Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 gennaio 2019, n. 345
Società cooperativa agricola, Risarcimento dei danni,
Direttore generale, Violazione degli obblighi di cui al contratto di lavoro
subordinato, Competenza, Giudice del Lavoro
Considerato che
la C. S. di Isera società cooperativa agricola ha
proposto ricorso per regolamento di competenza avverso l’ordinanza del
Tribunale di Trento – Sezione Imprese, depositata in data 28 agosto 2018, con
la quale, nel proc. N.R.G. 2361/2016 instaurato nei confronti di F.C. e di A.A.
S.p.a., avente ad oggetto il risarcimento dei danni causati all’attuale
ricorrente per effetto di condotte poste in essere dal C. nella qualità di
Direttore generale, in subordine quale amministratore di fatto e, in ulteriore
subordine, in violazione degli obblighi di cui al contratto di lavoro
subordinato, quel Giudice ha dichiarato la propria incompetenza, ritenendo
sussistente la competenza del Giudice del lavoro del Tribunale di Rovereto e ha
condannato la parte attrice alle spese di lite;
in particolare la società ricorrente ha dedotto
l’erroneità dell’ordinanza impugnata in quanto la stessa, a suo avviso,
violerebbe la previsione di cui all’art. 2396 cod.
civ. e all’art. 3 d.lgs.
168/2003, come modificato dal d.l. 1/2012;
al riguardo la ricorrente ha evidenziato di aver, nella causa di merito,
contestato al C. specifici comportamenti ed atti posti in essere in suo
pregiudizio ed una generale mala gestio che avrebbero causato gravissimi ed
ingenti danni patrimoniali emersi nelle cause di lavoro intentate dal convenuto
nei suoi confronti e volte ad ottenere il risarcimento dei danni per il subito
licenziamento con domanda rigettata sia in primo che in secondo grado con
sentenza ormai passata in giudicato; sostiene che il decisivo rilievo
attribuito dall’ordinanza impugnata alla circostanza che la nomina, da parte
del consiglio di amministrazione, del direttore generale convenuto non sarebbe
avvenuta in base a specifica previsione statutaria, con la conseguenza che
quella esercitata nella fattispecie non sarebbe catalogabile come azione di
responsabilità verso il direttore generale, seppur si raccorda ad un indirizzo
della giurisprudenza di legittimità, tuttavia condurrebbe a risultati di
macroscopica incongruenza, quali quello «di definire direttore generale colui
il quale sia stato preposto dall’assemblea a compiti estremamente limitati …
mentre chi tutto dirige e controlla potrebbe essere considerato un semplice
“direttore” perché, per ipotesi nominato dal consiglio di
amministrazione in difetto di espressa disposizione dell’atto costitutivo»
ovvero quello «di dover considerare come direttore generale anche un semplice
impiegato o operaio ove egli venisse (per ipotesi) nominato o assunto con le
modalità di cui all’art. 2396 cod. civ.»;
peraltro, evidenzia la ricorrente che, dovendosi ammettere l’esistenza di
direttori generali non nominati dall’assemblea o per disposizione degli atti
costitutivi della società, e non potendo essi, in base all’orientamento seguito
dal Tribunale, rispondere dell’eventuale violazione dei loro doveri a norma
dell’art. 2396 cod. civ., gli stessi non
potrebbero che essere, chiamati a rispondere per quanto detto in base al
contratto di lavoro, subordinato che lega il direttore generale alla società,
sicché la competenza non potrebbe che appartenere al giudice del lavoro;
tuttavia, quest’ultima non sarebbe, sempre secondo la ricorrente, l’unica
soluzione praticabile, ben potendo ipotizzarsi che il direttore generale
nominato dal consiglio di amministrazione in difetto di conformi previsioni
statutarie debba rispondere in qualità di amministratore di fatto; la
ricorrente lamenta che, pur non escludendo in linea di principio tale
eventualità, il Tribunale, con il provvedimento impugnato, ha tuttavia negato
che nella specie ricorressero gli estremi per procedere in tal senso, ritenendo
