Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 gennaio 2020, n. 823
Mancata dichiarazione dell’esistenza di un contestuale
rapporto di lavoro subordinato, Licenziamento per giusta causa, Divieto di
cumulo di impieghi e di plurima retribuzione a carico del bilancio dello Stato
– Conversione giudiziale del rapporto di lavoro temporaneo per nullità del
termine, Applicabilità del regime cd. “a tutele crescenti”
Fatto
Con sentenza 28 febbraio 2018, la Corte d’appello di
Roma rigettava il reclamo proposto dalla Fondazione Accademia Nazionale di
Santa Cecilia avverso la sentenza di primo grado, di rigetto della sua
opposizione all’ordinanza, ai sensi dell’art. 1, quarantanovesimo comma I.
92/2012, di accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato il
26 maggio 2016 a R. D. per giusta causa, con le conseguenti condanne della
Fondazione alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno
ai sensi dell’art. 18, quarto
comma I. 300/1970, come novellato dalla I.
92/2012.
Al D. era stato contestato di non avere dichiarato
l’esistenza di un contestuale rapporto di lavoro subordinato con la Banda
dell’Esercito alle dipendenze del Ministero della Difesa, in occasione della
riassunzione in servizio con mansioni di “tromba” nell’orchestra
determinata da una precedente sentenza della medesima Corte d’appello n.
2685/2016, la quale aveva dichiarato la conversione a tempo indeterminato del
rapporto per effetto dell’illegittimità di contratti a termine pregressi tra il
lavoratore e la Fondazione.
A motivo della decisione, la Corte territoriale, in
argomentata condivisione del percorso motivazionale del Tribunale diffusamente
riportato, ribadiva:
a) l’inapplicabilità dell’art. 1, secondo comma, d.lg. 23/2015
alla conversione giudiziale del rapporto di lavoro temporaneo per nullità del
termine, anche in base ad interpretazione costituzionalmente orientata;
b) l’insussistenza del fatto contestato per mancanza
di rilevanza disciplinare e di disvalore giuridico e sociale, per la natura di
violazione meramente formale del fatto addebitato (poiché il lavoratore, a
seguito di pubblicazione della sentenza di conversione della Corte d’appello in
data 17 maggio 2016 e di ricevimento, il 18 maggio successivo, del telegramma
della Fondazione di ripresa del servizio, aveva lo stesso 18 maggio
immediatamente rassegnato le dimissioni con effetto, secondo la regola vigente
nel pubblico impiego, dall’accettazione della P.A. il 24 maggio 2016, con
imputazione del periodo dal 19 al 24 maggio a licenza ordinaria), avendo così
reso la prestazione lavorativa in favore della sola Fondazione;
c) la natura di falso innocuo del comportamento
addebitato al lavoratore, in assenza di alcuna offensività;
d) l’insussistenza della violazione degli interessi
tutelati dal divieto di cumulo di impieghi stabilito dall’art. 9, primo e secondo comma d.lg.
498/1992, di plurima retribuzione a carico del bilancio dello Stato (non
essendo in tale condizione la Fondazione Accademia Santa Cecilia) e di
esclusività del rapporto di lavoro, a garanzia della non concorrenza del
lavoratore presso altri datori e di massima diligenza nella prestazione
lavorativa (concretamente osservate da R. D’I. per le ragioni accertate);
e) la coerente applicazione della tutela
reintegratoria prevista dall’art.
18, quarto comma, I. 300/1970, come novellato dalla I. 92/2012, in ragione dell’inoperatività della
disciplina introdotta dal d.lg. 23/2015 e
dell’irrilevanza disciplinare del fatto contestato.
