Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 07 gennaio 2020, n. 142
Violazione delle norme antinfortunistiche, Reato di lesioni
colpose aggravate, Operazioni di scavo, sbancamento, fondazione e movimenti
terra, Omissione concrete misure di sicurezza, Cantiere in condizioni di non
sufficiente salubrità
Ritenuto in fatto
1. La Corte d’appello di Perugia, in parziale
riforma della sentenza del Tribunale di Spoleto, con la quale P.P. era stato
condannato per il reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione delle
norme antinfortunistiche e altro, ha dichiarato estinti i reati di cui ai capi
B), C) e D) per prescrizione, rideterminando la pena per il capo A) in mesi sei
di reclusione e confermando nel resto.
2. All’imputato si è contestato, nella qualità di
datore di lavoro, in quanto amministratore unico della ditta P.A. s.r.l.,
nonché di committente dei lavori di realizzazione di opere in un fabbricato di
proprietà, di avere cagionato al lavoratore U.C.G., muratore, lesioni personali
per colpa generica e specifica, consistita quest’ultima: nella violazione dell’art. 96 comma 1 lett. g), in
relazione all’art. 89 comma 1
lett. h) e all’allegato VI del d.lgs. 81/08,
perché, pur avendo previsto nel Documento Valutazione Rischi (di seguito DVR)
il rischio specifico del seppellimento dei lavoratori per eventuali frane della
scarpata, correlato alle operazioni di scavo, sbancamento, fondazione e
movimenti terra, ometteva di prevedere concrete misure di sicurezza, adeguate a
prevenire o ridurre tale rischio; nella violazione dell’art. 95 comma 1 lett. a) d.lgs.
81/08, per non avere assicurato le misure generali di tutela di cui all’art. 15 e il mantenimento del
cantiere in condizioni di sufficiente salubrità, procedendo alla realizzazione
di un muro di sostegno, in assenza di permesso a costruire, senza il deposito
dei calcoli strutturali prescritto per le zone sismiche e, comunque, in
violazione delle norme della buona tecnica costruttiva, avuto riguardo alla
natura e alle condizioni del terreno; nella violazione dell’art. 159 comma 2 lett. a) in
relazione all’art. 118 d.lgs. 81/08, per non avere assicurato nei lavori di
sbancamento finalizzati alla realizzazione del muro di contenimento e di un
passaggio pedonale pertinenziali all’immobile, una inclinazione tale da
impedire franamenti, avuto riguardo alla natura del terreno e, comunque, per
non avere assicurato il consolidamento del terreno contro il rischio di frane;
infine, nella violazione dell’art.
159 comma 1 lett. g) in relazione all’art. 89 comma 1 lett. h) e all. VI
d.lgs. 81/08, perché, pur avendo previsto nel DVR il rischio specifico del
seppellimento di cui sopra, aveva però omesso di prevedere concrete misure di
sicurezza, adeguate a prevenire o ridurre detto rischio.
3. Avverso la sentenza d’appello, ha proposto
ricorso l’imputato con difensore, il quale ha formulato sei motivi.
Con il primo, ha dedotto violazione e falsa
applicazione degli artt. 43 cod. pen., 96 lett. g), in relazione all’art. 89 lett. h), 95 comma 1 lett. a) e 118 del d.lgs. 81/08, assumendo
che la contestazione sarebbe priva di fondamento, atteso che, nella specie, non
erano stati realizzati né uno scavo, né una trincea, ma solo un muro di
recinzione, senza funzione di contenimento della scarpata, che non era
appoggiata ad esso.
Quanto agli ulteriori addebiti, la difesa ha
osservato che, secondo gli esiti della stessa consulenza del pubblico
ministero, il crollo del muro era ascrivibile soltanto all’infortunato, non
sussistendo alcuna correlazione causale tra lo stato di disordine del cantiere
e l’evento, altresì rilevando la genericità dell’addebito.
Si assume, inoltre, che – nella specie – non sarebbe
stato condotto alcun lavoro di sbancamento, il terreno vicino alla scarpata non
avendo caratteristiche tali da fare prevedere frane o scoscendimenti, il crollo
del muro essendo stato conseguenza della cattiva esecuzione dei lavori di
costruzione di esso.
