all’interno del locale in questione;
peraltro, la circostanza che le eventuali parti offese del reato contestato
avessero prestato il loro assenso, doveva intendersi come elemento atto ad
escludere la rilevanza penale della condotta contestata.

 

Considerato in diritto

 

Deve preliminarmente rilevarsi che la sentenza
impugnata, con la quale è stata irrogata la sola pena dell’ammenda, non era
suscettibile di essere appellata; il ricorso presentato dal prevenuto come
gravame, pertanto, deve essere convertito, in ossequio al principio del favor
impugnationis, in ricorso per cassazione.

Il ricorso stesso, essendo risultato manifestamente
infondato il motivo di impugnazione proposto, deve essere dichiarato
inammissibile. Deve, sia pur brevemente, essere contestualizzata la fattispecie
contestata rispetto al quadro normativo di riferimento evidenziando il dato
secondo il quale il fatto attribuito al B. – originariamente inquadrato, sotto
il profilo precettivo, nell’ambito dell’art. 4 della legge n. 300 del 1970
(comunemente denominata Statuto dei lavoratori), il quale, appunto, prevedeva,
che la installazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali
derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori può
essere giustificata esclusivamente per esigenze, fra l’altro, di sicurezza del
lavoro e di tutela del patrimonio aziendale, ma deve, in ogni caso, essere
eseguita previo accordo collettivo stipulato con la rappresentanza sindacale
unitaria o con le rappresentanze sindacali aziendali o, ove non sia stato
possibile raggiungere tale accordo, solo in quanto preceduta dal rilascio di
apposita autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, e, sotto quello
sanzionatorio in caso di violazione della predetta prescrizione, nell’ambito di
operatività dell’art. 38
della citata legge – risulta ora disciplinato dall’art. 114 del dlgs n. 196 del 2003
(e non 2006 come erroneamente indicato nel capo di imputazione contestato al
prevenuto), il quale – in tal modo essendo evidenziata la palese continuità
legislativa fra le due norme contenenti il precetto – prevede che “resta
fermo quanto disposto dall’art.
4 della legge 20 maggio 1970, n. 300” e, con riferimento alla sanzione
in caso di inottemperanza al precedente precetto, dall’art. 171 del citato dlgs n. 196 del
2003, il quale, a sua volta, nel testo introdotto a seguito della entrata
in vigore dell’art. 15 del dlgs
n. 101 del 2018 (che non ha tuttavia apportato modifiche sostanziali alla
precedente versione legislativa), applicabile al caso che interessa stante la
chiara continuità normativa fra le varie versioni della disposizione, prevede
che “la violazione delle disposizioni di cui all’art. 4, comma 1, (…) della legge
20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all’art. 38 della medesima
legge”.

Ciò posto, osserva il Collegio come, alla luce delle
predette disposizioni, non abbia alcun rilievo la circostanza, dedotta dal
ricorrente, secondo la quale l’impianto di registrazione visiva era stato
installato onde garantire la sicurezza degli stessi dipendenti, posto che la
finalità di garantire la sicurezza sul lavoro è uno dei fattori che, in linea
astratta, rendono possibile l’attivazione di tale tipo di impianti, salva, tuttavia,
la realizzazione anche delle successive forme di garanzia a tutela dei
lavoratori previste dalle norme precettive dianzi ricordate.

Così come irrilevante è, ai fini della possibile
integrazione della contravvenzione contestata, la circostanza che il B. non
abbia avuto personalmente accesso al contenuto delle videoriprese essendo
l’impianto attraverso il quale esse vengono effettuate gestito da un soggetto
terzo rispetto al datore di lavoro.