Con atto notificato il 27 aprile 2018, la Fondazione
ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui il lavoratore resisteva con
controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1. In via preliminare, deve essere disattesa
l’eccezione di nullità del ricorso, in quanto proposto da un avvocato del
libero foro, anziché dall’Avvocatura dello Stato, per l’assenza di una
specifica deliberazione della Fondazione. Essa si fonda su un recente arresto
di questa Corte (Cass. 21 novembre 2018, n. 30118),
secondo cui le fondazioni liriche, sebbene trasformate in fondazioni di diritto
privato, possono continuare, ai sensi dell’art. 1, terzo comma d.l. 345/2000,
conv. dalla I. 6/2001, ad avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato,
configurandosi così un’ipotesi di “patrocinio autorizzato” per legge,
a norma dell’art. 43 r.d. 1611/1933, come mod. dall’art. 11 I. 103/1979, con la
conseguenza che, ove le fondazioni stesse, sempre a norma del citato art. 43,
intendano in casi speciali non avvalersi della predetta Avvocatura, debbano
adottare un’apposita deliberazione motivata da sottoporre agli organi di
vigilanza.
1.1. L’eccezione è inammissibile.
Non può, infatti, essere trascurata la circostanza
che nell’odierna controversia, al contrario che nel citato precedente (nel
quale la questione era stata oggetto dei due motivi di gravame avverso la
sentenza della Corte d’appello, che già aveva dichiarato inammissibile il
ricorso della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova proprio sul rilievo
della sua proposizione da un avvocato del libero foro e non dall’Avvocatura
dello Stato, in assenza di una deliberazione della Fondazione in tale senso),
la questione sia stata per la prima volta prospettata non nel controricorso ma
soltanto nella memoria comunicata ai sensi dell’art.
378 c.p.c. Orbene, fermo il noto principio per cui anche le questioni
rilevabili d’ufficio sono precluse in sede di legittimità laddove presuppongano
accertamenti di fatto (da ultimo: Cass. 24 gennaio
2019, n. 2038), la mancata eccezione in controricorso ha sostanzialmente
impedito al procuratore della Fondazione ricorrente la possibilità di
contestarla, eventualmente depositando la relativa delibera sottoposta agli
organi di vigilanza ai sensi dell’art. 372 c.p.c.,
mediante elenco da notificare alle altre parti (Cass. 22 luglio 2005, n.
15498).
2. Ciò premesso, con il primo motivo, la ricorrente
deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, secondo comma, d.lg. 23/2015,
per la ravvisata inapplicabilità del nuovo regime del cd. “contratto a
tutele crescenti” alla conversione giudiziale del rapporto di lavoro a
tempo determinato, per ritenuta nullità del termine, successiva, come nel caso
di specie, alla data di sua entrata in vigore. A dire del ricorrente dovendosi
fare riferimento, per la corretta individuazione della disciplina applicabile
ratione temporis, al momento di emissione della sentenza di conversione e non
della stipulazione dell’originario contratto di lavoro, secondo
un’interpretazione in sede di legittimità già adottata in riferimento
all’applicazione dell’art. 32,
quinto comma I. 183/2010 ed avuto anche riguardo all’ipotesi di conversione
dell’apprendistato (qualora ritenuto illegittimo il recesso ad nutum al termine
del periodo di formazione) in rapporto a tempo indeterminato, rispetto alla
quale un tale rapporto sussiste fin dall’origine; con erroneità della supposta
interpretazione costituzionalmente orientata della Corte di merito, in assenza
di un eccesso di delega del decreto legislativo rispetto alla legge delega (per
il riferimento dell’art. 1,
settimo comma, lett. c I. 183/2014 soltanto alle “nuove
assunzioni”) e della paventata irragionevolezza per disparità di
trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost.,
qualora sia adottata la patrocinata diversa interpretazione di applicabilità
dell’art. 1, secondo comma d.lg.
23/2015.
3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce,
sull’assunto dell’operatività nel caso della disciplina del d. Ig. 23/2015, la violazione e falsa
applicazione dell’art. 11 di detto decreto legislativo, il quale esclude il
rito speciale previsto per l’impugnativa dei licenziamenti dalla cd.
