Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 gennaio 2020, n. 395

Licenziamento, lllegittimità del recesso aziendale,
Dirigenti, lndennità supplementare, Termine per l’impugnativa del
licenziamento in sede giudiziale

Fatti di causa

 

1. Il Tribunale di Siena, ritenuta infondata la
sollevata eccezione di decadenza dall’impugnativa giudiziale di licenziamento
(applicabilità ai dirigenti generalizzata, ma, quanto all’individuazione
dell’inizio della decorrenza del relativo termine, dal 61° giorno successivo
alla comunicazione del licenziamento), dichiarava l’illegittimità del recesso
aziendale intimato il 24.10.2012 dalla Banca MPS s.p.a. a V. G. e condannava la
società a corrispondere al dirigente l’indennità suppletiva (rectius:
supplementare) fatta pari a quindici mensilità retributive.

2. La Corte d’appello riteneva che il termine per
l’impugnativa del licenziamento in sede giudiziale di cui all’art. 6 I. 604/66,
novellato nel 2010 ed ulteriormente modificato con I. 92/2012, decorresse non
dalla ricezione da parte del datore dell’impugnativa stragiudiziale, ma
dall’invio della stessa, a garanzia del lavoratore, che non doveva soggiacere
ai rischi di un mancato recapito. Nella specie, essendo stata la domanda
giudiziale proposta il 182° giorno successivo all’impugnazione stragiudiziale,
la stessa doveva ritenersi tardiva e nulla competeva al lavoratore a titolo di
indennizzo, dovendo essere restituite alla società le somme percepite in
ottemperanza alla pronuncia del Tribunale.

3. Quanto ai passaggi di carriera che avevano
caratterizzato la posizione del G. all’interno di MPS, la ricostruzione della
vicenda, effettuata sulla base anche delle deposizioni testimoniali, portava a
ritenere che il G. era stato costretto in ambito lavorativo in cui la sua professionalità
tecnica era stata del tutto pretermessa e poi contenuta in termini di puro
sviluppo commerciale, ma privata di facoltà decisionali ed organizzative che
avevano caratterizzato la funzione di direzione raggiunta in BAV, società
incorporata, e mantenuta di fatto sino all’autunno 2008. I danni conseguiti a
tale dequalificazione erano stati, secondo la Corte, parametrati correttamente
dal Tribunale, in misura forfetizzata al 50% della retribuzione dell’intero
periodo, tenuto conto della progressiva erosione del bagaglio professionale
acquisito. Con riguardo al danno non patrimoniale, la valutazione di tutte le
componenti del pregiudizio alla salute individuate dal CTU non consentiva
un’ulteriore personalizzazione e, secondo le tabelle milanesi, anche in considerazione
della componente morale, la determinazione effettuatane dal Tribunale era da
reputare corretta e condivisibile. Doveva solo essere detratto quanto
corrisposto dall’INAIL a titolo di danno non patrimoniale, con residuo danno
differenziale ammontante ad € 131.714,81.

4. Di tale decisione ha domandato la cassazione il
G., affidando l’impugnazione a due motivi, cui ha resistito la società.

5. Entrambe le parti hanno depositato memorie in
prossimità dell’udienza del 4.6.2019. La causa è stata rinviata a nuovo ruolo
per consentirne la trattazione unitaria con cause aventi ad oggetto analoga
questione, oltre che per ravvisate esigenze di approfondimento della questione.
Il ricorrente ha depositato ulteriore memoria in prossimità dell’ udienza pubblica.

