Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 dicembre 2019, n. 34736

Licenziamento, Negligenza nello svolgimento delle funzioni di
direttore commerciale, Venir meno del rapporto fiduciario, Giusta causa

Fatti di causa

 

1. Il Tribunale di Salerno rigettava il ricorso
proposto da L. P. per la declaratoria di illegittimità del licenziamento
intimato al predetto dalla s.p.a. A., il 12.12.2011, per giusta causa derivante
da negligenza nello svolgimento delle funzioni di direttore commerciale della
società, per avere il P. dissimulato la inconsistenza dei risultati prodotti,
disattendendo le direttive aziendali tese ad intensificare l’attività
commerciale e la ricerca di nuovi clienti, intrattenendo rapporti con una ditta
concorrente, non realizzando l’obiettivo del budget e non giustificando alcune
assenze. Tali condotte avevano determinato il venir meno del rapporto
fiduciario con i vertici aziendali giustificativo del recesso.

2. Era rigettata anche la domanda riconvenzionale
della società di natura risarcitoria.

3. La Corte d’appello di Salerno riteneva la
fondatezza del gravame principale del P. limitatamente alla regolazione delle
spese di lite, rilevando, quanto alle ulteriori doglianze sulla immutabilità
della contestazione disciplinare, che la contestazione riguardava gli stessi
fatti posti a fondamento del licenziamento e che il diritto di difesa era stato
rispettato quanto alla contestata negligenza conclamata, diversamente
apprezzata.

3. Neanche poteva ritenersi presente la dedotta
genericità e mancanza di tempestività della contestazione, quanto al primo
profilo dovendo ritenersi che la contestazione disciplinare del 17.10.2011
enunciasse in modo analitico in otto punti le mancanze tenute nelle attività
commerciali ed operative e, quanto al secondo profilo, che non vi fosse carenza
motivazionale nel testo della sentenza appellata, la quale aveva evidenziato
come le mancanze rilevate già nel 2010 non erano dimostrative del ritardo della
sanzione, quanto della necessità di rimarcare che altre condotte anche
omissive, già compiute  nel 2010, si
aggiungevano a quelle contestate per l’anno 2011, a prescindere dal carattere
relativo del requisito de quo, compatibile con la complessità della struttura
organizzativa e con la necessità di spazio temporale sufficiente per
l’accertamento e valutazione dei fatti ascritti al dipendente.

4. La negligente conduzione dell’attività operativa
era stata tale da integrare una lesione irrimediabile del rapporto di fiducia,
non ricorrendo neanche alcuna eccedenza di proporzionalità nella misura
espulsiva adottata rispetto alla contestazione elevata, indice di disaffezione
verso gli interessi aziendali, caratterizzata da condotta di distrazione di
energie del dirigente, indirizzate verso interessi privati ed ultronei rispetto
all’attività aziendale, senza alcuna giustificazione delle omissioni e mancanze
riscontrate, sostanziatesi anche nel tentativo, posto in essere dal dirigente,
di dissimulare l’assoluta inconsistenza di risuldtprodotti. La condotta –
caratterizzata da assoluta mancanza di report nei primi mesi del 2011 e di
attività di  programmazione sin dal 2010,
da sconti praticati sulle tariffe nei contratti con i padroncini, con una
perdita di bilancio di centomila euro, dalle frequentazioni avute in
Civitavecchia per finalità non aziendali, con esiti negativi di attività non
compiuta e rinvenimento in computer di file relativi ad operatori in
concorrenza con l’A. s.p.a. – era, secondo la Corte, tale da giustificare la
fondatezza della misura adottata, proporzionata alla gravità, molteplicità e
reiterazione delle condotte tenute, anche senza preavviso come previsto dall’art. 32 CCNL di riferimento.

5. La soccombenza reciproca nell’economia del
processo svoltosi in primo grado conduceva alla riforma del capo sulle spese
della sentenza di primo grado, nel senso della statuizione di compensazione
delle stesse.