che «gli addebiti contestati al convenuto siano tutti riconducibili a
violazione degli obblighi contrattuali assunti con il contratto di lavoro» e
che «non vengono descritti comportamenti tenuti nei confronti di terzi con i
quali il C. abbia in modo continuativo e sistematico assunto obbligazioni,
vincolando per la società, ad eccezione della conclusione di 4 contratti di
compravendita di vino intervenuti nel 2013 con la cantina La Vis, condotta
tuttavia che rientrava nelle mansioni del lavoratore (collocamento dei prodotti
sul mercato) e che comunque si sono limitate ad atti singoli, posti in essere
in un limitato lasso di tempo»; la ricorrente contesta la conclusione che da
tali affermazioni è stata tratta dal Tribunale in termini di incompetenza del
giudice adito, sostenendo che sarebbe difficile affermare che le condotte come
rappresentate dall’attrice non siano riconducibili ai tipici stilemi
dell’amministratore di fatto né potrebbe, come invece apoditticamente fatto dal
Tribunale, contestarsi la veridicità di quella prospettazione, così
postulandone l’artificiosità al solo fine di radicare la competenza del giudice
adito; la ricorrente contesta, altresì, l’ulteriore argomentazione in base alla
quale il Tribunale ha declinato la sua competenza, secondo cui «emerge
chiaramente che gli stessi [gli addebiti contestati al convenuto] costituiscono
tutti violazione di precise obbligazioni assunte in forza del contratto di
lavoro subordinato e comunque violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà
del prestatore di lavoro (art. 2104 e 2105 c.c.)»; tale argomento sarebbe infondato in
quanto esso darebbe «per presupposta la possibilità di discernere, nell’ambito
delle mansioni complessivamente demandate al direttore generale, tra quelle che
abbiano a ricadere entro i confini del rapporto di lavoro subordinato
instaurato nei confronti della società e quelle che ne fuoriuscirebbero, così
che la competenza a decidere sull’azione di responsabilità spetti al giudice
del lavoro piuttosto che al tribunale delle imprese a seconda che la violazione
dedotta attenga a mansioni da ricomprendere entro il primo, piuttosto che il
secondo, dei sottosistemi appena delineati» ;
ad avviso della ricorrente, una siffatta visione
dicotomica dei compiti del direttore generale non troverebbe riscontro «nel
sistema di legge e neppure nell’elaborazione della giurisprudenza» e, comunque,
«ammesso che il direttore possa condividere il regime di responsabilità degli amministratori
ancorché non nominato nei modi di cui all’art. 2396
c.c.», quella in rassegna si atteggerebbe «come una tipica situazione di
concorso di azioni» sicché, in base al principio secondo cui «qualora uno
stesso fatto possa essere qualificato in relazione a diversi titoli giuridici,
spetta alla scelta discrezionale della parte attrice l’individuazione
dell’azione da esperire in giudizio», la competenza di cui si discute in questa
sede non potrebbe che essere riconosciuta al Tribunale delle imprese né la
prospettazione di una responsabilità parificata a quella degli amministratori
sarebbe nella specie artificiosa; inoltre, essendo stato assunto con la
qualifica di dirigente preposto a tutta la struttura, anche per la parte di
gestione contabile e predisposizione, raccolta ed elaborazione dei dati
contabili, il C. avrebbe – secondo la ricorrente – rivestito anche le funzioni
di dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari e in ciò
andrebbe ravvisata una ulteriore e concorrente ragione per la devoluzione della
presente causa alla sezione specializzata per le imprese del Tribunale di
Trento, ai sensi dell’art. 3,
secondo comma, lett. a) del d.lgs. n. 168/2003, come modificato dal d.l. n. 1/2012;
infine, sostiene la ricorrente che, in relazione
alla figura del direttore generale delle società commerciali e alle annesse
questioni di competenza, non esisterebbe unità di orientamenti, sia in dottrina
che in giurisprudenza, sicché sarebbe iniqua la decisione del Tribunale di