Con il secondo motivo, ha dedotto violazione di
legge quanto al profilo di colpa generica ascritto, rilevando che il P. aveva
affidato al suo dipendente la esecuzione dei lavori e predisposto un piano
operativo sotto la sorveglianza del C., direttore dei medesimi.
Con il terzo motivo, ha dedotto violazione di legge
anche con riferimento alla ritenuta addebitabilità dell’evento, in difetto di
un accertamento sulle cause del crollo, come riconosciuto dallo stesso
consulente del pubblico ministero.
Con il quarto motivo, ha dedotto vizio della
motivazione, assumendone la erroneità e contradditorietà, nonché l’illogicità,
quanto alla valutazione delle prove, con specifico riferimento alle
dichiarazioni dell’ispettore ASL G. e del fratello della vittima e alle
conclusioni del consulente dell’accusa che, pure, non aveva ritenuto accertata
la causa di quel crollo, nessun elemento di conferma del dichiarato dell’organo
accertatore (che aveva riferito che il muro era crollato a causa del cedimento
della scarpata) essendo rinvenibile nelle affermazioni del fratello della
vittima, il quale si era limitato ad affermare di aver sentito un forte rumore.
Sotto altro profilo, la difesa ha richiamato la
circostanza che il direttore dei lavori, nominato dall’imputato proprio al fine
di vigilare sulla esecuzione dei lavori, era stato assolto.
Con il quinto motivo, ha dedotto violazione di legge
e vizio di contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento
alla valutazione del comportamento del lavoratore, unico responsabile del
crollo del muro.
Con il sesto, infine, ha dedotto violazione di legge
in relazione al calcolo delle sospensioni del termine di prescrizione, che la
Corte di merito ha ritenuto spirare al 05/01/2020, convenendo la difesa sul
periodo di giorni 686 calcolato con riferimento all’astensione del difensore
dall’attività di udienza indetta dall’organismo di categoria, ma non anche sul
periodo di ulteriori giorni 119, riferibili a richieste di rinvio del difensore
per effettuare produzioni documentali.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Il giudice di merito ha ricostruito la dinamica
del sinistro attingendo alle acquisite evidenze probatorie. Sulla scorta di
esse, ha ritenuto accertati gli elementi costitutivi della fattispecie
contestata, non prima di avere descritto la dinamica degli eventi.
A seguito di segnalazione del 118, era intervenuto
sul luogo dell’infortunio un ispettore ASL il quale aveva constatato che
l’incidente (crollo di un muro, una parte del quale realizzata nei giorni precedenti,
che aveva investito il lavoratore presente al di sotto di esso) era accaduto
mentre erano in corso lavori di realizzazione del muro stesso da parte di
dipendenti della ditta dell’imputato (che era pure uno dei committenti
dell’opera, unitamente alla consorte P.).
Erano stati richiesti due permessi a costruire,
depositato quello per la esecuzione del muro proprio il giorno dell’infortunio.
Il fratello dell’infortunato aveva riferito di
essersi trovato nel cantiere allorché aveva sentito un rumore improvviso e
notato il muro, la cui costruzione era iniziata due giorni prima, crollato
addosso alla vittima. Il P. aveva ordinato ad altri dipendenti di riempire il
vuoto tra il muro e la scarpata del terreno retrostante. Il muro era stato
realizzato senza fondazione.
Il consulente del pubblico ministero, dal canto suo,
aveva precisato che la realizzazione del muro era iniziata senza titolo
abilitativo e, quanto alle modalità di esecuzione dell’opera, che esso era
stato eretto con una modesta fondazione (blocchetti di Poroton), tagliata una
parte della scarpata, ipotizzando che la stessa stesse in piedi da sola,
sebbene si trattasse di un vero e proprio muro di sostegno o contenimento,
realizzato in maniera inidonea, senza adempiere all’obbligo di “deposito
sismico”.
Era indubbio, per il consulente, che – ove l’opera
fosse stata eseguita come muro di sostegno – non sarebbe crollata, poiché un
normale dimensionamento di un metro e mezzo avrebbe garantito contro il rischio
di ribaltamenti o crolli, sia durante l’esecuzione dei lavori, che
successivamente.
L’esperto aveva indicato una pluralità di possibili
cause del crollo.