 

Ragioni della decisione

 

1. Con il primo motivo, il G. denunzia violazione
degli artt. 32, comma 2, I.
183/2010 e 6 della I.
604/66, come sostituito dall’art.
32, comma 1, della I. 183/2010, sostenendo che il comma 2 dell’art. 32 I. 183/2010, nello
stabilire che “le disposizioni di cui all’art. 6 I. 604/66 si applicano
anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”, ha modificato
l’ambito di applicazione della norma, estendendola sotto il profilo soggettivo
anche ai dirigenti e che la previsione dell’art. 1, comma 42, I. 92/2012, nel
modificare l’art. 18 I. 300/70,
abbia esteso ai dirigenti la disciplina sanzionatoria prevista dal comma 1 dello
stesso art. 18 ad ogni
ipotesi di invalidità del licenziamento. La categoria giuridica
dell'”invalidità”, secondo il ricorrente, vale a delimitare sotto il
profilo oggettivo l’ambito dei casi in cui detto regime deve ritenersi operante
nei confronti dei dirigenti, avendo il Legislatore inteso chiaramente dettare
uno specifico criterio di selezione delle fattispecie di licenziamento
interessate dalla decadenza di cui all’art. 6 della legge citata.

1.1. Ritiene, pertanto, esclusa – già alla luce del
criterio di interpretazione letterale – l’applicabilità del sistema di
decadenze de quo ai dirigenti allorquando essi facciano valere in giudizio
l’illegittimità del licenziamento in quanto contrario alla disciplina pattizia
e chiedano il pagamento dell’indennità supplementare. Evidenzia la mancanza di
una previsione legale di “giustificatezza” del licenziamento del
dirigente e rileva che la nozione è di origine esclusivamente convenzionale,
essendo dettata unicamente dalla disciplina contrattuale collettiva di settore,
nel presente caso il CCNL per i Dirigenti dipendenti dalla imprese creditizia,
finanziarie e strumentali.

1.2. Aggiunge che “ingiustificatezza” del
licenziamento del dirigente rappresenta un semplice inadempimento, ossia un
illecito convenzionale che cagiona un danno risarcibile secondo le previsioni
dello stesso c.c.n.I., che la stessa non conduce all’invalidità del
licenziamento, non privandolo di valore e di efficacia giuridici, e che i suoi
effetti non vengono rimossi, essendo il datore di lavoro obbligato solo a
pagare l’indennizzo contrattualmente previsto. Osserva che una tale opzione
interpretativa è sostenuta anche dall’essere le norme che prevedono termini di
decadenza di stretta interpretazione, senza possibilità di estenderne la
portata oltre la specifica previsione di ambito di applicabilità. La S. C. ,
con la pronuncia n. 22627/2015 avallerebbe questa opzione ermeneutica.

2. In via subordinata, il ricorrente lamenta
violazione degli artt. 132, comma 2, n. 4 c.p.c.,
118 disp. att. c.p.c. e 111, comma 6, Cost., perché la sentenza d’appello
ha totalmente ignorato le argomentazioni svolte al riguardo, applicando la
disciplina in tema di decadenza senza spiegare le ragioni del convincimento
della Corte.

3. La controricorrente sostiene la necessità per
l’appellato vittorioso in primo grado, al fine di impedire la formazione del
giudicato sulla relativa questione, di proporre appello incidentale per
introdurre la questione dell’inapplicabilità della decadenza ex art. 32, 2°
comma, al licenziamento del dirigente, ciò che non è stato fatto dal G., il
quale ha proposto impugnazione incidentale in ordine al quantum dei pregiudizi
conseguenti al demansionamento, in base a Cass. sez. un. 11799/2017.

4. Tale questione deve essere esaminata prima dei
motivi dell’impugnazione del G., per ragioni di priorità logico giuridica.

4.1. Il principio di diritto enunciato dalle S.U.
nella decisione n. 11799 del 12.5.2017 è il seguente: «Qualora un’eccezione di
merito sia stata ritenuta infondata nella motivazione della sentenza del
giudice di primo grado o attraverso un’enunciazione in modo espresso, o
attraverso un’enunciazione indiretta, ma che sottenda in modo chiaro ed
inequivoco la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello
della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto
all’esito finale della lite, esige la proposizione da parte sua dell’appello
incidentale, che è regolato dall’art. 342 cod.
proc. civ., non essendo sufficiente la mera riproposizione di cui all’art. 346 cod. proc. civ. Qualora l’eccezione sia a
regime di rilevazione affidato anche al giudice, la mancanza