porre a carico dell’attrice, per l’errore commesso nella scelta del giudice cui
indirizzare la propria domanda, l’intero carico delle spese di lite e, pertanto,
nel caso di conferma di declaratoria di incompetenza, chiede la compensazione
delle spese del giudizio;
il C. ha presentato memoria ex art. 47, ultimo comma, cod. proc. civ.,
concludendo per l’inammissibilità e comunque per l’infondatezza dell’istanza;
A.A. S.p.a. non ha svolto attività difensiva in
questa sede;
il P.G. ha concluso chiedendo che questa Corte
rigetti l’istanza di regolamento di competenza e indichi il Tribunale di
Rovereto in funzione di giudice del lavoro competente a giudicare sulla causa
in oggetto, con le conseguenze di legge;
sia la ricorrente che la resistente hanno depositato
memorie ex art. 380 – ter cod. proc. civ.;
rilevato che:
l’ordinanza impugnata ha richiamato espressamente e
in modo pertinente alcuni precedenti di questa Corte (Cass., sent., 5/12/2008, n. 28819, Cass., sent., 18/11/2015, n. 23630 e Cass., ord.,
3/07/2018, n. 17309);
le due sentenze sopra richiamate hanno enunciato il
principio secondo cui, in tema di azione di responsabilità nei confronti del
direttore generale di società di capitali, la disciplina prevista per la
responsabilità degli amministratori si applica, ai sensi dell’art. 2396 cod. civ., esclusivamente se la
posizione apicale di tale soggetto all’interno della società sia desumibile da
una nomina formale da parte dell’assemblea o anche del consiglio di
amministrazione, in base ad apposita previsione statutaria, poiché, non avendo
il legislatore fornito una nozione intrinseca di direttore generale collegata
alle mansioni svolte, non è configurabile alcuna interpretazione estensiva od
analogica che consenta di allargare lo speciale ed eccezionale regime di
responsabilità di tale figura ad altre ipotesi, salva la ricorrenza dei diversi
presupposti dell’amministratore di fatto;
l’ordinanza pure sopra richiamata, pronunciando
proprio in tema di competenza, ha affermato che, allorché la responsabilità del
direttore generale di una società per azioni sia stata prospettata sotto il
profilo delle inadempienze poste in essere nello svolgimento delle sue
mansioni, ossia nell’ambito del rapporto di lavoro, l’azione, dovendosi
effettuare una valutazione alla stregua della domanda e dei fatti costitutivi
come in essa allegati, non va proposta alla sezione specializzata del Tribunale
delle imprese, di cui al d.lgs. n. 168 del 2003,
ma al giudice del lavoro, attesa l’espressa salvezza stabilita dall’art. 2396 cod. civ.;
la stessa ricorrente dà atto della sussistenza del
consolidato indirizzo in materia appena ricordato (v. p. 19 del ricorso) ma lo
ritiene non condivisibile sul presupposto che la nomina del direttore generale,
effettuata dal consiglio di amministrazione in assenza di specifica norma
statutaria, non possa per ciò solo sottrarre l’azione di responsabilità
proposta nei confronti del predetto alla disciplina di cui all’art. 2396 cod. civ., senza tuttavia fornire
condivisibili argomenti atti al superamento di tale orientamento della
giurisprudenza di legittimità;
le dedotte incongruenze, sopra riportate a p. 3 e
sgg. non sono – come pure evidenziato dal P.M. nelle sue conclusioni scritte –
tali da indurre al superamento del ricordato orientamento giurisprudenziale,
tanto più che la distinzione comporta solo l’applicabilità o meno dell’art. 2396 cod. civ., ma non rende privo di tutela
chi sia nominato amministratore al di fuori delle specifiche ipotesi
individuate dalla richiamata norma ovvero chi agisca nei confronti dello stesso
ed è determinata dal difetto della già ricordata nomina formale;
la ricorrente, anche a prescindere dalla
riconducibilità del rapporto alla disposizione di cui all’articolo da ultimo
citato, richiama pure, come sopra già riportato, la tematica
dell’amministratore di fatto ed il principio, più volte affermato dalla