Alla stregua di tali contributi dichiarativi, la
Corte territoriale ha ritenuto irrilevante la circostanza che le cause dirette
del crollo non fossero state accertate, atteso che, in ogni caso, ciascuna di
esse sarebbe stata riconducibile alla condotta colposa dell’imputato, il quale,
comproprietario dell’immobile e titolare della ditta incaricata di eseguire i
lavori, nonché soggetto che aveva seguito costantemente lo svolgimento degli
stessi, aveva violato le regole di salvaguardia, specificamente preposte a
garantire dal rischio concreto, atteso che aveva omesso di valutare quello di
seppellimento, aveva disposto che il muro fosse realizzato senza deposito del
progetto, e infine consentito che lo sbancamento fosse effettuato in maniera
inadeguata.
In altri termini, come osservato dalla Corte di
merito, il fatto stesso di avere ordinato la realizzazione del muro di
contenimento della scarpata riempiendo lo spazio vuoto tra la stessa e il primo
si era posto in termini di diretta causalità con qualsiasi ipotesi di crollo
del muro (quindi, anche con un urto accidentale di un mezzo meccanico dello
stesso cantiere), essendo stata omessa ogni misura di sicurezza per prevenire
il rischio del crollo, del tutto prevedibile, considerate le caratteristiche
dello sbancamento effettuato.
Né, per i giudici del merito, l’imputato poteva
invocare, ai fini di dimostrare l’interruzione del nesso di causalità tra la
sua condotta e l’evento, la condotta negligente o imperita altrui: il
riferimento è al direttore dei lavori e alla stessa vittima.
Quanto al primo, la Corte perugina ha affermato,
sulla scorta delle dichiarazioni del teste U. G., fratello della vittima, che
era stato proprio il P. a ordinare la costruzione di quel muro e il riempimento
dello spazio tra lo stesso e lo scavo, confermando tale versione anche dopo le
contestazioni difensive intese ad accreditare che l’ordine era promanato dal
direttore dei lavori C., mandato assolto, trattandosi di soggetto che il
dichiarante neppure conosceva.
Quanto al secondo, inoltre, la Corte d’appello ha
rilevato che il crollo non era ascrivibile alla cattiva esecuzione dell’opera
da parte del lavoratore infortunato, poiché costui stava lavorando alle
dipendenze del P., pure committente dell’opera, utilizzando materiali
fornitigli da quegli, senza alcun potere di sindacato sulla scelta delle
modalità di esecuzione di essa in relazione al dimensionamento e alle caratteristiche
dell’opera.
Quel giudice ha poi osservato che la esecuzione del
muro con attivazione delle cautele pretermesse, Ivi compresa quella di avere
realizzato il muro in violazione delle norme di buona tecnica costruttiva,
avrebbe con certezza scongiurato l’evento, atteso che quelle cautele ne
avrebbero scongiurato il crollo per una delle possibili cause individuate
dall’esperto M..
Sul versante soggettivo, infine, la Corte d’appello
ha rilevato che l’evento era ricompreso tra quelli rientranti nello rischio
specifico, avendo l’imputato dovuto e potuto prevederlo per evitarlo.
3. Più di una premessa s’impone alla luce delle
doglianze difensive, avuto riguardo alla conformità delle decisioni di merito e
alla omogeneità dei criteri di valutazione utilizzati.
3.1. Il ragionamento probatorio che sostiene la
sentenza impugnata deve costituire oggetto di una critica effettiva, articolata
attraverso enunciati espliciti e argomentati rispetto alle ragioni in fatto e
in diritto su cui si regge la decisione censurata (cfr., Sezioni Unite, n. 8825
del 27/10/2016, dep. 2017, Gattelli, Rv. 268822, sui motivi d’appello, ma i cui
principi possono applicarsi anche al ricorso per cassazione; Sez. 6 n. 8700 del
21/01/2013, Rv. 254584, anche in motivazione, specificamente sul ricorso per
cassazione).
Inoltre, in caso di doppia sentenza conforme, la
struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo
grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i
giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri
omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai
passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella
valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (cfr.
sez. 3 n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv, 257595; sez. 1 n. 1309 del
22/11/1993, 1994, Rv. 197250), a maggior ragione allorché i motivi di gravame
non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze
già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata (cfr. sez. 3 n.
13926 dell’01/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615).
