Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 gennaio 2020, n. 808

Licenziamento, Illegittimo, Intento ritorsivo, Pagamento di
un’indennità risarcitoria, Identità dei motivi del licenziamento individuale e
di quello collettivo

 

Fatti di causa

 

La Corte d’Appello di Genova, giudice del reclamo ex
articolo 1 comma 58 e seguenti
legge 92/2912, con sentenza del 14 – 18 luglio 2017 numero 389 riformava
parzialmente la sentenza del Tribunale di Massa, che aveva dichiarato nullo in
quanto ritorsivo il licenziamento intimato dalla società D. S.p.A. al
dipendente M.C.; per l’effetto, riteneva il licenziamento illegittimo ai sensi
dell’articolo 18, commi 7 e 5,
della legge 300/1970, dichiarava risolto il rapporto di lavoro e condannava
la società al pagamento di un’indennità risarcitoria.

La Corte territoriale a fondamento della decisione
premetteva che il licenziamento era stato adottato per gli stessi motivi posti
a base della procedura di mobilità avviata e conclusa dalla società, da cui il
C. era rimasto escluso ed osservava che il licenziamento individuale, sebbene
intervenuto oltre i termini previsti dalla legge
223/1991, non poteva fondarsi sugli stessi motivi di quello collettivo,
pena la frustrazione delle finalità sottese alla procedura di mobilità.

La identità dei motivi del licenziamento individuale
rispetto a quelli del licenziamento collettivo risultava oltre che dalla
lettera di licenziamento, dalle difese della società, laddove affermava che la
necessità di adottare il licenziamento individuale era sorta per il fatto che
il C. non aveva accettato quello collettivo, in una situazione in cui l’unico
criterio di scelta concordato dall’azienda con i sindacati era quello della
mancanza di opposizione al licenziamento collettivo.

In via incidentale, pur non essendo oggetto di
causa, la Corte territoriale riteneva la invalidità del predetto criterio di
scelta, in quanto non obiettivo; affermava, comunque, che esso nella logica di
chi lo aveva concordato, doveva individuare i lavoratori da licenziare
nell’ambito della procedura ex lege 223/1991 e
non già fondare il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo
di chi non avesse accettato il licenziamento collettivo.

Il licenziamento, tuttavia, non si qualificava come
ritorsivo: a questi fini rilevava la esclusività del motivo ritorsivo laddove
era indubbio che alla base del licenziamento vi fossero anche motivi economici,
viste le precarie condizioni in cui versava la società e di cui erano prova le
varie procedure di cassa integrazione e licenziamento collettivo che si erano
succedute nel periodo in considerazione.

Inoltre il C., che non aveva negato di avere
rifiutato il licenziamento collettivo – ponendosi nelle condizioni di non
essere collocato in mobilità – non poteva fondatamente sostenere che la società
lo avesse discriminato, licenziandolo individualmente invece che nell’ambito
della procedura di mobilità.

Avverso la sentenza hanno proposto separati ricorsi,
riuniti nel presente procedimento, la società D. S.p.a., articolato in due
motivi, e M.C., articolato in otto motivi; ciascuna delle parti ha resistito
con controricorso al ricorso avversario ed ha depositato memoria.

 

Motivi della decisione

 

Con il primo motivo di ricorso la società D. spa ha
dedotto – ai sensi dell’articolo 360 numero 3
codice procedura civile – violazione o falsa applicazione dell’articolo 24 legge 223/1991,
dell’articolo 3 legge 604/1966,
dell’articolo 41 Costituzione nonché dell’articolo 30 legge 183/2010.

Ha censurato la dichiarazione di illegittimità del
licenziamento, osservando che la Corte di merito avrebbe dovuto esaminare
esclusivamente la sua motivazione ed accertare se la posizione del lavoratore
fosse stata o meno effettivamente soppressa e se questi fosse altrimenti
ricollocabile.