giurisprudenza di legittimità, secondo cui «la verifica della competenza va
attuata alla stregua delle allegazioni contenute nella domanda e non anche
delle contestazioni mosse alla pretesa dalla parte convenuta, tenendo altresì
conto che, qualora uno stesso fatto possa essere qualificato in relazione a
diversi titoli giuridici, spetta alla scelta discrezionale della parte attrice
la individuazione dell’azione da esperire in giudizio, essendo consentito al
giudice di riqualificare la domanda stessa soltanto nel caso in cui questa presenti
elementi di ambiguità non altrimenti risolvibili» (Cass., ord. 29 agosto 2017,
n. 20508; v. anche Cass., ord., 17/05/2007, n. 11415; Cass., ord., 26/03/2014,
n. 7182);
a tale riguardo va verificato se la controversia,
come prospettata da parte attrice, rientri tra quelle previste dall’art. 3, comma 2, del d.lgs. 27 giugno
2003, n. 168 che, nel testo applicabile ratione temporis – a seguito della
sostituzione da parte della lettera d) del comma 1 dell’art. 2, D.L. 24 gennaio
2012, n. 1, come sostituito dalla legge di
conversione 24 marzo 2012, n. 27, in tema di competenza del Tribunale delle
imprese prevede:
«2. Le sezioni specializzate sono altresì
competenti, relativamente alle società di cui al libro V, titolo V, capi. V, VI
e VII, e titolo VI, del codice civile, alle società di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 del Consiglio,
dell’8 ottobre 2001, e di cui al regolamento (CE)
n. A 1435/2003 del Consiglio, del 22 luglio 2003, nonché alle stabili
organizzazioni nel territorio dello Stato delle società costituite all’estero,
ovvero alle società che rispetto alle stesse esercitano o sono sottoposte a
direzione e coordinamento, per le cause e i procedimenti:
a) relativi a rapporti societari ivi compresi quelli
concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di
un rapporto societario, le azioni di responsabilità da chiunque promosse contro
i componenti degli organi amministrativi o di controllo, il liquidatore,
direttore generale ovvero il dirigente preposto alla redazione dei documenti
contabili societari, nonché contro il soggetto incaricato della revisione
contabile per i danni derivanti da propri inadempimenti o da fatti illeciti
commessi nei confronti della società che ha conferito l’incarico e nei
confronti dei terzi danneggiati, le opposizioni di cui agli articoli 2445, terzo comma, 2482, secondo comma, 2447-quater,
secondo comma, 2487-ter, secondo comma, 2503, secondo comma, 2503-bis,
primo comma, e 2506-ter del codice civile;
b) relativi al trasferimento delle partecipazioni
sociali o ad ogni altro negozio avente ad oggetto le partecipazioni sociali o i
diritti inerenti;
c) in materia di patti parasociali; anche diversi da
quelli regolati dall’articolo 2341 – bis del codice
civile;
d) aventi ad oggetto azioni di responsabilità
promosse dai creditori delle società controllate contro le società che le
controllano;
e) relativi a rapporti di cui all’articolo 2359, primo comma, numero 3), all’articolo 2497-septies e all’articolo 2545-septies del codice civile;
f) relativi a contratti pubblici di appalto di
lavori, servizi o forniture di rilevanza comunitaria dei quali sia parte una
delle società di cui al presente comma, ovvero quando una delle stesse
partecipa al consorzio o al raggruppamento temporaneo cui i contratti siano
stati affidati, ove comunque sussista la giurisdizione del giudice ordinario»;
il contrasto tra i due orientamenti della
giurisprudenza di legittimità in relazione al rapporto tra società e
amministratore, ai quali ha fatto ampio riferimento il P.G. nelle sue
conclusioni scritte – quello prevalente, secondo cui «la controversia nella
quale l’amministratore di una società di capitali, o ente assimilato, chieda la
condanna della società stessa al pagamento di una somma dovuta per effetto
dell’attività di esercizio delle funzioni gestorie, è soggetta al rito del
lavoro ai sensi dell’art. 409, n. 3, cod. proc.