dell’appello incidentale preclude, per il giudicato
interno formatasi ex art. 329, secondo comma, cod.
proc. civ., anche il potere del giudice d’appello di rilevazione d’ufficio,
di cui al secondo comma dell’art. 345 cod. proc.
civ. Viceversa, l’art. 346 cod. proc. civ.,
con l’espressione “eccezioni non accolte nella sentenza di primo
grado”, nell’ammettere la mera riproposizione dell’eccezione di merito da
parte del convenuto rimasto vittorioso con riguardo all’esito finale della
lite, intende riferirsi all’ipotesi in cui l’eccezione non sia stata dal primo
giudice ritenuta infondata nella motivazione né attraverso un’enunciazione in
modo espresso, né attraverso un’enunciazione indiretta, ma chiara ed
inequivoca. Quando la mera riproposizione (che dev’essere espressa) è
possibile, la sua mancanza rende irrilevante in appello l’eccezione, se il
potere di rilevazione riguardo ad essa è riservato alla parte, mentre, se il
potere di rilevazione compete anche al giudice, non impedisce – ferma la
preclusione del potere del convenuto – che il giudice d’appello eserciti detto
potere a norma del secondo comma < , dell’art.
345 cod. proc. civ.».

4.2. Il principio affermato non si attaglia,
tuttavia, al caso oggetto di esame nella presente controversia, che ha visto la
Banca eccepire la decadenza in sede di costituzione nel giudizio di primo grado
ed il G. opporsi all’applicabilità di tale eccezione in ragione della ritenuta
inapplicabilità del regime decadenziale di cui all’art. 32 L. 183/2010 ed all’art.
6 della legge 604/1966 anche al licenziamento del dirigente che sia privo di
giustificatezza.

4.3. Sostiene specificamente la Banca che, a fronte
di un’espressa reiezione, da parte del Tribunale, dell’eccezione del G. in ordine
all’inapplicabilità dell’art. 6
della legge 604/66 e ss. modifiche al licenziamento del dirigente ed alla
ritenuta decorrenza del dies a quo del termine per il deposito del ricorso
giudiziale dal 61° giorno successivo alla comunicazione del licenziamento –
esame limitato in sede di gravame dall’appellante unicamente a tale secondo
profilo – il dirigente non avrebbe proposto appello incidentale, con ciò
impedendo, in virtù del formarsi del giudicato sulla relativa questione,
l’esame della stessa.

4.4. Il rilievo della Banca sulla mancata
riproposizione con appello incidentale della questione e del conseguente suo
passaggio in giudicato, per essersi l’appellato, soccombente sul punto,
limitato a ribadire le difese spese nel giudizio di primo grado, deve ritenersi
giuridicamente erroneo. Ed invero, il principio espresso dalla S.U. si
riferisce alla soccombenza dell’eccipiente, tenuto alla riproposizione in sede
di gravame della questione preliminare di merito della quale sia stata
espressamente o in modo indiretto, ma in maniera inequivoca, ritenuta
l’infondatezza, pur essendo risultato il resistente vittorioso quanto all’esito
finale della lite. Non può, invece, tale principio essere riferito alla posizione
della parte che si sia vista opporre l’eccezione stessa, la quale abbia
espresso al riguardo mere difese ed, in sede di giudizio di appello, a fronte
di censure dell’appellante che abbiano riguardato un aspetto della questione
assumendo come logicamente incontestato il relativo presupposto (validità
dell’eccezione), si sia limitata unicamente a reiterare in una logica difensiva
le ragioni di contrasto alla iniziale eccezione (rispetto all’eccezione di
decadenza, era opposta l’inapplicabilità della stessa al licenziamento del
dirigente).

5. Tanto premesso, con riguardo al primo motivo,
attinente alla estensibilità al licenziamento del dirigente affetto da
ingiustificatezza del termine decadenziale introdotto dall’art. 32 del
Collegato Lavoro, valgono le osservazioni che seguono.