3.2. Sotto altro profilo, va nuovamente affermata
l’estraneità, al vaglio di legittimità, degli aspetti del giudizio che si
sostanziano nella valutazione e, nell’apprezzamento del significato degli
elementi probatori che attengono interamente al merito e non possono essere
apprezzati dalla Corte di cassazione se non nei limiti in cui risulti viziato
il percorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa, con la conseguente
inammissibilità di censure che siano sostanzialmente intese a sollecitare una
rivalutazione del risultato probatorio. Tale principio costituisce il diretto
precipitato di quello, altrettanto consolidato, per il quale sono precluse al
giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento
della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di
ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come
maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto
a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. sez. 6 n. 47204 del 07/10/2015,
Musso, Rv. 265482), stante la preclusione per questo giudice di sovrapporre la
propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei
precedenti gradi di merito (cfr. sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv.
253099).
3.3. Tale tema introduce direttamente quello
dell’esatta individuazione del vizio motivazionale deducibile in sede di
legittimità. È vero che – a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen.
dall’art. 8, comma primo, della
legge n. 46 del 2006 – il legislatore ha esteso l’ambito della deducibilità
di tale vizio anche ad altri atti del processo specificamente indicati nei
motivi di gravame, così introducendo il travisamento della prova quale
ulteriore criterio di valutazione della contraddittorietà estrinseca della
motivazione il cui esame nel giudizio di legittimità deve riguardare uno o più
specifici atti del giudizio, non il fatto nella sua interezza (cfr. sez. 3 n.
38341 del 31/01/2018, Nando, Rv. 273911); ma è altrettanto pacifico che, anche
a seguito di tale modifica, resta pur sempre non deducibile nel giudizio di
legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di
cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a
quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr. sez. 3 n. 18521
del’11/01/2018, Ferri, RV. 273217; sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, Minervini,
Rv. 253099, tic.).
In ogni caso, va ribadito che un ricorso per
cassazione che deduca il travisamento (e non soltanto l’erronea
interpretazione) di una prova decisiva, ovvero l’omessa valutazione di
circostanze decisive risultanti da atti specificamente indicati, impone di
verificare l’eventuale esistenza di una palese e non controvertibile difformità
tra i risultati obiettivamente derivanti dall’assunzione della prova e quelli
che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto, ovvero di verificare
l’esistenza della decisiva difformità, fermo restando il divieto di operare una
diversa ricostruzione del fatto, quando si tratti di elementi privi di
significato indiscutibilmente univoco (cfr. sez. 4 n. 14732 dell’01/03/2011,
Molinario, Rv. 250133).
3.4. Va, poi, precisato, che – in sede di
legittimità – non è censurabile una sentenza per il suo silenzio su una
specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa
sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente
considerata (cfr. sez. 1 n. 27825 del 22/05/2013, Caniello e altri, Rv. 256340;
sez. 5 n. 6746 del 13/12/2018, dep. 2019, Curro Nicola, Rv. 275500).
Trattasi di principi sui quali è da ultimo ritornato
il Supremo Collegio di questa Corte, ritenendo non revocabile in dubbio la
legittimità del ricorso alla motivazione implicita che non costituisce
l’opposto di quella esplicita, bensì «una particolare tecnica espositiva,
caratterizzata dal proporre un’argomentazione, espressa a giustificazione di
una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra
statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità logica e giuridica
tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda».
Cosicché, deve concludersi che, nella motivazione implicita, manca il testo
grafico ma non il discorso argomentativo [cfr., in motivazione, Sez. Unite
n.20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino e altri (in cui si è altresì
precisato che il ricorso alla motivazione implicita, oltre a trovare riscontro
nella disciplina processuale, là dove essa impone che la sentenza contenga
“una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto” su cui è
fondata (art. 544, primo comma e 546, primo comma, lett. e, cod. proc. pen.), è
altresì compatibile con il diritto a un processo equo ex art. 6 della C.E.D.U., come
interpretato dalla Corte di Strasburgo (richiamando in motivazione la sentenza
della Quarta Sezione del 24.07.2015, nella causa Chipani ed altri c. Italia).
4. Alla stregua dei principi sopra richiamati, deve
affermarsi la manifesta infondatezza del primo motivo: la difesa si è limitata
a contestare le caratteristiche del muro realizzato, nonostante i giudici del
merito siano addivenuti alla conclusione che si trattava di un muro di
contenimento alla luce di convergenti evidenze probatorie, anche di natura
tecnica.