Ha assunto che la sentenza impugnata, affermando che
le motivazioni sottese ad una procedura di mobilità costituiscono un vincolo
per il datore di lavoro anche successivamente al decorso dei termini per
collocare in mobilità i dipendenti e che non è consentito porre a base del
licenziamento individuale, in tutto o in parte, i medesimi motivi di crisi
sottesi alla procedura di mobilità, aveva enucleato un divieto non previsto né
dalla legge 223/1991 – (che con l’articolo 24 prevedeva la sola
necessità di attivare la procedura di licenziamento collettivo in caso di licenziamenti
di almeno cinque dipendenti nell’arco di 120 giorni successivi al termine della
procedura) – né dall’articolo 3
legge 604/1966.

La compressione del diritto del datore di lavoro al
licenziamento per giustificato motivo oggettivo configurava una lesione anche
della libertà di iniziativa economica tutelata dall’articolo
41 della Costituzione, insindacabile dall’autorità giudiziaria, come
riaffermato dall’articolo 30
della legge 183/2010.

La società ha esposto che nella fattispecie di causa
sussisteva la necessità di sopprimere la posizione del C., unica unità
lavorativa addetta ad un deposito non più operativo.

Con il motivo si censura altresì l’incidentale
dichiarazione di illegittimità del criterio di scelta concordato nell’ambito
della procedura di mobilità (la adesione volontaria), trattandosi di questione
non rilevante in causa e, comunque, per essere del tutto immotivata l’assunta
mancanza di oggettività del criterio di scelta.

Il motivo è infondato.

In una ricostruzione di sistema occorre muovere dal
principio della centralità ai fini della verifica di legittimità del
licenziamento collettivo del rispetto delle procedure di comunicazione
preventiva, di consultazione sindacale e di comunicazione dell’elenco dei
lavoratori licenziati; per costante orientamento di questa Corte i profili
attinenti alle ragioni giustificative del recesso collettivo sono infatti assorbiti
dal controllo sulla regolarità di tale procedura.

I residui spazi devoluti alla sede contenziosa non
riguardano, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale – (a
differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato
motivo obiettivo) – ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la
conseguenza che non possono trovare ingresso in tale sede le censure con le
quali si investa l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di
«effettive» esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva,
salva l’ipotesi di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle
organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare
discriminazioni tra i lavoratori (per tutte, Cassazione civile sez. lav.,
21/01/2019, n. 1515 e giurisprudenza ivi citata).

La procedura diretta a ridimensionare l’organico si
scompone, infine, nei singoli licenziamenti, ciascuno giustificato dal rispetto
dei criteri di scelta, legali o stabiliti da accordi intervenuti con il
sindacato.

I principi qui ribaditi resterebbero del tutto privi
di effettività ove – all’esito della gestione «procedimentalizzata» dei motivi
di riduzione del personale rappresentati nella comunicazione di avvio della
procedura – fosse consentito al datore di lavoro di ritornare sulle scelte
compiute quanto al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili
professionali dei lavoratori in esubero ovvero quanto ai criteri di scelta dei
singoli lavoratori da estromettere attraverso ulteriori e successivi
licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.

I licenziamenti individuali così effettuati,
infatti, sebbene riconducibili agli stessi motivi oggetto della comunicazione
iniziale, risulterebbero sottratti al confronto con il sindacato, con
l’inevitabile effetto di rendere quel confronto incompleto in ordine al numero,
alla collocazione aziendale ed ai profili professionali del personale eccedente
e non attendibile quanto alla successiva partecipazione, all’atto dei
licenziamenti, delle concrete modalità di applicazione dei criteri di scelta.

Ove, poi, come nella fattispecie di causa, venga
raggiunta una intesa con le organizzazioni sindacali, il vulnus riguarderebbe
anche il rispetto di tali accordi (in ordine al numero degli esuberi ed ai
criteri di scelta), la cui obbligatorietà non può esaurirsi nel tempo all’atto
della conclusione della procedura; diversamente le intese con il sindacato si
ridurrebbero ad un passaggio formale del procedimento e non ad una gestione
partecipata della situazione aziendale rappresentata dall’imprenditore.

Il negoziato con il sindacato realizza, invece, un
effettivo coinvolgimento del soggetto collettivo nelle scelte organizzative
della impresa, che vincola l’imprenditore al rispetto delle scelte concordate, anche
dopo la chiusura della procedura; gli impegni assunti vengono meno soltanto per
effetto del modificarsi della situazione aziendale che costituisce il
presupposto dell’accordo raggiunto.