5.1. L’art. 6 della I. 604/1966, nel
testo antecedente alla novella ex art.
32, comma 1, I. n. 183/2010, disponeva che il licenziamento dovesse essere
impugnato, a pena di decadenza, anche in sede extragiudiziale, entro 60 giorni
dalla ricezione della sua comunicazione. Tale regime era pacificamente ritenuto
inapplicabile ai dirigenti che agissero per la condanna datoriale al pagamento
dell’indennità supplementare prevista dal contratto collettivo, in quanto si
trattava di categoria di prestatori sottratta alle norme limitative dei
licenziamenti individuali poste dalla legge n.
604/1966 (cfr. ex multis, Cass. n. 1641/1995, n.
20763 del 2012).

5.2. Deve ricordarsi che, fino al 2010, la
disciplina contemplata nella I. n. 604/1966
(fatto salvo quanto previsto dall’art. 2, co. 4) non è stata applicata ai
dirigenti, sulla base di quanto stabilito dall’art. 10 della medesima
normativa. In forza di tale esclusione ex lege, per questa categoria di
lavoratori non è mai sussistito l’obbligo di impugnare il recesso secondo il
regime decadenziale previsto ex art.
6, I. n, 604/1966. Di conseguenza, si è attestata l’uniforme e pacifica
interpretazione dei giudici di merito e di legittimità: le tutele della prima
legge sui licenziamenti individuali sono state estese ed applicate soltanto ai
cc.dd. pseudo-dirigenti.

5.3. L’art.
32 della legge n. 183 citata, al comma 1, ha sostituito l’art. 6 della legge n. 604 e,
nel ribadire il termine di decadenza di 60 giorni per l’impugnazione
extragiudiziale del licenziamento, prevede ora il termine ulteriore di 180
giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale. Al comma 2 del predetto
art. 32 è previsto che le
disposizioni di cui al citato art.
6 della legge 604 si applicano “anche a tutti i casi di invalidità del
licenziamento”.

5.4. Dunque, il Collegato Lavoro, all’art 32, comma 2, ha previsto
l’estensione della decadenza in tema di licenziamento anche a tutti i casi di
invalidità. Il termine invalidità ha un significato preciso, che presuppone che
l’atto sia inficiato nella sua validità per un vizio intrinseco derivante dal
discostamento dal modello legale o per effetto di una previsione legale che
colleghi alla mancanza di requisiti che devono caratterizzare l’atto la
conseguenza della invalidità (come per il licenziamento: art. 2119 c.c.). La legge
183/2010 ha così inteso ricomprendere nell’ambito del regime caducatorio
disciplinato ex novo rispetto all’art 6 I. 604/1966 casi di
nullità e, in generale, di invalidità esterni alla legge 604/1966.

6. Il licenziamento del dirigente originariamente
era tutelato dal divieto del licenziamento discriminatorio e ritorsivo (colpito
da nullità: artt. 2 e 4 della
legge n. 604/1966 cit.), lasciando la normativa immutato il regime di
libera recedibilità come criterio generale, salva sempre la possibilità per la
contrattazione collettiva di introdurre un regime di controllo delle ragioni
del licenziamento individuale.

6.1. Ai limiti di tutela ha posto, quindi, in
qualche misura, rimedio la contrattazione collettiva col prevedere,
generalmente, che nei casi in cui non sussista la giustificatezza del
licenziamento, ferma la validità e l’efficacia del recesso, al dirigente spetta
una speciale indennità supplementare di carattere risarcitorio.

6.2. Soltanto con la legge
92 del 2012, nella nuova formulazione dell’art. 18, comma 1, i dirigenti
sono stati per la prima volta destinatari di una tutela piena per le ipotesi
anche ad essi applicabili di nullità del licenziamento perché discriminatorio
ai sensi dell’articolo 3 della
legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col
matrimonio ai sensi dell’articolo
35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in
violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del
testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della
maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n.
151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi
di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito
determinante ai sensi dell’art. 1345 del codice
civile.