“legge Fornero”.
4. Essi sono congiuntamente esaminabili per ragioni
di stretta connessione e sono infondati.
4.1. Giunge all’esame di questa Corte la questione
dell’interpretazione dell’art. 1,
secondo comma d.Ig. 23/2015.
Come noto, con la previsione contenuta nell’art. 1, settimo comma, lett. c) I.
183/2014 (in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi
per il lavoro e delle politiche attive, nonché in particolare di riordino della
disciplina dei rapporti di lavoro) si delegava il Governo a prevedere,
“per le nuove assunzioni”, l’istituzione di un contratto a tempo
indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio,
secondo la dichiarata finalità legislativa di “rafforzare le opportunità
di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di
occupazione”.
In attuazione della delega, con il d.lg. 23/2015, è stato definito il campo
applicativo per “i lavoratori che rivestono la qualifica di operai,
impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente
decreto” (art. 1, primo comma), ossia dal 7 marzo 2015.
Il successivo comma (secondo) dell’art. 1,
sottoposto allo scrutinio della Corte in funzione nomofilattica, recita:
“Le disposizioni di cui al presente decreto si
applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del
presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in
contratto a tempo indeterminato”.
4.2. Parte ricorrente sostiene che, in virtù di tale
disposizione, si applichi il nuovo decreto anche alle ipotesi di contratti
originariamente stipulati a tempo determinato prima dell’entrata in vigore di
esso ma convertiti a tempo indeterminato mediante pronuncia giudiziale
successiva al 7 marzo 2015. L’assunto non può essere condiviso.
4.3. E’ certo che il Governo potesse adottare una
innovativa disciplina di tutela per i licenziamenti illegittimi esclusivamente
in esecuzione di una delega parlamentare che la prevedeva, come detto,
“per i nuovi assunti”.
Giova pure rammentare come, in funzione incentivante
di tali nuove assunzioni “al fine di promuovere forme di occupazione
stabile”, siano stati introdotti dalla legge di stabilità per l’anno 2015
sgravi contributivi, per un periodo massimo di trentasei mesi (art. 1, comma 118 I. 190/2014).
Orbene, i lavoratori assunti con contratto a tempo
determinato prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo, con rapporto
di lavoro giudizialmente convertito a tempo indeterminato solo successivamente
a tale decreto in alcun modo possono essere considerati “nuovi
assunti”.
4.4. Infatti occorre ribadire che, in tema di
contratti di lavoro a tempo determinato, la sentenza che accerta la nullità
della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto
illegittimamente interrotto, cui è connesso l’obbligo del datore di riammettere
in servizio il lavoratore, ha natura dichiarativa e non costitutiva. Da tale
affermazione consegue quella del coerente effetto ex tunc della conversione in
rapporto di lavoro a tempo indeterminato operata a decorrere dalla illegittima
stipulazione del contratto a termine (Cass. 26 marzo 2019, n. 8385). Con tale
pronuncia questa Corte ha quindi ritenuto definitivamente fugati dalla sentenza
della Corte costituzionale 8 luglio 2014, n. 226 (di infondatezza della
questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, quinto comma I. 183/2010,
come interpretato autenticamente dalla legge n.
92/2012, in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione alla clausola 8.3
dell’Accordo Quadro europeo sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE) i dubbi
interpretativi insorti in ordine alla locuzione “ricostituzione del
rapporto di lavoro”, secondo i quali il legislatore avrebbe accreditato la
tesi secondo cui la conversione del rapporto operasse ex nunc e non ex tunc
(p.to 8 in motivazione Cass. n. 8385/2019
cit.).
4.5. Pertanto, sulla base di una corretta lettura
tecnico-giuridica dell’espressione “conversione”, utilizzata in
dottrina ed in giurisprudenza per descrivere il meccanismo secondo cui la
nullità della clausola di apposizione del termine non comporta la nullità
dell’intero contratto, in ossequio al principio di conservazione del negozio
giuridico, ma la sua elisione a norma dell’art.