civ., atteso che, se verso i terzi estranei all’organizzazione societaria è
configurabile, tra amministrazione e società, un rapporto di immedesimazione
organica, all’interno dell’organizzazione ben sono configurabili rapporti di
credito nascenti da un’attività come quella resa dall’amministratore, continua,
coordinata e prevalentemente personale, non rilevando in contrario il contenuto
parzialmente imprenditoriale dell’attività gestoria e l’eventuale mancanza di
una posizione di debolezza contrattuale dell’amministratore nei confronti della
società» (Cass., sez. un., 14/12/1994, n. 10680;
Cass. 27/05/1995, n. 5976; Cass. 17/06/1995, n. 6901; Cass. 14/02/2000, n.
1662; Cass. 29/03/2001, n. 4662; Cass. 20/02/2009,
n. 4261; Cass., ord., 2/07/2013, n. 16494;
Cass., 9/12/2015, n. 24862), e quello
minoritario, secondo cui «il rapporto intercorrente tra la società e
l’amministratore, al quale è affidata la gestione sociale, è di immedesimazione
organica, e non può essere qualificato come rapporto di lavoro subordinato o di
collaborazione continuata e coordinata, dovendo invece essere ascritto all’area
del lavoro professionale autonomo» (Cass.,
1/04/2009, n. 7961; Cass. 26/02/2002, n. 2861),
che non affronta ex professo il tema della competenza, ma fa derivare da tale
affermazione la conclusione che il disposto dell’art.
36, primo comma, Cost., relativo al diritto ad una retribuzione
proporzionata e sufficiente, pur costituendo norma immediatamente precettiva e
non programmatica, non è applicabile al predetto rapporto, per cui è legittima
la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni – è stato risolto
dalle Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza
20/01/2017, n. 1545 nel senso che «l’amministratore unico o il consigliere
di amministrazione di una s.p.a. sono legati alla stessa da un rapporto di tipo
societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona
fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso
in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c.»;
in tale sentenza è stato, tuttavia, opportunamente
precisato che non può escludersi che s’instauri, tra la società e la persona
fisica che la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso
rapporto che assuma, secondo l’accertamento esclusivo del giudice di merito, le
caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d’opera, come già
indicato da Cass. 7/03/1996, n. 1796;
e nel caso all’esame, con la domanda introduttiva,
ci si duole di pretesi inadempimenti inerenti proprio al rapporto di lavoro a
tempo indeterminato (v. ordinanza impugnata p. 8), richiamato nell’atto di
citazione, e non afferenti al rapporto di immedesimazione organica che
determinerebbe l’attrazione della competenza al tribunale delle imprese ai
sensi dell’art. 3, secondo comma,
lett. a) d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168, con la precisazione che la
possibilità di operare tale distinzione trova conferma proprio nella richiamata
ordinanza di questa Corte n. 17309/2018; peraltro, non sono stati descritti
specifici comportamenti tenuti nei confronti dei terzi con i quali il C. abbia
in modo continuativo e sistematico assunto obbligazioni vincolando la società,
ad eccezione della conclusione di quattro contratti di compravendita di vino
nel 2013 con la cantina La Vis, il che rientrava nelle mansioni del lavoratore
e comunque trattavasi di atti singoli e posti in essere in un limitato arco di
tempo, come messo in rilievo dal Tribunale; la stessa ricorrente, per
contestare sul punto l’ordinanza impugnata, si limita a richiamare generiche
indicazioni contenute nella comparsa conclusionale (v. ricorso p. 26) e solo in
tale comparsa ha esplicitamente dedotto la concorrente qualifica del C. quale
“dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili”; non può,
quindi, ritenersi che la domanda proposta possa essere attribuita alla
competenza del Tribunale di Trento – Sezione specializzata in materia di
impresa, considerando il convenuto quale amministratore di fatto o comunque
quale dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili, in base alle
argomentazioni espresse all’inizio del presente capoverso e dovendosi, in ogni
caso, effettivamente ritenere la prospettazione di siffatte qualità prima facie
artificiosa e finalizzata a sottrarre la cognizione della causa al giudice
preordinato per legge (Cass. 17/05/2007, n. 11415);
alla luce di quanto precede e, in particolare, del
principio da ultimo affermato da questa Corte con l’ordinanza 3/07/2018, n.