In sostanza, il datore di lavoro, completata la
procedura di licenziamento collettivo, non può procedere sulla base delle
medesime ragioni negoziate con la controparte sindacale all’ulteriore
licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo di uno o più
lavoratori.

E’ l’identità dei motivi che determinano la
situazione di eccedenza – nonché dei motivi tecnici, organizzativi e
produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure alternative –
che impone all’imprenditore di veicolare la libertà di impresa nell’ambito del
controllo sindacale, senza poter procedere a successivi licenziamenti
individuali; identità da intendere, naturalmente, non in senso formale ma in
senso sostanziale ovvero come parità delle situazioni di fatto poste a base,
rispettivamente, della procedura di licenziamento collettivo e del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Resta da aggiungere che I’ indagine circa la
identità delle predette «ragioni» costituisce un accertamento di fatto rimesso
al giudice del merito; nelle sue valutazioni egli dovrà utilizzare tanto le risultanze
documentali (atti della procedura di licenziamento collettivo e lettera di
licenziamento per giustificato motivo oggettivo) che ogni altro elemento di
prova della sovrapponibilità delle due situazioni a confronto, fermo restando
che lo stesso decorso del tempo rispetto alla data di chiusura della procedura
di licenziamento collettivo potrebbe configurare, tenuto conto delle concrete
circostanze, un mutamento della situazione di fatto.

Una conferma indiretta della indicata ricostruzione
emerge dalla disposizione dell’articolo
17 della legge 223/1991.

Dalla norma risulta, infatti, che il datore di
lavoro dopo la conclusione della procedura di licenziamento collettivo può
procedere alla risoluzione di altri rapporti di lavoro – senza dover esperire
una nuova procedura – soltanto qualora i lavoratori il cui rapporto sia stato
risolto vengano reintegrati a norma dell’articolo 18 della legge 20 maggio
1970, n. 300, sempre con il rispetto del vincolo numerico (licenziamento di
un numero di lavoratori pari a quello dei lavoratori reintegrati) e dei criteri
di scelta di cui all’articolo
5, comma 1, della legge 223/1991. A fronte di ciò, inoltre, egli ha
l’obbligo di preventiva comunicazione del licenziamento alla propria
rappresentanza sindacale aziendale.

Nella fattispecie di causa risulta pacifico: che tra
i posti indicati in esubero nella comunicazione di avvio della procedura di
mobilità (del 24.4.2014) vi era quello occupato dal C. ed altresì che
quest’ultimo non era stato licenziato in ragione del criterio di scelta
concordato con il sindacato, consistente nella volontà di non opporsi al
licenziamento manifestata dal lavoratore entro il 30 settembre 2014.
Correttamente, dunque, la sentenza impugnata, sulla base del preliminare
accertamento della identità delle ragioni del successivo licenziamento
individuale del C., del 21 novembre 2014, ha affermato la illegittimità del
medesimo licenziamento.

Erra, invece, la società ricorrente nel sostenere
che un siffatto divieto di licenziamento individuale non è previsto dalla legge
e viola la liberta di impresa; piuttosto, la interpretazione da essa patrocinata
non tiene conto dei limiti alla iniziativa economica privata che lo stesso articolo 41 della Costituzione impone e prevede
per fini sociali ed altresì porrebbe seri dubbi di conformità dell’ordinamento
nazionale alla direttiva 98/59/CE (che codifica
il testo della direttiva 75/129/CEE) –
considerando numero dodici ed articolo 2, paragrafo 3 – sotto il profilo del
conseguimento dell’ «effetto utile».

Con il secondo motivo – ai sensi dell’articolo 360 numero 5 codice procedura civile – la
ricorrente ha denunziato l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio ed
oggetto di discussione tra le parti nonché la violazione e falsa applicazione
degli articoli 115 e 116
codice procedura civile.

Si assume l’omessa valutazione delle risultanze
istruttorie, dalle quali sarebbe emersa la soppressione della posizione del C.
(per chiusura del deposito cui era assegnato) e la impossibilità del suo
reimpiego.