1419, secondo comma c.c., con la conseguente trasformazione del rapporto di
lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato (Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 15 maggio
2018, n. 11830), occorre operare un’interpretazione della norma in esame che
sia rigorosamente circoscritta alle ipotesi tassativamente stabilite, al fine
di assicurare il rispetto dei limiti della delega: diversamente prospettandosi
un vizio di illegittimità costituzionale per eccesso, in violazione degli artt. 76 e 77 Cost.
4.6. Cade allora opportuno richiamare la
qualificazione dell’eccesso di delega alla stregua di “figura comprensiva
della mancanza, anche parziale, di delegazione … uso del potere normativo da
parte del Governo oltre il termine fissato, ovvero in contrasto con i
predeterminati criteri direttivi o per uno scopo estraneo a quello per cui la
funzione legislativa fu delegata” (Corte cost. 26 gennaio 1957, n. 3). E
così pure come, secondo la giurisprudenza costituzionale, “il controllo
della conformità della norma delegata alla norma delegante, richied”(a)
“un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno,
relativo alla norma che determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi
della delega”, nel senso che “il contenuto della delega deve essere
identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono
la legge-delega ed i relativi principi e criteri direttivi, nonché delle
finalità che la ispirano, verificando, nel silenzio del legislatore delegante
sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in
contrasto con gli indirizzi generali della medesima”-, l’altro, relativo
alla norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi
ultimi”, nel senso che “la delega legislativa non esclude ogni
discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o meno ampia, in relazione
al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega” alla luce
del”/a ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con
questa coerente”, non ostando “l’art. 76
Cost. … all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e,
se del caso, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante,
poiché deve escludersi che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad
una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal primo … nella
fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi (Corte
cost. 11 aprile 2008, n. 98).
4.7. Il rispetto del suddetto limite esige allora
siccome doverosa, quando sia possibile senza prospettare una questione di
illegittimità costituzionale, un’interpretazione costituzionalmente orientata
(Corte cost. 22 febbraio 2017, n. 58): nel senso che “le leggi non si
dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne
interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma
perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (Corte cost. 22
ottobre 1996, n. 356); così che “eventuali residue incertezze di lettura
sono destinate a dissolversi una volta che si sia adottato, quale canone
ermeneutico preminente, il principio di supremazia costituzionale che impone
all’interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente possibili, per quella
che rende la disposizione conforme a Costituzione” (Corte cost. 14
novembre 2003, n. 198, richiamata da Cass. 17 luglio 2015, n. 15083).
4.8. Inoltre, deve essere pure sottolineato come la
diversa interpretazione, secondo la quale la conversione in esame sarebbe
soggetta al nuovo regime introdotto dal c.d. Jobs act, comporterebbe
un’evidente quanto irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori
egualmente assunti a tempo determinato prima della sua introduzione ma con la
conversione del rapporto, per nullità del termine, in uno a tempo indeterminato
in base a sentenze emesse tuttavia, per mero accidente indipendente dalle
rispettive volontà, talune prima, altre dopo tale data. Ed infatti, lavoratori
nelle stesse condizioni temporali di assunzione (a tempo determinato) e di
conversione del rapporto di lavoro subordinato (a tempo
indeterminato, per nullità del termine) sarebbero
soggetti a regimi di tutela sensibilmente diversi: quelli
“convertiti” prima del 7 marzo 2015, al regime cd. Fornero; quelli
“convertiti” dopo, al regime del c.d. Jobs act.
Né una tale situazione sarebbe imputabile ad una mera
successione di leggi nel tempo, comportanti diversi regimi di trattamento in
dipendenza di scelte del legislatore, ma piuttosto ad un criterio di
applicazione di un regime che può essere letto in modo uniforme, reso invece
disparitario da un’operazione dell’interprete neppure corretta, per le ragioni
innanzi dette.