Inoltre, i giudici territoriali hanno congruamente
spiegato la ritenuta irrilevanza della incertezza circa la causa del crollo,
rilevando che lo stesso non si sarebbe comunque prodotto ove l’opera fosse
stata realizzata seguendo le norme della buona tecnica costruttiva, tenuto
conto delle accertate caratteristiche dello sbancamento effettuato e del muro
eretto.
5. Anche il secondo e il quinto motivo sono
manifestamente infondati.
Ancora una volta, la difesa non ha effettuato un
preventivo vaglio critico delle ragioni a sostegno della decisione censurata,
ivi esposte in maniera del tutto congrua e scevra da contraddizioni anche con
riferimento alla non addebitalità esclusiva dell’evento a colpa di terzi.
La decisione, peraltro, si pone in termini di ferrea
coerenza con i principi più volte ribaditi da questa Corte di legittimità.
Infatti, è vero che, in materia di infortuni sul
lavoro, si è passati da un modello “iperprotettivo”, interamente
incentrato sulla figura del datore di lavoro, investito di un obbligo di
vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello “collaborativo”, in
cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori,
parimenti gravati dall’obbligo di osservanza di specifiche disposizioni
cautelari e di agire con diligenza, prudenza e perizia (cfr., in motivazione,
Sez. 4 n.8883 del 10/02/2016, Santini e altro). Si è, così, individuato il
principio di auto responsabilità del lavoratore e abbandonato il criterio esterno
delle mansioni, sostituito con II parametro della prevedibilità, intesa come
dominabilità umana del fattore causale (cfr., in motivazione, sez. 4 n. 41486 del 2015, Viotto). Tali principi
hanno definitivamente sancito il passaggio – a seguito dell’introduzione del d.lgs. 626/94 e, poi, del d.lgs. 81/2008 – dal principio
“dell’ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore”
al concetto di “area di rischio” (sez. 4, n. 21587 del 23.3.2007,
Pelosi, Rv. 236721) che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via
preventiva.
Tuttavia, è altrettanto indiscusso che nessun
esonero di responsabilità datoriale può configurarsi all’interno dell’area di
rischio, nella quale si colloca l’obbligo di quel garante di assicurare
condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti
trascurati del lavoratore (cfr. sez. 4 n. 21587 del 2007, Pelosi, cit.).
Peraltro, va anche ribadito, quanto al dedotto
profilo di colpa assorbente che la difesa rinverrebbe nella esecuzione
dell’opera edile da parte della vittima, che l’argomento è stato ampiamente e
del tutto congruamente affrontato dalla Corte di merito e le censure articolate
con il ricorso non evidenziano vizi del ragionamento svolto da quel giudice, ma
ripropongono una diversa interpretazione del compendio probatorio, che
costituisce oggetto proprio del sindacato di merito. Nella specie, la Corte di
merito ha debitamente evidenziato che il lavoratore stava eseguendo lavori su
indicazione dello stesso P., utilizzando materiale da costui messo a
disposizione, senza alcun potere di sindacato circa le modalità di esecuzione
della stessa.
Inoltre e risolutivamente, valga un richiamo alla giurisprudenza
consolidata di questa Corte per rilevare che l’obbligo di prevenzione si
estende anche agli incidenti che possano derivare da negligenza, imprudenza e
imperizia dell’infortunato, essendo esclusa la responsabilità del datore di
lavoro e, in generale, del destinatario dell’obbligo, solo in presenza di
comportamenti che presentino i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità,
dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo, alle direttive
organizzative ricevute e alla comune prudenza. Ed è significativo che, in ogni
caso, nell’ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza o
dall’inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale venga
attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato
occasione all’evento, quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza
o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a
neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento [Sez. 4 n. 3787 del
17/10/2014 Ud. (dep. 27/01/2015), Rv. 261946; n. 22249 del 14/03/2014, Rv.
259227],
Infine, obblighi eventualmente ascrivibili a terzi
soggetti, titolari di autonoma posizione di garanzia, non configurano l’esonero
che la difesa propone con le doglianze esposte in ricorso: gli addebiti
contestati al P., invero, sono da un lato di natura tipicamente datoriale
(adozione delle cautele per prevenire il rischio specifico di seppellimento);
dall’altro, collegati alla concorrente qualità di committente dell’opera che ne
ha costantemente seguito gli sviluppi, come tale titolare di un’autonoma
posizione di garanzia quale soggetto che aveva dato le direttive fonte di
pericolo (cfr., sul punto specifico, sez. 4 n. 44131 del 15/07/2015, Heqimi e
altri, Rv. 264974; sez. 4 n. 23171 del 09/02/2016, Russo e altro, in
motivazione).