Il più volte ricordato precetto contenuto nell’art. 4, comma 1, dello Statuto
dei lavoratori inibisce, in assenza dello svolgimento delle preordinate intese
con le rappresentanze dei lavoratori ovvero in assenza della autorizzazione
rilasciata dall’Ispettorato del lavoro, la installazione degli strumenti di
videosorveglianza a distanza; il fatto che poi le immagini riprese con tali
strumenti siano nella disponibilità del datore di lavoro ovvero di un terzo,
peraltro da quello incaricato, è circostanza del tutto irrilevante ai fini
della integrazione del reato.

Rimane da esaminare il secondo aspetto della censura
formulata dal ricorrente, cioè la insussistenza del fatto per essere stato il
B. autorizzato alla predetta installazione dai propri dipendenti.

Si rileva che al riguardo che la questione appare
suscettibile di essere valutata sotto un duplice profilo; di essi, il primo é
riferito esattamente al caso di specie, avendo il prevenuto inviato
all’Ispettorato del lavoro in data 24 luglio 2014, cioè il giorno successivo a
quello in cui fu costatata la presenza dell’impianto di videosorveglianza, una
dichiarazione sottoscritta da tutti i propri dipendenti, poi prodotta in
giudizio, con la quale costoro dichiaravano di liberare il B. dagli obblighi
previsti a suo carico dall’art.
4 dello Statuto dei lavoratori; il profilo in questione attiene alla
efficacia scriminante di tale dichiarazione; ritiene, infatti, il ricorrente
che tale dichiarazione valga, ai sensi dell’art. 50
cod. pen., quale causa di giustificazione della condotta, avendo i soggetti
che potevano disporre del diritto leso, autorizzato il prevenuto a porre in
essere la condotta a lui contestata, l’altro, invece, coinvolgente la struttura
stessa del reato in questione.

Quanto al profilo ora in esame si rileva che il B.
ha dimostrato che i propri dipendenti avevano dato il proprio assenso alla
installazione dell’impianto in questione in data successiva alla constatazione
della sussistenza della condotta materialmente riconducibile alla
contravvenzione a lui contestata.

Deve, al proposito rilevarsi che, onde attribuire
alla indicata manifestazione di volontà efficacia scriminante, trattandosi di
un elemento negativo della fattispecie (nel senso che si ha reato in quanto la
condotta criminosa sia stata posta in essere senza il consenso di chi poteva
validamente disporre del diritto in tal modo leso), il consenso dell’avente
diritto non solo deve perdurare sino al termine della consumazione
dell’illecito, ma deve essere stato espresso in un momento anteriore a detta
consumazione, non potendo valere la postuma dichiarazione liberatoria
dell’avente diritto ad escludere la rilevanza penale ad un fatto che già si sia
perfezionato come illecito penale in tutti i suoi elementi; l’eventuale
suffragio attribuito alla tesi opposta equivarrebbe ad attribuire al soggetto
disponente non la sola possibilità di sacrificare o meno una propria posizione
soggettiva (ovviamente nei limiti in cui questa sia disponibile), ma anche la
facoltà di condizionare, sulla base della propria volontà, la rilevanza penale
di una fattispecie che, invece, si è già integralmente perfezionata in tutti i
suoi requisiti onde assurgere al grado di illecito, il che appare
inconciliabile con una visione di carattere oggettivo del diritto penale e con
il tendenziale interesse di carattere generale, e non meramente soggettivo
riscontrabile in capo alla sola persona offesa, alla repressione dei reati.

Tale rilievo di per sé apparirebbe, quanto al caso
in esame, già sufficiente per escludere la fondatezza del ricorso proposto dal
B., essendo la sua doglianza sviluppata in relazione alla mancata
valorizzazione in sede di merito della postuma autorizzazione fornita dai suoi dipendenti
alla istallazione del sistema di videosorveglianza sul posto di lavoro,
rendendo, altresì, non pertinente al caso di specie il richiamo, peraltro già
esaminato dal Tribunale meneghino, al precedente di questa stessa Corte
costituito dalla sentenza n. 22611 del 2012;
in tale occasione, infatti, la Corte escluse la rilevanza penale di una
condotta del tipo di quella contestata all’attuale ricorrente, osservando che
non integra il reato previsto dall’art. 4 dello Statuto dei
lavoratori l’installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in
grado di controllare a distanza l’attività dei lavoratori, la cui attivazione,
anche in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, sia
stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti (Corte di cassazione, Sezione III penale, 11 giugno
2012, n. 22611).

