Il provvedimento con il quale si dispone il trasferimento per incompatibilità ambientale non ha natura sanzionatoria o disciplinare ma costituisce uno strumento di autotutela discrezionale dell’amministrazione.
Nota a Cass. ord. 24 ottobre 2019, n. 27345
Fabrizio Girolami
La pubblica amministrazione può legittimamente trasferire (ai sensi dell’art. 2103 c.c.) un dipendente da una struttura organizzativa ad un’altra, quando la permanenza del dipendente nella struttura di appartenenza, per la natura della condotta attuata, determina un’insanabile situazione di disfunzione, disorganizzazione e conflitto organizzativo che faccia venire meno, in primo luogo, l’imprescindibile rapporto di fiducia tra colleghi nell’ambito della stessa struttura e, più in generale, tra l’amministrazione e i cittadini.
Il principio – affermato dalla Corte di Cassazione con ordinanza 24 ottobre 2019 n. 27345 – ha notevole importanza applicativa, in quanto chiarisce la differenza che sussiste tra il provvedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale e il provvedimento di irrogazione di una sanzione disciplinare, i quali sono l’uno indipendente dall’altro.
Nel caso di specie, un dipendente del Ministero degli affari esteri (di seguito, per brevità, “MAE”) in servizio presso il Consolato d’Italia a Scutari in Albania era stato trasferito in Italia, presso la sede centrale a Roma, con apposito provvedimento ministeriale adottato in via d’urgenza, a fronte di riscontrate gravi carenze nella gestione delle pratiche relative al rilascio dei visti.
Al riguardo, la Cassazione ha confermato la legittimità del trasferimento per incompatibilità ambientale irrogato dall’amministrazione e ha dichiarato l’insussistenza del diritto al pagamento dell’indennità di servizio all’estero.
In via preliminare, la Corte rileva che il trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale – come già affermato dalla prevalente giurisprudenza di legittimità sia con riferimento al lavoro subordinato privato (cfr., tra le varie, Cass. 26 ottobre 2018, n. 27226) che al pubblico impiego privatizzato (cfr., ex aliis, Cass. 27 gennaio 2017, n. 2143) – trova la sua “ratio” nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva/unità organizzativa dell’amministrazione e, come tale, va ricondotto alle ragioni “tecniche, organizzative e produttive” di cui all’art. 2103 c.c. e non su ragioni punitive e disciplinari. Ne deriva che il provvedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale, ai fini della sua legittimità, prescinde dall’accertamento della “colpa” (in senso lato) dei lavoratori trasferiti nonché dall’osservanza delle garanzie sostanziali/procedimentali stabilite dalla legge per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari (art. 2106 c.c. e art. 7, L. 20 maggio 1970, n. 300, cd. Statuto dei lavoratori).
Nel settore del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, il trasferimento per incompatibilità ambientale è subordinato a una valutazione discrezionale dei fatti che fanno ritenere nociva, per il prestigio e il buon andamento della pubblica amministrazione, l’ulteriore permanenza del dipendente in una determinata sede.
Secondo la sentenza in commento la sussistenza di una situazione di incompatibilità tra il lavoratore e i suoi colleghi o collaboratori diretti, che importi tensioni personali o anche contrasti nell’ambiente di lavoro comportanti disorganizzazione e disfunzione, concretizza un’oggettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro e va valutata in base al disposto dell’art. 2103 c.c., con conseguenza possibilità di trasferimento del lavoratore, sulla base di comprovate ragioni tecniche organizzative e produttive. E, infatti, rileva la Corte, la situazione di incompatibilità riguarda “situazioni oggettive o situazioni soggettive valutate secondo un criterio oggettivo, indipendentemente dalla colpevolezza o dalla violazione di doveri d’ufficio del lavoratore, causa di disfunzione e disorganizzazione, non compatibile con il normale svolgimento dell’attività lavorativa”.
Nel caso di specie, il MAE ha legittimamente irrogato il trasferimento, in quanto il comportamento attuato dal dipendente (gravi irregolarità nella gestione delle pratiche relative ai visti) si è rivelato idoneo a incidere negativamente sulla funzionalità e sull’efficienza dell’ufficio, nonché sull’immagine e prestigio della pubblica amministrazione.
Sulla seconda questione relativa al pagamento dell’indennità di servizio all’estero, la Cassazione ha negato al ricorrente il diritto alla relativa percezione, in applicazione del consolidato principio (affermato già da Cass. n. 6039/2018) secondo cui l’indennità di servizio all’estero non ha natura retributiva essendo destinata a sopperire agli oneri derivanti dal servizio all’estero ed è ad essi commisurata (trattasi, in altri termini, di indennità che tiene conto della peculiarità della prestazione lavorativa all’estero, in relazione alle specifiche esigenze del servizio diplomatico-consolare). Tale indennità, nel caso di specie, non è spettante, atteso che il lavoratore, una volta rientrato in Italia, non doveva effettuare gli esborsi che l’indennità doveva compensare.