Tali circostanze risultavano dagli atti della
procedura di mobilità, non erano state mai contestate da controparte ed erano
state confermate dai testi escussi.

Dal materiale probatorio si evinceva anche il
rifiuto già manifestato dal lavoratore ad una diversa collocazione, essendosi
egli opposto al trasferimento ad altro deposito.

Il motivo è infondato.

Dal principio di diritto affermato nell’esame del
primo motivo di ricorso deriva la mancanza di decisività, nel senso auspicato
dalla società ricorrente, del fatto che la effettiva chiusura del deposito cui
il C. era addetto fosse emersa nell’ambito della procedura di mobilità,
conducendo piuttosto, tale circostanza ad esiti opposti a quelli attesi dal
datore di lavoro. Né assume rilievo l’eventuale mancanza di disponibilità del
lavoratore ad un diverso impiego a fronte delle sopra evidenziate ragioni di
illegittimità del licenziamento, che attengono, a monte, alla potestà di
recesso del datore di lavoro.

Il ricorso della società deve essere conclusivamente
respinto; restano da esaminare le ragioni del ricorso del lavoratore.

Il ricorrente M.C. ha denunziato:

– con il primo motivo – ai sensi dell’articolo 360 numero 4 codice procedura civile –
nullità della sentenza e del procedimento in riferimento agli articoli 132 (numero 3 e 4) e 112 codice procedura civile.

Ha dedotto che il giudice del reclamo non aveva
riportato correttamente le sue conclusioni, con conseguente violazione dell’articolo 132 numero 3 codice procedura civile.

Ha esposto che nel ricorso introduttivo e nella
comparsa di costituzione in appello veniva allegata la nullità del
licenziamento per contrarietà a norme imperative. Tale domanda era stata
assorbita nel primo grado, per la dichiarazione della natura ritorsiva del
licenziamento mentre nel grado di reclamo non era stata esaminata nè poteva
dirsi assorbita, con conseguente nullità della sentenza per omessa pronuncia.

Si denunzia, altresì, la inesistenza della
motivazione giacché l’omesso esame di numerosi fatti decisivi determinava
sostanzialmente la decisione di una questione di fatto diversa da quella
dedotta e discussa.

– con il secondo motivo – ai sensi dell’articolo 360 numero 5 codice procedura civile –
omesso esame della vicenda giudiziaria e sostanziale antecedente al
licenziamento.

Il ricorrente ha lamentato l’omessa considerazione
della motivazione formale del licenziamento ed il mancato confronto di essa con
le ragioni di un precedente licenziamento che gli era stato intimato nel
novembre 2011 e che era stato dichiarato nullo con sentenza divenuta
definitiva, senza che egli venisse mai effettivamente reintegrato (in quanto
dapprima trasferito invalidamente a G.T. per due volte consecutive, poi
collocato in aspettativa ed in cassa integrazione ed, infine, posto in ferie e
licenziato individualmente).

L’esame di tali circostanze appariva indispensabile
a fondare il giudizio di nullità del licenziamento perché ritorsivo o contrario
a norme imperative

– con il terzo motivo, omesso esame di un fatto
decisivo per il giudizio, relativo al contenuto degli accordi sulla cassa
integrazione guadagni e sulla mobilità siglati dalla società tra il 2012 ed il
2014, con particolare riferimento all’accordo del 30 giugno 2014.

Il ricorrente ha esposto che nel periodo novembre
2012 – settembre 2014 la società aveva effettivamente avviato alcune procedure
di licenziamento collettivo, nell’ambito delle quali le parti addivenivano ad
accordi in sede ministeriale.

Nell’ultima procedura di mobilità nazionale, con
accordo ministeriale del 30 giugno 2014, era previsto un incentivo all’esodo,
con collocazione in mobilità a favore dei soli lavoratori che avessero
manifestato l’intenzione di non opporsi al licenziamento.