In tale pronunzia, infatti, la (peraltro, come
vedremo infra, assai problematica) irrilevanza penale della condotta posta in
essere dall’allora imputato fu ritenuta condizionata dalla esistenza di un
documento scritto, recante la sottoscrizione di tutti i dipendenti del
prevenuto, redatto, a differenza di quanto risulta essersi verificato nella
presente fattispecie, anteriormente alla installazione degli strumenti di
videosorveglianza. Ritiene, peraltro, il Collegio, chiarendo il precedente
inciso, che non sarebbe stato possibile ritenere scriminata la condotta del B.
neppure laddove la stessa, in assenza della intesa in sede sindacale ovvero
della autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, fosse stata preceduta dalla
dichiarazione liberatoria rilasciata dai dipendenti. Infatti, ancora di recente
(cfr., infatti: Corte di cassazione, Sezione III
penale, 8 maggio 2017, n. 22148) questa Corte ha osservato che non può
aderirsi alla tesi, che è sostanzialmente quella sviluppata anche in questa
circostanza dal ricorrente, secondo la quale, avendo la giurisprudenza di
legittimità affermato il principio in forza del quale non integra il reato
previsto dall’art. 4 dello
Statuto dei lavoratori l’installazione di un sistema di videosorveglianza
potenzialmente in grado di controllare a distanza l’attività dei lavoratori, la
cui attivazione, anche in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali o
di autorizzazione pubblica, sia stata preventivamente autorizzata per iscritto
da tutti i dipendenti (si tratta della già ricordata sentenza della Corte di cassazione, Sezione III penale, 11 giugno
2012, n. 22611), sulla base dell’eadem ratio, lo stesso principio debba
valere anche nell’ipotesi in cui il consenso sia stato prestato da tutti i
lavoratori, quantunque oralmente ovvero in forma postuma.

Il Collegio non condivide tale impostazione e
ritiene che il consenso in qualsiasi forma (scritta od orale, preventiva o
successiva) prestato dai singoli lavoratori non valga a scriminare la condotta
del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione
delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice.

Come è stato convincentemente osservato, nella
citata sentenza n. 22611 del 2012, al fine di
sostenere la portata esimente del consenso scritto prestato da tutti i
lavoratori, si è ritenuto illogico negare validità ad un consenso chiaro ed
espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro
rappresentanza; ciò è stato fondamentalmente ritenuto sulla base del rilievo
che la disposizione di cui all’art.
4 dello Statuto dei lavoratori intende tutelare i lavoratori contro forme
subdole di controllo della loro attività da parte del datore di lavoro e che
tale rischio viene escluso, a meno di non voler dare una interpretazione
eccessivamente formale e meccanicistica della disposizione, in presenza del
consenso espresso dagli organismi di categoria rappresentativi, cosicché, a
fortiori, tale consenso deve essere considerato validamente prestato quando
esso promani, non da soggetti meramente rappresentativi della volontà dei
lavoratori, ma direttamente proprio da tutti i dipendenti, posto che
l’esistenza di un consenso validamente prestato da parte di chi sia titolare
del bene protetto, esclude la integrazione dell’illecito.

Sennonché, è stato rilevato ed il Collegio intende
dare con la presente decisione diretta continuità alle condivise considerazioni
che seguono, è proprio quest’ultima affermazione, relativa alla individuazione
del soggetto portatore dell’interesse che la norma intende tutelare, che non
appare suscettibile di essere accolto il ragionamento svolto dalla Corte.