Sicché, la disomogeneità di trattamento non sarebbe
giustificabile con il richiamo del noto principio, consolidato nella
giurisprudenza della Corte costituzionale (recentemente richiamato anche dalla
sentenza 8 novembre 2018, n. 194, al p.to 6. del Considerato in diritto),
secondo cui “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un
trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti
diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento
di diversificazione delle situazioni giuridiche” (Corte cost. 13 novembre
2014, n. 254, al p.to 3. del Considerato in diritto, con richiamo delle
ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n.
212 e n. 77 del 2008), posto che spetta “alla discrezionalità del
legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera
temporale di applicazione delle norme” (Corte cost. 23 maggio 2018, n.
104, al p.to 7.1. del Considerato in diritto, con richiamo delle sentenze n.
273 del 2011 e n. 94 del 2009).
4.9. Alla luce dei superiori chiarimenti
ermeneutici, al fine di ascrivere alla disposizione in discorso un significato
né pleonastico, né tanto meno irrilevante nella sua portata precettiva, occorre
allora individuare quelle ipotesi di contratti a termine stipulati prima
dell’entrata in vigore del d.lg. 23/2015 che
si convertano in contratti a tempo indeterminato dopo tale data, in una
corretta equiparazione alle nuove assunzioni non lesiva del principio di parità
di trattamento.
Tra esse sicuramente rientrano quelle di conversione
volontaria (idest: trasformazione, ma il termine “conversione” è
impiegato anche in riferimento al contratto nullo: art.
1424 c.c.), per effetto di una manifestazione di volontà delle parti
successiva all’entrata in vigore del decreto, con effetto novativo.
Ma anche le ipotesi di conversione giudiziale di
contratti a termine stipulati anteriormente al d.lg.
23/2015 ma che producano i loro effetti di conversione dopo la sua entrata
in vigore, perché successivo è il vizio che li colpisce, quali:
a) la continuazione del rapporto di lavoro oltre trenta
giorni (in caso di contratto a termine di durata inferiore a sei mesi) ovvero
oltre cinquanta giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a
sei mesi), ai sensi dell’art. 5,
secondo comma d.lg. 368/2001 (Cass. 21 gennaio
2016, n. 1058, in riferimento al previgente termine di venti, anziché di
trenta giorni), qualora la scadenza sia successiva al 7 marzo 2015 (da essa
considerandosi “il contratto … a tempo indeterminato “);
b) la riassunzione entro dieci giorni dalla scadenza
del primo contratto a termine (qualora di durata inferiore a sei mesi) ovvero
entro venti giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei
mesi), ai sensi dell’art. 5,
terzo comma d.lg. 368/2001, qualora il secondo contratto (che “si
considera a tempo indeterminato”) sia stato stipulato dopo il 7 marzo
2015;
c) il superamento “per effetto di una
successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni
equivalenti” nel “rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e
lo stesso lavoratore … complessivamente” dei “trentasei mesi
comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione
che intercorrono tra un contratto e l’altro”, sicché “il rapporto di
lavoro si considera a tempo indeterminato” (art. 5, comma 4bis), qualora
detto superamento sia successivo al 7 marzo 2015 (Cass.
s.u. 31 maggio 2016, n. 11374, p.ti da 54 a 59 in motivazione, ad
illustrazione delle suddette ipotesi ed in particolare di quest’ultima,
debitamente differenziata, proprio in merito alla diversa decorrenza rispetto a
quella di successione di contratti a termine senza soluzione di continuità,
prevista dall’art. 5, quarto
comma d.lg. 368/2001, per escluderne il contrasto con la clausola n. 5
dell’Accordo Quadro, recepito nella Direttiva n.
1999/70/CE).