17039, il ricorso risulta infondato in relazione alla questione di competenza
in parola;
considerato altresì che:
quanto alla statuizione sulle spese operata dal
Tribunale con l’ordinanza impugnata in questa sede, va richiamato il principio
già affermato da questa Corte e che va ribadito in questa sede, secondo cui «il
regolamento (necessario) di competenza avverso la sentenza (o l’ordinanza) che
ha pronunciato soltanto sulla competenza e sulle spese di lite comporta la
devoluzione alla S.C. anche della decisione sul capo concernente le spese, non
avendo il ricorrente l’onere di impugnare la pronuncia sulle spese, né potendo
ciò fare mediante un’impugnazione distinta, proposta nei modi ordinari –
ammissibile soltanto qualora detta parte censuri esclusivamente il capo
concernente le spese, ovvero nel caso in cui sia la parte vittoriosa sulla
questione di competenza a censurare tale statuizione – in quanto siffatto
regolamento costituisce un mezzo di impugnazione al quale sono applicabili le
norme generali in materia di impugnazioni non derogate dalla specifica
disciplina per esso stabilita e perché la pronuncia sulle spese processuali non
costituisce una statuizione autonoma e separata rispetto alla dichiarazione di
incompetenza, sicché la rimessione alla 5.C. della questione di competenza,
mediante l’istanza di regolamento, implica, in via consequenziale, anche la
cognizione sulla pronunzia in tema di spese, destinata ad essere caducata, nel
caso di suo accoglimento. Peraltro, qualora il regolamento sia accolto ed il
giudizio debba proseguire innanzi al giudice dichiaratosi incompetente, la S.C.
deve provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 91, primo comma, ultima parte, cod. proc. civ.,
mentre sulle spese relative alla fase svoltasi innanzi al giudice erroneamente
dichiaratosi incompetente deve provvedere quest’ultimo, all’esito del giudizio
che, una volta riassunto, continua innanzi al medesimo e nel quale conservano
rilevanza gli atti compiuti sino alla sentenza di incompetenza cassata, mentre,
nel caso di mancata riassunzione, le spese, ai sensi dell’art. 310, ultimo comma, cod. proc. civ., restano a
carico delle parti che le hanno anticipate» (Cass., sez. un., ord., 6/07/2005,
n. 14205);
nella specie va, tuttavia, evidenziato che,
rientrando la facoltà di disporre la compensazione delle spese processuali tra
le parti nel potere discrezionale del giudice di merito, questi non è tenuto a
dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà,
con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata
senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere
censurata in cassazione (Cass., sez. un., 15/07/2005, n. 14989; Cass. 19/06/2013, n. 15317; Cass., ord., 31/03/2017, n. 8421);
Ritenuto che
conclusivamente va dichiarata la competenza del
Tribunale di Rovereto in funzione di giudice del Lavoro, dinanzi al quale il
processo dovrà essere riassunto nei termini di legge;
le spese del presente procedimento, liquidate come
in dispositivo, seguono la soccombenza;
va dato atto della sussistenza dei presupposti per
il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, d.P.R. 30
maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo
unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Dichiara la competenza del Tribunale di Rovereto in
funzione di giudice del Lavoro; condanna la ricorrente al pagamento, in favore
del resistente, delle spese del presente procedimento, che liquida in euro
3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli
esborsi liquidati in euro 200,00 e agli accessori di legge; ai sensi dell’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R.
30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.