7. Con la sentenza 22627/2015, questa Corte ha
affermato che “i suddetti termini di decadenza e di inefficacia
dell’impugnazione devono trovare applicazione quando si deduce l’invalidità del
licenziamento, come nella specie, prospettandone la nullità in quanto
discriminatorio, non assumendo rilievo la categoria legale di appartenenza del
lavoratore”. A questa decisione la Corte di Cassazione è pervenuta
rilevando che “la ratio della disciplina introdotta dall’art. 6 della legge n. 604/1966,
in combinato disposto con l’art.
32, comma 2, della legge n. 183 del 2010, si rinviene nell’esigenza di
garantire la speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di
decadenza ed inefficacia in precedenza non previsti, in aderenza e non in
contrasto con l’art. Ili Cost. Il legislatore ha così operato, facendo
riferimento ad un criterio oggettivo, un non irragionevole bilanciamento tra
l’indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche
e il diritto di difesa del lavoratore”.

7.1. Secondo la Corte “la ratio della
disciplina introdotta dall’art.
6 della legge n. 604 del 1966, in combinato disposto con l’art. 32, comma 2, della legge n.183
del 2010, è coerente con l’ottica di tutela del datore di lavoro in
relazione all’esigenza di conoscere in un tempo sufficientemente breve i rischi
economici ed organizzativi connessi alla lite ed all’esigenza di garantire la
speditezza dei processi attraverso la previsione di termini di decadenza ed
inefficacia prima non previsti in consonanza con il principi dell’art. 111 Cost”.

7.2. Alla luce delle considerazioni espresse da Cass. 22627/15, una volta che l’art. 32, comma 2, ha previsto un
onere di impugnativa a pena di decadenza per ogni recesso datoriale invalido –
con un metro che per sua natura è indipendente dalla categoria legale di
appartenenza del lavoratore – è ragionevole ritenere che la norma regoli
“anche” il caso del licenziamento vietato o nullo del dirigente,
identico nella disciplina (sostanziale e sanzionatoria) al corrispondente
licenziamento di un impiegato o di un operaio.

7.3. Ciò comporta che solo in virtù di tale
estensione la disciplina della decadenza per i casi di “invalidità” è
stata resa applicabile ai recessi intimati ai dirigenti, una volta ritenuto che
l’ambito soggettivo di applicabilità del regime decadenziale comprenda anche
tale categoria.

7.4. L’estensione dei termini di decadenza ed
inefficacia dell’impugnazione del licenziamento, disposta dall’art. 32, comma 2, della legge n. 183
del 2010 è ritenuta operare, in conclusione, con riguardo al dato oggettivo
costituito dalla invalidità del licenziamento e al di fuori della limitazione
posta dal citato art. 10 della
legge n. 1 / 604 del 1966 con riguardo alla posizione lavorativa
dell’interessato.

8. Più problematica è la questione, oggetto del
presente giudizio, dell’applicabilità della decadenza al licenziamento del
dirigente in ipotesi non riconducibile ad invalidità dell’atto, ma a
fattispecie di mera ingiustificatezza del licenziamento, per le quali è
dibattuto se possano operare le decadenze di legge.

8.1. Secondo l’opinione largamente prevalente, il
vecchio art. 6 della I. n.
604/1966 si applicava ai soli recessi “interni” al sistema della
stessa I. n. 604/1966: rimanevano, pertanto,
escluse le fattispecie assoggettate a discipline particolari, quali quelle dei
licenziamenti intimati a lavoratori in prova o a dirigenti (il licenziamento
del dirigente privato), o posti in essere in violazione delle norme a tutela
delle lavoratrici madri e che contraggono matrimonio, o quelli intimati in
violazione dell’art. 2112 c.c. e delle
discipline del comporto.

