Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 02 gennaio 2020, n. 8
Licenziamento disciplinare, Ministero degli Affari Esteri,
Gravissime irregolarità nel rilascio di visti per l’ingresso in Italia
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di Roma ha respinto il reclamo
proposto da P.S. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva
rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare intimato nei suoi
confronti dal Ministero degli Affari Esteri, per gravissime irregolarità
commesse dal medesimo, quale funzionario amministrativo del Consolato generale
d’Italia a San Paolo— del Brasile, nel rilascio di visti per l’ingresso in
Italia.
La Corte riteneva che, nonostante il proscioglimento
per prescrizione pronunciato in sede penale, gli atti provenienti dal Tribunale
penale e valutati in sede disciplinare attestassero appieno le condotte
perseguite e supportassero la scelta della P.A. di adottare la massima
sanzione.
2. P.S. ha proposto ricorso per cassazione sulla
base di un unico articolato motivo, poi illustrato da memoria, cui ha resistito
con controricorso il Ministero.
Ragioni della decisione
1. Con l’unico articolato motivo il ricorrente
afferma, richiamando gli artt. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.,
la violazione e falsa applicazione dell’art. 55-bis, co. 4 e dell’art. 55-ter,
co. 2, 3 e 4 d.lgs. 165/2001, nonché dell’art.
653, co. 1-bis, c.p.
1.1 Da un primo punto di vista P.S. sostiene che la
Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che il Ministero avesse
verificato la sussistenza della sua responsabilità per i fatti attribuitigli in
occasione del licenziamento disciplinare, essendosi viceversa limitato a
richiamare i fatti così come valutati dal giudice penale nel corso del giudizio
di primo grado svolto in quella sede, senza alcun autonomo apprezzamento.
La censura è infondata, in quanto la Corte
territoriale ha espressamente ritenuto che gli atti penali fossero stati
viceversa valutati in sede disciplinare, riportando stralci del provvedimento
di licenziamento in cui risulta articolata un’ampia motivazione in proposito,
riferita a vari elementi ed ove si fa riferimento anche ad un un’«ulteriore
controllo» da parte dell’U.P.D.
1.2 Da altro punto di vista il ricorrente sostiene
che vi sarebbe stata violazione delle norme sull’efficacia extrapenale di
giudicato della pronuncia di estinzione del reato per prescrizione, ma si
tratta di censura inammissibile, perché incoerente rispetto alla ratio
decidendi, in quanto né la P.A., né la Corte d’Appello hanno fatto leva
sull’efficacia di giudicato delle pronunce rese in sede penale, quanto
piuttosto sulle risultanze delle indagini e dell’istruttoria penale, qual mere
fonti di prova dell’illecito perseguito.
1.3 Un terzo profilo di censura consiste nel rilievo
secondo cui il procedimento disciplinare risulterebbe viziato per essere stato
riattivato, dopo la sentenza penale definitiva, oltre il termine di sessanta
giorni, in violazione del combinato disposto degli artt. 55-bis, n. 4 e 55-ter, n. 4, d.
Igs. 165/2001 ed esso sarebbe stato altresì concluso oltre il termine di
180 giorni in violazione ancora del disposto dell’art. 55-ter n. 4 cit.
Lo stesso ricorrente riconosce che tali censure non
erano state precedentemente sollevate nei gradi merito, ma a suo dire esse
sarebbero rilevabili d’ufficio, perché relative a nullità c.d. di protezione.
Si tratta di assunto non condivisibile, essendosi
ripetutamente affermato ed è qui condiviso anche ai sensi e per gli effetti
dell’art. 118 disp. att. c.p.c., che «la
disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità,
rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla
previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per
il promovimento della successiva azione di impugnativa (…), non essendo
equiparabile all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati;
ne consegue che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità
del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte» (in ordine di tempo, Cass. 24 marzo 2017, n. 7687; Cass. 2 ottobre
2018, n. 23869; Cass. 5 aprile 2019, n. 9675; Cass. 11 luglio 2019, n. 18705).
Ciò esclude dunque, come argomentato nelle citate
pronunce, la rilevazione anche delle nullità c.d. di protezione e rende
pertanto inammissibili i corrispondenti profili di censura qui prospettati ex
novo.
1.4 Il ricorrente infine afferma che la sanzione
disciplinare sarebbe illegittima, perché irrogata sulla base di una previsione
di contratto collettivo non più esistente al momento del licenziamento.
In proposito è pacifico che i fatti da cui deriva la
sanzione, posti in essere tra il novembre 2000 e l’aprile 2001, hanno
costituito oggetto di contestazione il 28.5.2001, con procedimento disciplinare
sospeso il 16.7.2001, quindi riattivato nel 2015, fino al licenziamento del
2.11.2015.
Così come è pacifico che, all’epoca della
commissione dei fatti e della loro contestazione, vigeva il C.C.N.L. 1994-1997 ed al momento del licenziamento
il C.C.N.L. 2002-2005.
In effetti, l’art. 16, co. 2, del secondo C.C.N.L.
ha previsto, rispetto a fatti commessi prima della sua entrata in vigore ma per
i quali il procedimento fosse ancora pendente, l’applicazione della previgente
contrattazione, se più favorevole.
Tuttavia, è palese che, rispetto alla vicenda
oggetto di causa, la normativa previgente e quella sopravvenuta sono identiche
e dunque il problema in realtà non si pone.
La sanzione è stata irrogata io ragione di
«gravissime irregolarità» commesse nell’ambito del «rilascio dei visti», per le
quali si svolse il processo penale, poi chiuso con la declaratoria di
prescrizione per i reati ascritti.
Il licenziamento è stato irrogato richiamando l’art. 25, co. 5, lett. a) e d) del
C.C.N.L. 1994-1997 e dunque le fattispecie inerenti la «commissione in
servizio di gravi fatti illeciti di rilevanza penale (lett. a)» e la
commissione di «fatti o atti dolosi, non ricompresi nella lettera
“a”, anche nei confronti di terzi, di gravità tale da non consentire
la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro» (lett. d) Il
recesso è stato dunque esercitato, come dimostra il richiamo alla lettera d),
anche a prescindere dalla rilevanza penale dei fatti addebitati
L’art.
13, co. 6, del C.C.N.L. sopravvenuto prevede parimenti alla lettera d) il
licenziamento per la «commissione in genere – anche nei confronti di terzi – di
fatti o atti dolosi, che, pur non costituendo illeciti di rilevanza penale,
sono di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del
rapporto di lavoro» e dunque appunto anche a prescindere dall’integrare, i
fatti contestati, un illecito penale.
Il raffronto, qui ammissibile perché attinente a
profili di diritto suscettibili di diretta interpretazione da parte di questa
Corte (art. 360 n. 3 c.p.c., in relazione ai
contratti collettivi nazionali di lavoro), porta dunque a concludere che, per
gli illeciti contestati, è previsto il licenziamento sia nel regime sostanziale
previgente che in quello successivo e dunque, come giustamente sostenuto nelle
difese della P.A., la questione sull’efficacia nel tempo delle diverse
discipline è priva di rilievo, perché non ve ne è una che sia più favorevole o
più sfavorevole per il ricorrente.
Sicché, anche a voler considerare come prevalente la
disciplina sostanziale esistente al momento del licenziamento, il richiamo
nell’atto di recesso alla contrattazione esistente al momento della commissione
del fatto si traduce in un irrilevante erronea indicazione della norma sanzionatoria,
ma non in un effettivo vizio di diritto sostanziale.
2. Il ricorso va quindi integralmente rigettato, con
regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che
liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115
del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma
1-bis, dello stesso articolo 13,
se dovuto.