4.10. Si può allora concludere che la conversione a
tempo indeterminato del contratto a termine stipulato tra le parti (in data 27
novembre 1999, secondo l’indicazione al p.to 3.1. di pg. 3 del ricorso, diversa
da quella del 1° dicembre 2011, invece indicata a pg. 1 della memoria finale
della stessa ricorrente: con incongruenza comunque irrilevante per
l’anteriorità in ogni caso della data di conversione al 7 marzo 2015), per
effetto della sua nullità accertata con sentenza 5 maggio 2016 della Corte
d’appello di Roma, si configura come un patto modificativo (avente ad oggetto
la clausola relativa al termine finale) di un rapporto di lavoro già instaurato
e convertito prima dell’entrata in vigore del d.lg.
23/2015, con la conseguente inapplicabilità del suo regime di tutela.
4.11. Le ragioni argomentative svolte illustrano la
corretta, in quanto naturale, applicabilità del regime, oltre che di tutela
stabilito dall’art. 1 I. 92/2012,
anche del rito processuale cd. Fornero.
5. Esse comportano pure l’assorbimento del terzo
motivo, con il quale la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli
artt. 3 d.lg. 23/2015, 3 d. lg. 64/2010 e 9, primo comma I. 498/1992, per
erronea applicazione della tutela reintegratoria, tenuto conto della sua
previsione, a mente della prima norma denunciata, nelle sole “ipotesi di
licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia
direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale
contestato al lavoratore” , per l’esistenza del fatto nella sua
materialità e l’esclusione di ogni legittima valutazione di proporzionalità.
6. Con il quarto motivo, la ricorrente Fondazione
deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 18, quarto e quinto comma I.
300/1970, per erronea applicazione della tutela reintegratoria per la
sussistenza del fatto nella sua materialità e antigiuridicità e l’assenza di
ipotesi né nel CCNL applicato (segnatamente art. 33), né nel Codice etico di
alcuna sanzione conservativa per lo specifico comportamento tenuto dal
lavoratore.
6.1. Anch’esso è infondato.
6.2. Secondo un insegnamento di legittimità, ormai
consolidato, l’insussistenza del fatto contestato, alla stregua dell’art. 18 I. 300/1970 come
novellato dall’art. 1, comma 42 I. 92/2012,
comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità,
sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la
diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di
modesta illiceità (Cass. 20 settembre 2016, n.
18418; Cass. 10 maggio 2018, n. 11322).
6.3. La Corte territoriale ha fatto una corretta
applicazione del suenunciato principio, avendo accertato nel caso di specie,
con apprezzamento di fatto non rivedibile in questa sede di legittimità, la
totale assenza di offensività del fatto, per la natura di falso innocuo del
comportamento contestato al lavoratore (al p.to 3.3. di pg. 10 della sentenza),
pertanto “tale da ritenere giuridicamente lecito” (al p.to 3.6. di
pg. 13 della sentenza). Essa non ha dunque ravvisato una mancanza di
proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato, così
da porre eventualmente una questione di applicazione del quinto, piuttosto che
del quarto comma dell’art. 18 cit. (Cass. 25 maggio 2017, n. 13178; Cass. 16
luglio 2018, n. 18823; Cass. 12 ottobre 2018, n.
25534), quanto piuttosto una irrilevanza disciplinare dell’addebito.
Eppure, la doglianza si è incentrata sul profilo di
proporzionalità estraneo al ragionamento della Corte nella (non già selezione,
ma) esclusione della tutela, senza punto censurare la ritenuta irrilevanza
disciplinare della fattispecie (per le ragioni svolte, oltre che al già citato
p.to 3.3., anche al p.to 3.4.di pgg. da 10 a 12 della sentenza).
7. Dalle superiori argomentazioni discende allora il
rigetto del ricorso, con la compensazione delle spese del giudizio per la
novità della questione trattata; e il raddoppio del contributo unificato, ove
spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle
indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese
del giudizio.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n.
115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1
bis, dello stesso art. 13, se
dovuto.