6. Di tale decisione domanda la cassazione il P.,
affidando l’impugnazione a due motivi, illustrati nella memoria depositata ai
sensi dell’art. 378 c.p.c., cui resiste, con
controricorso, la società.

 

Ragioni della decisione

 

1. Va, preliminarmente, affrontata la dedotta
questione dell’inammissibilità del controricorso, che il ricorrente collega
alla mancata notifica dello stesso, desunta dalla mancanza degli adempimenti
necessari per determinare la ritualità della notifica dell’atto, non ricevuto
dal destinatario per essere risultata la casella PEC dello stesso piena.

1.1. Al riguardo deve osservarsi che non esiste per
gli avvocati che procedano alle notificazioni ai sensi della legge 53/94 alcuna
normativa che disciplini l’ipotesi della mancata ricezione, imputabile al
destinatario, dell’atto notificato a mezzo pec, mancata ricezione che, nel caso
che ne occupa, è dovuta alla saturazione della casella di posta del ricorrente.

1.2. L’art. 3 bis, comma 3, della legge 21 gennaio
1994 n. 53, che disciplina la facoltà di notificazione di atti civili,
amministrativi e stragiudiziali per gli avvocati (e procuratori legali),
prevede che “La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, nel
momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dall’articolo 6, comma 1, del decreto del
Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, e, per il
destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta
consegna prevista dall’articolo 6,
comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68”.

1.3. Null’altro prevede la norma, a differenza di
quanto, al contrario, dispone l’art.
16, comma 6, del d.l. 18.10.2012 n. 179, convertito, con modificazioni,
dalla legge 17.12.2012 n. 221 – che contiene
le disposizioni in materia di comunicazioni e notifiche telematiche di
cancelleria – secondo cui “Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti
per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta
elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il
predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in
cancelleria.”

1.4. Più specificatamente il D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art.
20 (recante “Regolamento concernente le regole tecniche  per l’adozione nel processo civile e nel
processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in
attuazione dei principi previsti dal Codice dell’Amministrazione Digitale – D. Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e successive
modificazioni, ai sensi del D.L.
29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22 febbraio 2010, n. 24”), disciplina i
“requisiti della casella di PEC del soggetto abilitato esterno”,
imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a  garantire il corretto funzionamento della
casella di PEC e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta
elettronica.

1.5. La mancata consegna è imputabile al
destinatario nel caso in cui costui, venendo meno agli obblighi previsti dal D.M. n. 44 del 2011, art. 20,
non si doti dei necessari strumenti informatici, ovvero non ne verifichi
l’efficienza. Nel caso che la trasmissione via PEC non vada a buon fine per
causa imputabile al destinatario, trova applicazione il D.L. n. 179 del 2012, art. 16,
comma 6, secondo cui le notificazioni e le comunicazioni “sono eseguite
esclusivamente mediante deposito in cancelleria”. Peraltro, nonostante la
mancata ricezione della comunicazione per causa a lui imputabile, il
destinatario è comunque nella condizione di prendere cognizione degli estremi
della comunicazione medesima, in quanto il sistema invia un avviso al portale
dei servizi telematici, di modo che il difensore destinatario, accedendovi,
viene informato dell’avvenuto deposito.

Ai sensi del D.M. n. 44 del 2011, art. 16,
comma 4, infatti, “nel caso in cui viene generato un avviso di mancata
consegna previsto dalle regole tecniche della posta elettronica certificata
(…) viene pubblicato nel portale dei servizi telematici, secondo le
specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’art. 34, un apposito avviso di
avvenuta comunicazione o notificazione dell’atto nella cancelleria o segreteria
dell’ufficio giudiziario, contenente i soli elementi identificativi del
procedimento e delle parti e loro patrocinatori”. La notifica depositata
in cancelleria è in tal modo a disposizione dell’avvocato.