Ha dedotto che l’esame di tale accordo avrebbe
consentito alla Corte territoriale di comprendere che la ratio della mobilità
volontaria non era quella di escludere i lavoratori che non vi aderissero dalle
tutele della legge 223/1991 ma quella di
privilegiare la salvaguardia dei posti di lavoro – con il quarto motivo: omesso
esame di un fatto decisivo per il giudizio, relativo a quanto accaduto
contestualmente al licenziamento impugnato e nell’epoca immediatamente
successiva.

Il ricorrente ha esposto che in epoca pressoché
coeva al termine dell’ultima procedura, con lettere in data 26 settembre 2014
per la regione Lombardia ed in data 15 ottobre 2014 per la regione Lazio la
società aveva avviato nuove procedure di licenziamento collettivo, su base
regionale. Tali circostanze erano state dedotte nel ricorso introduttivo, ammesse
nella memoria di costituzione di controparte ed accertate dal giudice di primo
grado.

Nella comunicazione di avvio del 26.09.2014 non si
segnalava alcun esubero con riferimento allo stabilimento di A.M., cui egli era
ancora addetto come unico dipendente; in data 25 settembre 2014 la società gli
aveva comunicato che al termine del periodo di cassa integrazione in deroga
egli sarebbe stato collocato in ferie e poi in aspettativa.

Dall’esame di tali fatti risultava che la società
era consapevole di avere numerosi esuberi dislocati su più regioni e che la
mancata adesione alla procedura conclusa non escludeva i lavoratori dalle
tutele della legge 223/1991, tanto da avviare
due distinte procedure di mobilità regionali ed al suo unico licenziamento
individuale.

– con il quinto motivo – ai sensi dell’articolo 360 numero 3 codice procedura civile –
violazione dell’articolo 3
legge 604/1966.

Con il motivo si assume l’errore commesso dalla
Corte territoriale laddove, pur pronunciando l’illegittimità del licenziamento,
aveva affermato, al fine di escluderne il carattere ritorsivo, che esso fosse
sostenuto da una valida motivazione economica.

Il giustificato motivo oggettivo indicato nella
lettera di recesso era inesistente, in quanto la soppressione della posizione
lavorativa era già stata attuata nell’anno 2011 ed anche sul piano formale il
recesso costituiva una replica del precedente.

Nulla era stato provato anche con riferimento
all’obbligo di repechage mentre la società ammetteva di avere assunto nuovo
personale dopo il licenziamento.

Alla mancanza di prova del giustificato motivo
oggettivo doveva conseguire l’esame della sua possibile natura ritorsiva.

– Con il sesto motivo, violazione e falsa
applicazione degli articoli 1324, 1345, 1375, 1418 codice civile, impugnando la statuizione di
rigetto della domanda di nullità del licenziamento fondata sulla sua natura
ritorsiva.

Il ricorrente ha assunto che, una volta accertata
l’inesistenza di una legittima motivazione del licenziamento individuale, si
imponeva il vaglio delle circostanze relative alla sua reale motivazione; i
fatti descritti in riferimento ai precedenti motivi dal secondo al quinto del
ricorso, analizzati nella loro connessione logica e temporale, ne rivelavano la
connotazione ritorsiva.

– Con il settimo motivo: violazione e falsa
applicazione – ai sensi dell’articolo 360 numero 5
(rectius: 3) codice procedura civile – degli articoli 4, 5, 24 della legge 223/1991 e
dell’articolo 1418 codice civile.

Con il motivo si deduce la nullità del licenziamento
per violazione delle norme imperative poste dalla legge
223/1991, domanda non indicata dalla Corte d’Appello nella esposizione
delle conclusioni delle parti e non esaminata. Si assume che la vicenda,
correttamente ricostruita, determinava la nullità del licenziamento per
violazione delle norme imperative poste dalla legge
223/1991.

Ulteriore profilo di nullità era ravvisabile nella
reiterazione del precedente licenziamento, dichiarato nullo con precedente
giudicato.

– Con l’ottavo motivo, violazione e falsa
applicazione dell’articolo 18
legge 300/1970.