8.2. L’art.
32, co. 2, I. n. 183/2010 – come già detto – ha esteso l’applicazione della
nuova disciplina «anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento», e,
dunque, anche a fattispecie “esterne” alla disciplina della I. n. 604/1966 e sue modifiche. Il Collegato
Lavoro non ha previsto alcuna estensione ai dirigenti delle ipotesi di nullità
del licenziamento esterne alla I. 604/66,
essendo tale estensione avvenuta soltanto con la previsione dell’art. 18, comma 1, dello
Statuto dei Lavoratori, come modificato dall’art. 42 della I. 92/2012, ciò che
consente di ritenere che solo con tale normativa l’espressione “anche a
tutti i casi di invalidità del licenziamento”, riferita alla disciplina
della decadenza, possa essere riempita di significato anche per la categoria
dei dirigenti. L’art. 32, co. 2, del Collegato Lavoro non poteva, dunque,
riferirsi, quanto alla previsione di decadenze, ai dirigenti, se non per le ipotesi
di nullità già previste per gli stessi dalla I.
604/66 (artt. 2 e 4, quest’ultimo come modificato dall’art. 3 I. 108/90, che ne ha
disposto espressamente l’applicabilità anche ai dirigenti) e solo con la legge 92 del 2012, che ha previsto ipotesi di
nullità dei licenziamenti cui consegue di diritto la tutela reintegratoria
anche per i dirigenti (testo novellato dell’art. 18, comma 1, St. Lav.),
risultano per questi ultimi ipotizzabili fattispecie di invalidità esterne alla
I. 604/66, con conseguente estensibilità anche
ad essi del regime della decadenza di cui all’art. 32, co 2 del Collegato
Lavoro. Questo induce a ritenere che la disciplina sulla decadenza del
Collegato Lavoro non potesse nelle intenzioni del legislatore riferirsi anche
alle ipotesi di mera ingiustificatezza del licenziamento dei dirigenti, se per
questi ultimi non era ancora stata prevista alcuna tutela rafforzata propria di
un regime di invalidità, riguardante casi esterni alla legge 604/66, che giustificasse il regime
decadenziale introdotto, ispirato ad esigenze di certezza e di celerità nella
stabilizzazione di conseguenze reintegratorie previste a carico del datore di
lavoro.

8.3. Le considerazioni che precedono inducono ad
escludere l’estensione del regime decadenziale, che dipende dal significato che
si attribuisce al termine “invalidità”, a casi che rientrano nel più
ampio concetto di illegittimità, ciò che condurrebbe a ritenere la nuova
disciplina applicabile all’impugnazione di qualsiasi licenziamento. Corollario
delle stesse è, al contrario, l’attribuzione al termine invalidità del
significato suo proprio, cui consegue l’affermazione che la norma opera solo
quando il vizio sia suscettibile di determinare la demolizione del negozio e
dei suoi effetti solutori.

8.4. Secondo questo Collegio, l’espressione
“invalidità” deve essere inteso in senso restrittivo, avendo riguardo
ai confini della categoria di tale vizio propriamente inteso, in relazione alla
rilevata incapacità di un atto privato contrario ad una norma di produrre
effetti conformi alla sua funzione economico sociale. La nozione generalmente
accolta di invalidità presuppone, pertanto, un atto inidoneo ad acquisire pieno
ed inattaccabile valore giuridico.

8.5. L’estensione della disciplina della decadenza
al di là dei casi di invalidità comporterebbe del resto un’inammissibile
applicazione analogica di una norma eccezionale, che, in quanto contemplante
decadenze, deve essere interpretata nell’ambito della stretta previsione
normativa e non al di là dei casi considerati, diversamente privandosi la
previsione specifica della invalidità di ogni portata precettiva. In altri
termini, stante il principio di stretta interpretazione delle norme in materia
di decadenza, non è possibile pervenire ad un ampliamento della portata
“oggettiva” della norma in esame tale da includervi ogni ipotesi di
“patologia” del licenziamento, neanche considerando la specialità
della materia relativa all’impugnazione dei licenziamenti rispetto ai principi
di diritto comune.