La norma penale in discorso, al pari di quelle che
richiedono l’intervento delle rappresentanze sindacali dei lavoratori per la
disciplina degli assetti nei luoghi di lavoro, tutela, infatti, non l’interesse
personale del singolo lavoratore né la sommatoria aritmetica di ciascuno di
essi, ma presidia degli interessi di carattere collettivo e superindividuale,
sebbene non si possa escludere una possibile interferenza tra la lesione delle
posizioni giuridiche facenti capo, sia pure in prima battuta, alle rappresentanze
sindacali e quelle facenti occasionalmente capo ai singoli lavoratori.

La condotta datoriale, che pretermette
l’interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o aziendali
procedendo all’installazione degli impianti dai quali possa derivare un
controllo a distanza dei lavoratori, produce l’oggettiva lesione degli
interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici, in
quanto deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto,
se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi,
abbiano o meno, da un lato, l’idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per
la loro potenziale finalizzazione al controllo a distanza dello svolgimento
dell’attività lavorativa, e di verificare, dall’altro, l’effettiva rispondenza
di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da
disciplinarne, attraverso l’accordo collettivo, le modalità e le condizioni
d’uso e così liberare l’imprenditore dall’impedimento alla loro installazione.

Peraltro, come è stato correttamente sottolineato da
questa stessa Corte nella citata precedente decisione cui la presente
dichiaratamente si rifà, sia l’accordo con le rappresentanze sindacali che
l’eventuale provvedimento autorizzativo di fonte pubblica devono rispettare i
principi e le regole stabiliti dall’interpretazione prevalente della normativa
lavoristica in tema di controllo nonché dalla disciplina sul trattamento dei
dati personali (si tratta del decreto legislativo
n. 196 del 2003 e successive modificazioni). A questo proposito, non è fuor
di luogo ricordare l’orientamento, da ritenersi tuttora valido in quanto mai
successivamente smentito, espresso dalla giurisprudenza di legittimità nella
sede giurisdizionale specificamente deputata alla composizione del contenzioso
fra parte datoriale e lavoratore, secondo il quale l’installazione in azienda,
da parte del datore di lavoro, di impianti audiovisivi – che è, appunto,
assoggettata ai limiti previsti dall’art. 4 dello Statuto dei
lavoratori anche se da essi derivi solo una mera potenzialità di controllo a
distanza sull’attività lavorativa dei dipendenti – deve essere preceduta
dall’accordo con le rappresentanze sindacali; con l’ulteriore conseguenza che è
identificabile in tale fattispecie, ove il datore di lavoro provveda senza
rispettare l’obbligo del preventivo accordo, un comportamento  antisindacale del datore di lavoro,
reprimibile con la speciale tutela approntata dall’art. 28 dello Statuto dei
lavoratori (Corte di cassazione, Sezione lavoro, 16 settembre 1997, n. 9211).

Con questa pronuncia è stato, pertanto, chiarito che
l’assenso delle rappresentanze sindacali è previsto per legge come uno dei
momenti essenziali della procedura sottesa all’installazione degli impianti,
derivando da ciò l’inderogabilità di detto assenso e la infungibile tassatività
sia dei soggetti legittimati a prestarlo sia del necessario esperimento della
procedura autorizzativa di cui all’art. 4 dello Statuto dei
lavoratori.

A ben vedere, la ragione per la quale l’assetto
della regolamentazione di tali interessi è affidato alle rappresentanze
sindacali o, in ultima analisi, ad un imparziale organo pubblico, con
esclusione della possibilità che i lavoratori, uti singuli, possano
autonomamente provvedere al riguardo, risiede, ancora una volta, nella
considerazione della configurabilità dei lavoratori come soggetti deboli del
rapporto di lavoro, questione che viene in rilievo essenzialmente con
riferimento all’affermazione costituzionale del diritto al lavoro e con
riferimento alla disciplina dei rapporti esistenti tra il datore di lavoro ed
il lavoratore, sia nella fase genetica della sua instaurazione sia in quella
funzionale della gestione del rapporto di lavoro.