6. Anche la manifesta infondatezza del terzo e del
quarto motivo costituisce diretto precipitato della inosservanza dei principi
indicati in premessa in ordine alla natura del sindacato di legittimità: da un
lato, infatti, la difesa ha omesso un confronto effettivo con le motivazioni
alla stregua delle quali la Corte d’appello ha ritenuto del tutto irrilevante
l’individuazione, tra le varie possibili, della specifica causa del crollo del
muro; dall’altro, ha proposto una lettura alternativa delle prove, contestando
quella data dai giudici del doppio grado sulla scorta di un ragionamento
esplicativo che, per congruità e mancanza di contraddizioni, si sottrae al
sindacato di legittimità.
7. Infine, è manifestamente infondato anche il sesto
motivo.
Va premesso, intanto, che la contestazione della
difesa sul calcolo dei periodi di sospensione del termine di prescrizione, in
virtù del quale la Corte di merito ne ha indicato lo spirare al 05/01/2020, ha
riguardato solo quello di 119 giorni ricollegabile al rinvio dell’udienza del
25 febbraio 2015 (disposto su istanza delle parti intesa a documentare il
perfezionamento dell’iter amministrativo per il rilascio del permesso in
sanatoria). Cosicché, deve ritenersi che il termine, anche accedendo alla tesi
difensiva, tuttavia manifestamente infondata per le ragioni che si vanno a
esporre, sarebbe spirato nelle more del ricorso, la cui inammissibilità,
tuttavia, precludendo l’instaurarsi di un valido rapporto processuale in questo
grado di giudizio, non avrebbe in ogni caso consentito alla causa estintiva del
reato verificatasi dopo la sentenza d’appello di operare e impedire il
consolidarsi della pronuncia di condanna (cfr. Sez. U. n. 32 del 22/11/2000,
Rv. 217266; n. 33542 del 27/06/2001, Rv. 219531; n. 23428 del 22/03/2005, Rv.
231164; sez. 6 n. 25807 del 14703/2014, Rv. 259202; sez. 1 n. 6693 del
20/01/2014, Rv. 259205).
Peraltro, come sopra anticipato, l’assunto secondo
cui il rinvio disposto all’udienza del 25 febbraio 2015 non determinerebbe la
sospensione del termine di prescrizione, è del tutto destituito di fondamento
alla stregua del consolidato orientamento del giudice di legittimità.
Sul punto, pare sufficiente ribadire che – ove il
giudice accordi un rinvio dell’udienza, su richiesta del difensore pur in
mancanza delle condizioni che integrano un legittimo impedimento per
concorrente impegno professionale del difensore – il corso della prescrizione è
sospeso per tutta la durata del differimento, discrezionalmente determinato dal
giudice avuto riguardo alle esigenze organizzative dell’ufficio giudiziario, ai
diritti e alle facoltà delle parti coinvolte nel processo e ai principi
costituzionali di ragionevole durata del processo e di efficienza della
giurisdizione, (cfr. Sezioni Unite n. 4909 del 18/12/2014, dep. 2015, Torchio,
Rv. 262914; sez. 3 n. 19687 del 21/0372018, Tudisca, Rv. 273057; sez. 6 n.
37593 del 13/07/2018, Rv. 273827; sez. 5 n. 26449 del 13/04/2017, Flammia e
altro, Rv. 270539; sez. 6 n. 51912 del 17/10/2017, Pizzolante, Rv. 271561; sez.
4 n. 51448 del 17/10/2017, Polito, Rv. 271328). In maniera coerente a tale
principio, peraltro, si è pure precisato che il provvedimento di rinvio del
processo per esigenze proprie della parte richiedente, ancorché
illegittimamente adottato, dà sempre luogo alla sospensione del corso della
prescrizione, nonostante sia la medesima parte a dolersi dell’effetto
sospensivo conseguente a tale rinvio (cfr. sez. 3 n. 38988 del 09/05/2017,
Donadoni e altri, Rv. 270787).
8. Alla declaratoria di inammissibilità segue la
condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di
€. 2.000,00 alla Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in
ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila
alla Cassa delle ammende.