1.6. In conclusione, soltanto per la notifica a
mezzo cancelleria vi è una garanzia presidiata da una misura organizzativa,
ossia uno strumento che ripercorre la norma consentendo il depositato in
cancelleria dell’atto non ricevuto dal destinatario per causa allo stesso
imputabile e la previsione normativa che regola tali notificazioni di
cancelleria non è estensibile ad ipotesi, quale quella qui scrutinata, non
assistita da analoga garanzia, verificandosi diversamente una conseguenza
punitiva e sanzionatoria che non trova alcun appiglio  normativo.

1.7. Tuttavia, la peculiarità dell’ipotesi che
conduce all’impossibilità di ritenere la notifica come effettuata, può essere
eccessivamente penalizzante per il notificante sul quale ricadrebbero in toto
le conseguenze del negligente comportamento del destinatario delle notifica,
ciò che dovrebbe indurre a ritenere utilmente richiamabile nella fattispecie
considerata i principi espressi da ultimo da Cass. s. u. 17.5.2016 n. 14594,
cui sono conformi, tra le altre, Cass. 31.7.2017 n. 19059, Cass. 11.5.2018 n. 11485). Il principio affermato
è quello alla cui stregua, in caso di notifica di atti processuali non andata a
buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito
negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria (con
rilevanza del termine iniziale di attivazione del procedimento), deve
riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con
tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il
limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di
cui sia data prova rigorosa.

1.8 Alla stregua di quanto rilevabile dalla relata
di notifica del controricorso dell’A. s.p.a., eseguita ai sensi della legge n.
53 del 1994, risulta un avviso di mancata consegna quale conseguenza della
saturazione (indicazione “casella piena”) della casella elettronica
del destinatario, avv. S.C., sicchè, alla luce delle svolte considerazioni, il
controricorso va dichiarato inammissibile, non potendo ritenersi, in virtù
delle considerazioni svolte, che il notificante fosse esonerato dall’effettuare
ulteriore tentativo di notificazione,.

 2. Con il
primo motivo, il P. denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 34 c.c.n.l. in relazione
all’art. 360, n. 3, c.p.c.,  rilevando che dal contenuto della norma contrattuale
si desuma che nell’esame della legittimità del licenziamento intimato al
ricorrente il giudice d’appello non avrebbe dovuto arrestarsi alla verifica
della non arbitrarietà, ma avrebbe dovuto estendere la sua valutazione alla
“giustificazione” del licenziamento.

3. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta
violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c.,
in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.,
sostenendo che la Corte d’appello abbia fatto malgoverno della disposizione di
legge rubricata, non avendo la stessa diversi livelli di  applicazione in relazione alla tipologia del
lavoratore licenziando e non esistendo un affievolimento del canone di verifica
della recedibilità in tronco correlato alla tipologia di lavoratore.

4. L’art.
34 del CCNL dei Dirigenti delle imprese di autotrasporto, invocato dal P.,
prevede che “1. Nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato,
la parte recedente deve darne comunicazione per iscritto all’altra parte. 2.
Nel caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima è tenuta a
specificarne contestualmente la motivazione, in difetto di che il licenziamento
sarà ritenuto senz’altro ingiustificato. 3. Il dirigente, ove non ritenga
giustificata la motivazione addotta dall’azienda, potrà ricorrere al Collegio
arbitrale di cui all’art. 29”.

4.1. La formulazione di tale norma lascia intendere
che la stessa si riferisce alle modalità di risoluzione del rapporto, laddove
la critica del ricorrente si incentra non sulla mancata osservanza da parte
dell’azienda dell’obbligo di contestualità della motivazione in sede di
recesso, quanto sulla necessità di accertare la “giustificazione”
(giustificatezza) dello stesso in sede di accertamento giudiziale delle ragioni
addotte a sostegno del recesso.

4.2. Quanto detto vale a prescindere dall’ulteriore
rilievo che il vizio di violazione di legge (cui è parificato quello di
violazione di norma di CCNL) consiste nella deduzione di un’erronea
ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta
recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo
della stessa, ciò che non risulta invece costituire l’oggetto della doglianza
per come formulata in rubrica.