La diseguaglianza di fatto e quindi l’indiscutibile
e maggiore forza economico-sociale del datore di lavoro, rispetto a quella del
lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa
sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita
dall’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro, nel solo caso di mancato
accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, ma non invece anche
dal consenso dei singoli lavoratori, poiché, a conferma della sproporzione
esistente tra le rispettive posizioni, in caso contrario basterebbe al datore
di lavoro, onde eludere la procedimentalizzazione imposta dalla legge, fare
firmare a ciascun lavoratore, all’atto dell’assunzione, una dichiarazione con
cui egli accetta l’introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per
ottenere un consenso, la cui libera determinazione appare viziata dal timore,
in caso di rifiuto alla sottoscrizione della dichiarazione in questione, della
mancata assunzione.

Del resto, anche la previsione della sanzione
penale, e in generale l’esigenza di una tutela in forma punitiva dei diritti
riconosciuti al lavoratore, trova compiuta spiegazione in questa sproporzione,
allo stesso modo con il quale il progressivo ridimensionamento del ruolo
dell’autonomia privata nel rapporto fra lavoratore e datore di lavoro ha
sopperito alla sperequazione sociale nei fatti esistente nelle posizioni dei
due soggetti coinvolti dal rapporto in questione.

Da tutto ciò deriva come non abbia alcuna rilevanza
il consenso scritto o orale concesso dai singoli lavoratori, in quanto la
tutela penale è apprestata dalla disposizione ora violata per la salvaguardia
di interessi collettivi di cui, nel caso di specie, le rappresentanze
sindacali, per espressa disposizione di legge, sono esclusive portatrici, in
luogo dei lavoratori che, a causa della posizione di svantaggio nella quale
versano rispetto al datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso viziato.

La protezione di siffatti interessi collettivi,
riconducibili nel caso di specie alla tutela della dignità dei lavoratori sul
luogo di lavoro in costanza di adempimento della prestazione lavorativa, non
viene meno in caso di mancato accordo tra rappresentanze sindacali e datore di
lavoro né determina uno sbilanciamento eccessivo dei rapporti di forza in
favore dell’organismo sindacale, potendo il datore di lavoro comunque
adoperarsi per rimuovere l’impedimento alla installazione degli impianti
attraverso il rilascio di un’autorizzazione che rientra nelle competenze di un
organo pubblico, cui, in regime di imparzialità ed indipendenza, spetta di
controllare la meritevolezza dell’interesse datoriale alla collocazione degli
impianti nei luoghi di lavoro per esigenze organizzative e produttive, per la
sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale.

Da quanto sopra deve farsi discendere che il
consenso o l’acquiescenza che il lavoratore potrebbe, in ipotesi, prestare o
avere prestato, non svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso,
l’interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può
validamente disporne, rimane fuori della teoria del consenso dell’avente
diritto, non essendo nel caso descritto la condotta del lavoratore
riconducibile al paradigma generale dell’esercizio di un diritto, trattandosi
della disposizione di una posizione soggettiva a lui non spettante in termini
di esclusività (sostanzialmente nel condiviso senso, qui ampiamente e spesso
testualmente riportato, oltre alla citata sentenza
n. 22148 del 2017, anche, ancora più recentemente, Corte di cassazione,
Sezione III penale, 24 agosto 2018, n. 38882).

Alle riportate e confermate considerazione, tenuto
conto della manifesta infondatezza degli argomenti svolti dal ricorrente, il
quale nello sviluppare la sua impugnazione non ha assolutamente tenuto conto
degli approdi giurisprudenziali cui questa Corte regolatrice è già nel recente
passato giunta, consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e la
condanna di quello, visto l’art. 616 cod. proc.
pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00
in favore della Cassa delle ammende.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00
in favore della Cassa delle ammende.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 17 dicembre 2019, n. 50919
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