La censura investe la statuizione di risoluzione del
rapporto di lavoro ed applicazione della sola tutela indennitaria, assumendosi
che la corretta ricostruzione in fatto, con il riconoscimento della nullità del
licenziamento per motivo illecito determinante ovvero per violazione delle
norme imperative di cui alla legge 223/1991 – articoli 4 e 24 ovvero articolo 5 – comportava
l’applicazione dell’articolo
18, comma uno, della legge 300/1970.

Ritiene il Collegio debba essere esaminato in via
preliminare il sesto motivo di ricorso, relativo al rigetto della domanda di
nullità del licenziamento in quanto ritorsivo.

Il motivo è fondato.

La sentenza impugnata dopo avere affermato la
illegittimità del licenziamento individuale del C. – perché adottato per gli
stessi motivi posti a base della procedura di licenziamento collettivo – ha
respinto la domanda di nullità per la natura ritorsiva del medesimo
licenziamento sul rilievo della assenza di esclusività (rectius: del carattere
determinante) del motivo ritorsivo, in quanto al licenziamento avevano concorso
quegli stessi motivi economici posti a base della procedura di licenziamento
collettivo.

Tale statuizione è in contraddizione con il
principio, già enunciato da questa Corte (Cass.,
sezione lavoro 04/04/2019, n. 9468; 23
novembre 2018 nr. 30429), secondo cui affinchè resti escluso il carattere
determinante del motivo illecito del licenziamento ex articolo 1345 c.c. ed articolo 18, comma 1, legge
300/1970 non è sufficiente che il datore di lavoro alleghi l’esistenza di
un giustificato motivo oggettivo ma è necessario che quest’ultimo risulti
comprovato e che, quindi, possa da solo sorreggere il licenziamento, malgrado
il concorrente motivo illecito.

In particolare, la ragione economica posta a base
del licenziamento individuale non può escludere il carattere determinante del
motivo illecito dedotto dal lavoratore tanto nei casi in cui manchi la prova
della sua effettività che nei casi in cui la esigenza organizzativa, pur
esistente, non configuri un giustificato motivo oggettivo ex articolo 3 legge 604/1966; in
entrambe le ipotesi, invero, la ragione allegata dal datore di lavoro non
sarebbe idonea a sorreggere il licenziamento.

Nella fattispecie di causa la Corte territoriale,
avendo escluso la sussistenza del giustificato motivo oggettivo, avrebbe dovuto
procedere all’accertamento in fatto della sussistenza o meno del motivo
illecito, indagine che ha ritenuto superflua alla luce della erronea
affermazione, in punto di diritto, della sua natura non – determinante ex articolo 1345 cod.civ.

La sentenza impugnata deve essere conclusivamente
cassata in accoglimento del sesto motivo del ricorso del lavoratore e la causa
va rinviata alla Corte di Appello di Genova in diversa composizione affinchè,
alla luce del principio di diritto sopra esposto, provveda ad un nuovo esame
della domanda di nullità del licenziamento in quanto ritorsivo.

Dalla cassazione della pronuncia che ha escluso il
motivo ritorsivo del licenziamento deriva l’assorbimento delle ulteriori
censure inerenti alla statuizione cassata.

Le restanti ragioni del ricorso, relative alla
domanda di nullità del licenziamento per violazione degli articoli 4, 5 e 24 della legge 223/1991,
restano assorbite secondo l’ordine logico: dal loro eventuale accoglimento non
deriverebbero per il lavoratore – nel vigente regime dell’articolo 5 legge 223/1991,
ratione temporis applicabile – le medesime conseguenze utili assicurate dall’articolo 18, comma 1, legge
300/1970, poiché la norma citata non collega alla loro violazione alcun
effetto in termini di nullità del licenziamento.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente
al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto- ai sensi dell’art. 1 co 17 L. 228/2012 (che ha
aggiunto il comma 1 quater all’art.
13 DPR 115/2002) – della sussistenza dei presupposti processuali
dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente D. spa dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la
impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso di D. spa. Accoglie il sesto
motivo del ricorso di M.C., assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in
relazione al motivo accolto e rinvia – anche per le spese – alla Corte
d’appello di Genova in diversa composizione.

Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente D. spa dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13,
se dovuto.

Giurisprudenza – CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 16 gennaio 2020, n. 808
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