8.6. Nel concetto di invalidità non può, pertanto,
ricondursi l’ipotesi della “ingiustificatezza” di fonte
convenzionale, cui consegue la tutela meramente risarcitoria dell’indennità
supplementare. Quest’ultima si collega ad un atto incontestatamente e
pacificamente valido, che incide in termini solutori sul rapporto di lavoro.

8.7. A ciò consegue che l’ambito di applicabilità
oggettiva dell’art. 32, secondo
comma, legge n. 183 del 2010 non può che riferirsi alle ipotesi di stretta
invalidità (rectius, nullità) menzionate dall’art. 18, comma 1, St. Lav.
come modificato, essendo tale opzione interpretativa maggiormente coerente con
la descritta evoluzione normativa e con i canoni interpretativi previsti dall’art. 12 Preleggi.

9. A ciò aggiungasi che la nozione di
“ingiustificatezza”, quale elaborata dalla giurisprudenza di questa
Corte è rimasta, a tutt’oggi, invariata.

9.1. Trattandosi di nozione contrattuale, il suo contenuto
deve essere enucleato attraverso l’accertamento, con indagine interpretativa
della clausola collettiva, con riguardo ai motivi che possono dare luogo alla
giustificatezza del licenziamento del dirigente (cfr., tra e altre, Cass.
19.6.1999 n. 6169, Cass. 5.10.2002 n. 14310, 1.6.2005
n. 11691, da ultimo, Cass. 22.2.2019 n. 5372 (par. 6 delle considerazioni
in diritto).

10. In senso rafforzativo dell’interpretazione qui
accolta deve considerarsi la giurisprudenza che afferma l’autonomia delle due
azioni, l’una avente ad oggetto la reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 St. Lav. in caso di
nullità e l’altra diretta ad ottenere l’indennità supplementare, occorrendo,
caso per caso, valutare la prospettazione della domanda giudiziale. E’ stato
statuito da questa Corte che “In materia di rapporto di lavoro del
dirigente, poiché ai fini della giustificatezza del licenziamento rileva
qualsiasi motivo che escluda l’arbitrarietà del licenziamento, la domanda
avente ad oggetto l’accertamento della illegittimità del recesso per non
giustificatezza del licenziamento con condanna del datore di lavoro alla
corresponsione dell’indennità supplementare è diversa da quella avente ad
oggetto l’accertamento della illegittimità del licenziamento comminato in
tronco per giusta causa e la condanna al pagamento dell’indennità sostitutiva
del preavviso; pertanto, accolta quest’ultima per insussistenza della giusta
causa, il relativo giudicato non preclude la proposizione della prima (cfr.
Cass. 20.11.2000 n. 14974). Il vincolo di pregiudizialità logica tra le due
domande proposte separatamente è stato ritenuto non idoneo ad annullare le
intrinseche differenze delle stesse nei profili della causa petendi e del
petitum

11. Quanto alle ricadute processuali, in caso di
proposizione di entrambe le azioni, e, pure in caso di comunanza del vizio,
ossia della situazione che – secondo la prospettazione – determinerebbe la
nullità o, in subordine, l’ingiustificatezza, diverse sarebbero le due azioni e
diverso il regime di impugnazione.

12. Alla stregua delle svolte considerazioni, deve
pervenirsi all’accoglimento del primo motivo di ricorso, per essere la Corte
territoriale pervenuta alla declaratoria di inefficacia dell’impugnazione del
licenziamento intimato al G. applicando allo stesso i termini decadenziali di
cui all’art. 32, comma 2 I.
183/2010, in difformità ai principi enunciati.

13. il secondo motivo è all’evidenza assorbito
dall’accoglimento del primo motivo.

14. La sentenza va cassata in parte qua e la causa
va rinviata alla Corte di appello indicata in dispositivo – cui si demanda la
liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità – che procederà a
nuovo esame alla luce dei principi indicati.

 

P.Q.M.

 

Accoglie il primo motivo, assorbito il secondo,
cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte
d’appello di Firenze in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche
alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 13 gennaio 2020, n. 395
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