4.3. Il motivo è poi inconferente, avendo la
sentenza ritenuto addirittura che fosse sussistente la giusta causa di recesso
in relazione a tutte le omissioni e comportamenti negligenti addebitati al
dirigente, il che consente di ritenere superato il rilievo del ricorrente, che
si riferisce ad ipotesi di minore rilevanza del disvalore espresso dal
comportamento addebitato al dirigente, nella specie ritenuto invece integrativo
di una giusta causa idonea a superare ogni tema di indagine sollecitato con il
motivo.

4.4. Alla stregua della consolidata giurisprudenza
di questa Corte, la nozione di giustificatezza del licenziamento dei dirigenti,
per riconnettere alla mancanza di essa il diritto del dipendente licenziato ad
un’indennità si discosta, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, da
quella di giustificato motivo di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 3.
Sul piano soggettivo, tale asimmetria trova la sua ragion d’essere nel rapporto
fiduciario che lega in maniera più o meno penetrante al datore di lavoro il
dirigente in ragione delle mansioni a lui affidate per la realizzazione degli
obiettivi aziendali, per cui anche la semplice inadeguatezza del dirigente
rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante o un’importante deviazione del
dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro o
un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale a causa
della posizione rivestita dal dirigente possono, a seconda delle circostanze,
costituire ragione di rottura di tale rapporto fiduciario e quindi giustificare
il licenziamento sul piano delle, disciplina contrattuale dello stesso ed, a
tal fine, è sufficiente una valutazione globale, che escluda l’arbitrarietà del
recesso, in quanto intimato con riferimento a circostanze idonee a turbare il
rapporto fiduciario con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l’ampiezza
di poteri attribuiti al dirigente. (cfr. Cass.
17.3.2014 n. 6110).

4.5. La giusta causa, che esonera il datore di
lavoro dall’obbligo di concedere il preavviso o di pagare l’indennità
sostitutiva, non coincide con la giustificatezza, che esonera il datore di
lavoro soltanto dall’obbligo di pagare l’indennità supplementare prevista dalla
contrattazione collettiva, in quanto la giusta causa consiste in un fatto che,
valutato in concreto, determina una tale lesione del rapporto fiduciario da non
consentire neppure la prosecuzione temporanea del rapporto (cfr. Cass. 10.4.2012 n. 5671): nella specie, la
ritenuta sussistenza di comportamenti integranti giusta causa rende priva di
rilevanza la doglianza del ricorrente.

4.6. In conclusione, al di là dell’evidenziata
inconferenza del motivo, le affermazioni della Corte territoriale sono in linea
con i principi sanciti dalla S. C. su richiamati.

5. La critica espressa nel secondo motivo si fonda
su una insussistente dequotazione dell’istituto della giusta causa, che non
trova riscontro nelle motivazioni poste a sostegno del decisum, le quali
evidenziano, al contrario, un gravissimo inadempimento che giustifica la
sanzione adottata, proporzionata alla gravità, molteplicità e reiterazione
delle condotte tenute, anche senza preavviso come previsto dall’art. 32 c.c.n.l. (così pag. 10-11
della sentenza impugnata).

5.1. Ogni ulteriore rilievo in ordine all’asserita
insussistenza di diversi livelli di applicazione dell’art. 2119 c. c. in relazione alla tipologia del
lavoratore licenziando va confutato alla stregua delle argomentazioni spese per
disattendere il primo motivo;

6. In conclusione, deve pervenirsi al rigetto del
ricorso.

7. Le spese del presente giudizio seguono la
soccombenza del ricorrente e sono liquidate in dispositivo limitatamente a
quelle riferite alla discussione effettuata dal controricorrente, in
conseguenza della rilevata inammissibilità del controricorso.

8. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115
del 2002.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro
200,00 per esborsi, euro 1500,00 per compensi professionali, oltre accessori
di  legge, nonché al rimborso delle spese
forfetarie nella misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13,
comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1bis, del citato
D.P.R., ove dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 30 dicembre 2019, n. 34736
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